Piero Bittolo Bon e la musica divertita di un pigro

Il sassofonista veneziano racconta la genesi e la poetica del suo lavoro discografico «Big Hell On Air» con il quintetto Bread & Fox, una coproduzione tra El Gallo Rojo e Auand

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piero bittolo bon

Piero Bittolo Bon, «pane e volpe»: devi anche tu farti furbo?
Ho scelto questo nome per seguire la mia tradizione, che hanno anche amici e colleghi, di utilizzare riferimenti a nomi di animali per i propri gruppi: come On Dog di Francesco Bigoni, i Laser Pigs di Alfonso Santimone o il mio gruppo precedente – che al momento è in freezer – Jump The Shark. «Pane e volpe» è un modo di dire universale, per descrivere una persona furba ma neanche tanto. In pratica, il sottotitolo potrebbe essere: «Ha un senso fare altra musica che difficilmente sarà suonata?»

Anche se di commerciale, furbesco, piacione qui non si trova granché. Tutto rispecchia il tuo stile di vita musicale…
In generale non mi sembra di fare della musica poco fruibile. La mia intenzione è sempre quella di inserire dei riferimenti che siano riconoscibili. Cerco di fare in qualche maniera, ma forse non riuscendoci, una musica che non sia autoreferenziale.

A proposito di furbizia: chi sono i furbi del jazz?
La furbizia la vedo concretizzarsi nella politica, dove confluiscono molte forze. Un modo di fare associazionismo dove, alla fine, la musica è l’ultimo dei problemi. I furbi sono quelli che mettono la musica all’ultimo posto della scala dei valori e la trattano come un semplice pretesto per esibire il loro ego o per una mera acquisizione di potere.

Spice Girls From Arrakis. Si ascolta del groove, echi sinfonici à la Šostakovič, orchestalità bandistica, ordinato furore. Quasi una chiamata alle armi. A chi è dedicata? (a cosa hai pensato nel comporla?)
I brani sono stati scritti tutti in maniera diversa; in particolare Spice Girls From Arrakis l’ho composto al pianoforte, cosa che faccio di rado. La mia ispirazione nasce da un film di David Lynch, Dune, nel quale si ascolta in sottofondo una stranissima musica di corte, abbastanza assurda, frenetica e fuori contesto. E ho voluto giocare anche con le parole del titolo, tra Arrakis e, sempre per rimanere nel «fuori contesto», le Spice Girls.

La quiete dopo la tempesta, arriva Everything Works: tenebrosa e ovattata, con una marcetta sottintesa. C’è qualche riferimento all’attuale periodo storico?
Il titolo è un semplice e meraviglioso aforisma, riferito alla musica ma estensibile a tutto, che ama ripetere un mio amico e frequente collaboratore, il trombonista Gerald Gschlössl. In pratica, sta a significare che nella musica funziona tutto, sottintendendo che se essa è fatta con rispetto e onestà tutto va per il meglio. E’ un motto che mi piace tenere a mente. Con questo non voglio sminuire la mia composizione, ma il vero problema è eseguirla e darle forma assieme agli altri musicisti. Infatti il brano è dedicato a Gerald, e di conseguenza, ha anche un certo incedere teutonico…

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La copertina del disco del nuovo gruppo di Piero Bittolo Bon, ovvero i Bread & Fox.

Forse meriterebbe una spiegazione anche il titolo dell’album: «Big Hell On Air».
Mi piacciono i giochi di parole, quindi è «bighellonare» leggendolo in italiano mentre, in inglese, «grande inferno nell’aria». Sì, forse c’è un riferimento all’attuale periodo storico. E io, che sono un pigro, mi diverto a fare musica.

In generale, nell’ascoltare i brani del tuo disco, sembra di essere di fronte a un concept album, anche se i titoli sembrano smentirlo. E’ questa la linea che hai seguito?
No, perché ho composto tutti i brani in periodi differenti.

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Il quintetto Bread & Fox capitanato da Piero Bittolo Bon

Topinambur topinamour ci conduce in un’area vicina alla classica contemporanea. Quali sono stati i tuoi riferimenti stilistico-musicali in questo lavoro?
I riferimenti sono, spero, anche me stesso in una maniera o nell’altra. Per quanto riguarda i riferimenti eccellenti, di sicuro c’è Henry Threadgill. Ho anche trascritto un suo brano, Paper Toilet, arrangiandolo senza grossi stravolgimenti. Threadgill è uno dei musicisti che più mi ispirano non solo musicalmente ma anche per il suo pensiero, che trovo sempre illuminante.

I bassisti si lamentano che, da qualche tempo a questa parte, in molti hanno l’abitudine a fare a meno dei loro servigi. Così hai fatto anche tu: perché questa scelta?
Il bassista ce l’ho e come! Odio l’espressione pianoless, drumless o similari. Come dire che tutti i gruppi sono harpless… Glauco Benedetti suona abitualmente anche il basso elettrico, quindi la sua impostazione alla tuba è la medesima. Poi ha due radar al posto delle orecchie: è un musicista incredibile che meriterebbe molta più attenzione.

