Il lungo addio del Quartet West fondato da Haden

Il gruppo fondato da Haden nel 1987, su suggerimento della moglie Ruth Cameron, celebra un importante anniversario anche senza il suo leader

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Quartet West
Quartet West

Succede a volte che le grandi cose nascano dalle circostanze più banali. Pensate a Isaac Newton e alla mela che gli cadde sulla testa, illuminandolo sulla forza di gravità. Per limitarci al jazz, prendete invece Quartet West, il gruppo di Charlie Haden del quale ricorre il trentennale della fondazione.

L’antefatto: quando aveva nemmeno vent’anni, il contrabbassista dello Iowa si era trasferito a Los Angeles per varcare la soglia del grande jazz, e la città gli era entrata nel cuore; già nel 1958 lavorava allo Hillcrest Club nel leggendario gruppo di Paul Bley, che comprendeva gli allora sconosciuti Ornette Coleman, Don Cherry e Billy Higgins. Poi la carriera di Haden prese il volo. Anche letteralmente: nel senso che gli aerei lo portarono di continuo in giro per il mondo, sempre più spesso lontano dalla «Città degli angeli». Per lungo tempo il contrabbassista fece base a New York, finché negli anni Ottanta sentì il bisogno di stare più vicino ai tre figli, avuti dalla prima moglie Ellen David. I quali vivevano a Los Angeles, appunto. In proposito l’incontro con la cantante Ruth Cameron, che sarebbe diventata la sua seconda moglie (oltre che manager e co-produttrice di alcuni suoi dischi), fu determinante. Haden ha raccontato: «Ruth mi disse: “Sai, qui ci sono eccellenti musicisti. Puoi fondare un quartetto”, cosa che feci. Ma fu lei a battezzare la band Quartet West». Il contrabbassista diede vita così a un progetto che, osservato oggi, suona come una specie di teoria generale del Tempo.

Fin dalla sua nascita, il gruppo è formato da musicisti versatili come coltellini svizzeri, oltreché tutti attivi in quel momento sulla scena losangelina. Haden sceglie come batterista l’amico Billy Higgins, un uomo capace di illuminare la musica, bop, mainstream o free che fosse; Higgins sarà rimpiazzato nel 1988 – dopo un rapido passaggio di Paul Motian –da Larance Marable, un veterano della scena losangelina, dove si era esibito in contesti sia bop sia cool (al suo posto subentrerà negli ultimi anni di vita del gruppo Rodney Green). Il pianista Alan Broadbent offre una gamma molto ampia di capacità: nato in Nuova Zelanda ma trasferitosi molto giovane in California, oltre a essere una sicurezza in scena, in termini di competenza e di sensibilità, sa arrangiare e dirigere un’orchestra, e inoltre conosce a fondo la musica popolare; tanto per darvi un’idea, collaborerà anche con Paul McCartney. Il multistrumentista Ernie Watts (sax contralto, soprano e tenore, clarinetto, flauto e sintetizzatore) è anch’egli capace di sconfinare nel pop, nel soul e nelle musiche da film. E infine, ovviamente, lo stesso Haden, uomo in grado di lavorare con musicisti diversissimi tra loro, da Alice Coltrane a Carlos Paredes, da Keith Jarrett a Pee Wee Russell. Questo è Quartet West per tutta la sua avventura, che sarebbe stata interrotta soltanto quando Haden, nei suoi ultimi anni di vita, entrò nel tunnel dei gravi problemi di salute.

Quando nel 1987 Verve pubblica il primo disco, intitolato semplicemente «Quartet West», la copertina di primo acchito non sembra particolarmente attraente. Su uno sfondo bianco è posata la vecchia foto in bianco e nero di un palazzo. Non una bella foto. In realtà si tratta di un’immagine significativa: ritrae uno degli storici edifici di Los Angeles, lo spettacolare Country Club Manor disegnato da Leland A. Bryant e costruito nel 1926 a Hancock Park, zona residenziale di midtown destinata all’alta borghesia bianca. Quando nel 1948 andò ad abitarvi Nat Cole, ormai una superstar dello spettacolo americano, partì nei suoi confronti una violenta opposizione razzista allo scopo di scongiurare che anche i neri si stabilissero da quelle parti. E non è da escludersi che proprio Haden, uomo sensibile alle ingiustizie, scelse quella immagine così rappresentativa di Los Angeles. Di sicuro fu sua l’idea di pubblicare in copertina un passo struggente del romanzo di Raymond Chandler Addio mia amata, dove viene descritta la «Città degli angeli» nella notte: «Mi voltai verso le luci di Bay City (…). Sparsi punti di luce formavano un braccialetto di gioielli posato in bella mostra nella notte. Poi sbiadirono in un debole bagliore arancio che appariva e scompariva sulla superficie delle onde». Ed è allo scrittore da lui tanto amato che dedica uno dei pezzi originali del disco, Bay City, un brano swingante che potrebbe fungere da titolo di coda d’un film noir. Il pezzo è incastonato al centro di un elenco che pare una specie di autobiografia del contrabbassista, passioni comprese: Billy Strayhorn, Ornette, Pat Metheny, ballad scolpite nella storia quali Body And Soul, My Foolish Heart e Charlie Parker («Avrei voluto nascere un decennio prima per poter suonare con Parker. Però mi sarei perso Ornette…»).