Vuoi parlarci dei tuoi compagni di viaggio?
Il gruppo è nato come quartetto ma per una serie di circostanze si è modificato. Sapevo che Glauco non sarebbe stato presente a un nostro concerto e, quindi, chiamai Filippo Vignato (che ovviamente suona il trombone). Per finalizzare questa operazione abbiamo tenuto una prova in quintetto e il risultato mi è piaciuto così tanto che, alla fine, siamo rimasti in cinque. Ma si tratta di un gruppo abbastanza modulare. Con Alfonso Santimone ci conosciamo da una decina d’anni, abbiamo anche un duo di musica elettronica ed è anche il mio vicino di casa! Con Glauco esistono numerose collaborazioni che vanno avanti da almeno un lustro. Sono tutti musicisti stellari, come Andrea Grillini. Rispetto al sestetto che avevo prima, questo gruppo è più facilmente gestibile in ragione del fatto che abitiamo tutti vicini.

A proposito di musica classica: pensi che il jazz e la classica siano proprio così distanti?
No, penso che non ci sia alcun tipo di distanza se non nella forma mentis dei musicisti. Ritengo che, nel giro di un paio di generazioni, di questi falsi problemi non si sentirà più parlare se non, forse, tra i musicologi. Personalmente non saprei dire se la mia musica sia jazz oppure no, ma so che è per colpa, per causa o per merito del jazz che suono la musica che suono.

Quando si parla di Piero Bittolo Bon si pensa: 1) a una rising star; 2) a una musica d’avanguardia, «particolare». Ti ritrovi in queste definizioni?
Rising Star è una definizione che si ritrova anche nella mia biografia e io, forse peccando di arroganza, non l’ho mai tolta. Però, all’alba dei quarant’anni, probabilmente non merito più questo appellativo. Per la seconda definizione, posso dire che non suono nessuna avanguardia: suono una musica che suonano un sacco di musicisti da oltre cinquant’anni.

L’album una coproduzione El Gallo Rojo e Auand?
Il disco è uscito in due formati differenti: fisico, quindi il cd, per Auand; digitale, con vari bonus, per El Gallo Rojo. A essere sincero, avevo deciso di non stampare più cd fisici per ragioni prettamente ecologiche: le vendite sono pochissime, e mettere inutilmente in circolazione altra plastica non mi andava. Poi Marco Valente ha saputo di questa mia nuova registrazione: mi ha chiesto di poterla ascoltare e, in seguito, mi ha proposto di pubblicarla con Auand. Lì per lì ho declinato l’offerta. Dopo non molto è tornato alla carica e, vista la sua insistenza, mi sono sentito lusingato perché sono cose che capitano di rado. Così abbiamo deciso per questa co-produzione.

E’ difficile in Italia proporre un jazz diverso dal mainstream?
In Italia, innanzitutto, è difficile proporre jazz. Poi ci sono tanti fattori che incidono sulla possibilità di penetrare nel circuito dei festival e delle rassegne. Va anche messa in conto l’abilità di saper gestire le pubbliche relazioni, campo in cui non sono affatto bravo anche se sto cercando di migliorare. Però, col passar del tempo, ti resta attaccata la nomea di essere un po’ «orso», di avere un comportamento percepito come snob, oppure di essere troppo polemico: tutto questo rende più difficile rientrare nel sistema organizzativo jazzistico. E c’è anche la paura degli organizzatori di non accontentare il pubblico. In ragione della mia esperienza, ho constatato che a far felice il pubblico non è tanto ciò che suoni ma come lo suoni. La gente recepisce e ha voglia di ascoltare qualcosa di nuovo, molto più dei direttori artistici. Resta infine il problema delle etichette parlare di concerti di jazz «tradizionale» o di «avanguardia» può fare paura.

Cosa è scritto nell’agenda di Piero Bittolo Bon?
Ci sono un po’ di impegni, e spero che questo nuovo gruppo serva a farmene avere qualcuno in più. C’è il nuovo trio Rex Kramer, con Stefano Dallaporta e Andrea Grillini, che è già entrato in studio di registrazione. Continua la mia quinquennale collaborazione con John De Leo, che è la mia parentesi più pop, se di pop si può parlare. C’è il mio progetto in solo, Spelunker: ecco, forse è questo il mio lavoro più d’avanguardia: una ricerca sui lati oscuri del sassofono che va avanti già da qualche anno. Utilizzo un sistema di microfoni che mi permettono di suonare il contralto solo in feedback, senza soffiarci dentro; sto costruendo un linguaggio improvvisativo del quale sono molto soddisfatto. Infine c’è la nuova orchestra stabile, con Alfonso Santimone, che fa capo al jazz club di Ferrara: tutti hanno la facoltà di portare i loro brani e i loro arrangiamenti e anche di dirigerla.

Alceste Ayroldi