La direzione presa dal gruppo non indica solamente Los Angeles ma è soprattutto la rappresentazione, fra poesia e psicoanalisi, di un mondo interiore nel quale i ricordi diventano vivi e palpitanti. Precisa, del resto, Haden nelle note di copertina: «L’espressività è una passione all’interno dell’essere umano e non è limitata a una connotazione geografica». Quelli che ascoltiamo sono musicisti «a sangue caldo»: il romanticismo elegante di Broadbent, la passionalità di Watts (idealmente un cocktail di Don Byas, Hank Mobley e Michael Brecker, con l’attacco perentorio e il vibrato ampio di un Gato Barbieri), la tenerezza di Higgins, il grande cuore di Haden, che era capace di far cantare il suo strumento. Mai, come nel caso del Quartet West, è lecito per una volta trascurare le scelte formali, che non sono poi così innovative, per andare subito a ciò che esse veicolano.

Il disco successivo, «In Angel City» (1988), ribadisce quanto enunciato da quello d’esordio. Stavolta in copertina c’è una foto del Club Hillcrest con una locandina che annuncia il quartetto di Ornette Coleman (ma che pare esser stata collocata a posteriori con Photoshop…) «featuring Don Cherry, Charlie Haden, Billy Higgins». La foto risale alla fine degli anni Cinquanta, e sul retro dell’album appare un giovanissimo Haden a torso nudo abbracciato alla custodia del contrabbasso. A scortare la musica sono ancora le parole di Chandler su Los Angeles, dal romanzo La sorellina: «Avevo sentito l’odore di Los Angeles prima di esserci. Sapeva di stantio e di vecchio come una stanza rimasta chiusa troppo a lungo. Ma le luci colorate ti ingannavano. Le luci erano meravigliose. Dovrebbero fare un monumento all’uomo che ha inventato le luci al neon». Anche «In Angel City» presenta temi originali e brani di autori vari. Fra questi ultimi spicca il famoso Blue In Green, da «Kind Of Blue» di Miles Davis. Haden lo dedica a John Garfield, il grande attore cinematografico che ebbe la carriera compromessa dalle sue simpatie di sinistra negli anni bui delle liste nere a Hollywood.

Ed è a Hollywood che si rivolgono più apertamente gli album successivi. È la Hollywood del cinema noir e dei mélo, dei film che diventano bacini dell’American Songbook, quelle grandi melodie che poi approdano nelle radio fino a diffondersi in tutte le case. Haden aveva detto: «Amo cantanti jazz come Billie Holiday e Jeri Southern, i film di Hollywood, gli arrangiamenti orchestrali di Paul Weston, e quella specie di noir losangeleno associato alla figura di Raymond Chandler. Quartet West esplora quel tipo di atmosfera».

Mentre nei concerti il gruppo manterrà lo spirito squisitamente jazzistico dei primi due dischi, come documentano le registrazioni dal vivo del bel doppio album «The Private Collection» (2007), in studio Haden si concede progetti ben più ampi. A partire da «Haunted Heart» (1992) i dischi vengono concepiti come palinsesti nei quali il rapporto del presente con il passato è ulteriormente ribadito dall’inserimento di spezzoni dell’epoca. La copertina è dominata dall’immagine «colorizzata» di Vine Street nel 1940: è sera, la strada è trafficata, i neon di Chandler risplendono di scritte quali Bowling, The Broadway Hollywood, NBC, Tropics, Plaza Hotel, le automobili sembrano testuggini di ferro, e dentro ci s’immagina uomini col cappello di feltro, donne perdute, sigarette accese… I caratteri usati dai grafici contribuiscono a fare di questa copertina una delle più evocative della storia del jazz. Nella musica, poi, Haden inserisce stralci con le voci di Jo Stafford, Jeri Southern e Billie Holiday.

Questa svolta, riconfermata dai successivi «Always Say Goodbye» e «Now Is The Hour», ebbe accoglienze contrastanti: «nostalgica», fu detto da più parti, e non sempre nel senso positivo del termine. Ma che sia nostalgica o no è un falso problema: alla prova dei fatti l’esperimento di Haden funziona, e i reperti del Secondo dopoguerra scivolano naturalmente nelle performance del quartetto. Nei due album, entrambi registrati in Francia con la marca di sigarette Gitanes come sponsor (forse perché la musica ha un che di smoky, di fumoso…), i riferimenti vengono sempre dalla grande cultura americana degli anni Quaranta e Cinquanta: lo schermo cinematografico con Humphrey Bogart e Lauren Bacall in controluce, i paesaggi di Chandler, le colonne sonore di Max Steiner, ma anche Coleman Hawkins, Django Reinhardt, Stéphane Grappelli, Ellington, Parker, la Stafford, Chet Baker, Warne Marsh, Tristano, Konitz. La grossa novità è l’inserimento, in alcuni brani, di una sezione d’archi arrangiata da Broadbent: un lavoro, il suo, di alta sartoria.

Quartet West
Quartet West

Quando pubblica «Haunted Heart» Haden dichiara: «Vorrei che la gente sentisse queste cose come se fosse negli anni Quaranta, cioè quando la musica popolare degli Stati Uniti era così bella. Frank Sinatra, i Pied Pipers, Duke Ellington, Fletcher Henderson, Tommy Dorsey. Secondo me la musica popolare possedeva allora dei valori profondi».

Quello che ascoltiamo in Quartet West è il senso del Tempo. Che si tratti di un frammento cantato da Jeri Southern o un tema di Bud Powell ci troviamo sempre di fronte alla riaffermazione che è il Tempo a dar profondità alle cose. A ben vedere, questa è l’estensione di ciò che Haden riusciva a fare meravigliosamente in veste di contrabbassista, quando lasciava che le note si staccassero dal contingente, che si prendessero tutto il tempo di cui avevano bisogno per dare valore al discorso: note lunghe, mantenute oltre i paletti della scansione ritmica. Quartet West ci parla di questo. È un progetto che vuole andare oltre l’attualità ma senza impantanarsi nella vuota datazione. Il presente non solo non ha valore ma non è addirittura spiegabile senza il passato. Chi conosce il primo disco della Liberation Music Orchestra, fondata da Haden e Carla Bley, ricorderà che la carica protestataria e appassionata di quella musica acquistava quella che i fotografi chiamano «profondità di campo» grazie ad alcuni inserimenti chiave: Brecht e Eisler, la guerra civile spagnola, Hasta Siempre di Carlos Puebla fino al vecchio gospel We Shall Overcome, eterno e vibrante inno dei pacifisti.

Come ben sanno storici e psicoterapeuti, il presente ha un cuore antico. Sotto questo aspetto, non vi è nulla di autenticamente nuovo in Quartet West: nella pratica jazzistica si lavora tutt’oggi anche su temi composti settanta, ottant’anni fa. La vera novità è che il quartetto di Haden ne fa, come nessun altro gruppo nella storia del jazz e con grande forza di convinzione, il proprio centro esistenziale, richiamando in servizio – come abbiamo visto – voci, immagini e parole del passato. «Now Is The Hour», «È giunta l’ora»: dichiara nel titolo il disco del 1996, che nel booklet riporta il testo dell’omonima canzone d’addio dei maori (Haere Ra) e che sul cd imprime l’immagine del quadrante di un vecchio orologio.

Negli ultimi dischi di Quartet West, con un notevole sforzo produttivo, il gruppo viene integrato non solo dagli archi ma da voci «in carne ed ossa»: Bill Henderson e una superlativa Shirley Horn in «The Art Of The Song» (1999) Cassandra Wilson, Renée Fleming, Melody Gardot, Norah Jones, Ruth Cameron, Diana Krall in «Sophisticated Ladies» (2010). Con questo cast d’eccezione il cerchio del Tempo si chiude: l’America del Secondo dopoguerra viene riportata in vita e resa attuale dai cantanti di oggi. Lo stesso contrabbassista, che da bambino cantava nelle radio con la popolare Haden Family in un repertorio country, fa sentire la sua struggente voce di fragile tenore nel classico Wayfaring Stranger («The Art Of The Song»).

Haden è stato uno degli uomini più politicamente attivi del jazz: contro il colonialismo, il razzismo, la guerra in Vietnam, l’apartheid in Sudafrica, l’invasione americana dell’Iraq. A Lisbona, come racconta lui stesso nelle pagine seguenti, venne perfino arrestato. Con il Quartet West ha voluto mostrare il suo amore per le canzoni popolari americane, anche le più oscure, e il suo coraggio nel far trasparire da esse i propri sentimenti. Viene in mente la dedizione di Maurizio Pollini – altro artista impegnato – allo spirito romantico di Chopin. Viene in mente anche quell’aforisma di Che Guevara, divenuto talmente popolare da essere ormai riprodotto sulle T-shirt: «Bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza».

Giuseppe Piacentino