Peter Brotzmann: il jazz europeo non aveva nulla a che fare con l’intrattenimento

« Sono sempre convinto che la nostra musica abbia molto a che fare con quella degli Stati Uniti. Da sassofonista, quando ascolto musica ascolto Coleman Hawkins o Sonny Rollins»

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Peter Brotzman ©Rossetti-PHOCUS.

Peter Brotzmann, sei sempre affezionato al tuo primo disco, «Machine Gun» del 1968 per la FMP, che è posto in buona evidenza anche sul tuo sito web. Vogliamo iniziare l’intervista parlando di questa tua prima opera?
Sì, ovviamente penso che sia diventato un classico, ed è positivo che molti giovani lo ascoltino ancora. I tardi anni Sessanta hanno rappresentato un periodo davvero importante per la musica europea, perché era la prima volta che tanti di noi si ritrovavano assieme. Io avevo buoni contatti con i miei colleghi olandesi come Willem Breuker e Han Bennink, avevo già suonato in Belgio con Fred Van Hove, assieme a Peter Kowald collaboravo con musicisti inglesi come Evan Parker e Paul Rutherford, così come Kowald lavorava molto con John Stevens. E, grazie al festival di Francoforte, ebbi la possibilità e i finanziamenti per mettere insieme la formazione, e anche se poi ognuno avrebbe preso direzioni personali, pensiamo a Parker e a Breuker, in quel periodo avevamo tutti una visione comune, e per questo motivo il disco ha ancora una certa forza che era davvero unica. Almeno credo.

Peter Brotzmann
Peter Brötzmann, Sven-Åke Johansson, Peter Kowald. Wuppertal, 1966

Il tuo nome figura tra i fondatori della FMP, la Free Music Production. Come potresti raccontare oggi questa esperienza?
La FMP si è sviluppata a partire dalle mie prime produzioni, il trio con Peter Kowald e Sven-Åke Johansson e il gruppo Machine Gun. È stata una specie, diciamo, di piccolo successo. Non abbiamo perso denaro, siamo riusciti a raggiungere una certa quantità di pubblico e, poiché soprattutto in Germania lavoravamo tutti assieme con l’aiuto delle stazioni radiofoniche, abbiamo intravisto la possibilità di fondare una nostra etichetta discografica per la musica europea. Mi sono avvalso dei miei buoni rapporti con i musicisti americani ed è iniziata l’avventura. Eravamo sempre sull’orlo della bancarotta ma abbiamo iniziato a vendere dischi in altri Paesi, in Giappone, negli Stati Uniti, e abbiamo avuto allo stesso tempo la possibilità – tra le altre cose – di organizzare dei concerti a Berlino, dove avevamo un certo budget che ci permetteva di invitare musicisti che venivano da lontano. Siamo stati fra i primi a invitare Tomasz Stańko, i russi come il Ganelin Trio e naturalmente i musicisti americani. Così l’FMP è durata circa quarant’anni, un tempo molto lungo.

 

Tra i musicisti europei della scena free sei quello che ha stabilito più frequenti contatti con gli Stati Uniti, anche in un periodo in cui non era affatto semplice per un non americano. Come ci sei riuscito?
Non ne ho idea. Io sono sempre convinto che ciò che facciamo ha molto a che fare con la musica americana, e la mia musica preferita è ancora quella, che sia Muddy Waters, Andrew Cyrille o chiunque altro mi venga in mente; e, dato che sono un sassofonista, quando ascolto musica ascolto Coleman Hawkins o Sonny Rollins, per non parlare di Duke Ellington, perché ho sempre sentito un forte legame con la musica degli Stati Uniti. Ho avuto la fortuna di incontrare molto presto, nella mia piccola carriera, alcuni bravi musicisti: per esempio Steve Lacy, che in quel periodo viveva già a Parigi e andava in tour in solo o con i suoi gruppi in Europa occidentale; ho conosciuto Cecil Taylor molto presto, a metà degli anni Sessanta, quando nel suo gruppo c’erano Jimmy Lyons e Andrew Cyrille. Sono entrato in contatto con Andrew e ho avuto la prima possibilità di andare a suonare a New York con Han Bennink: è stata una sorta di scambio culturale tra New York e Berlino. C’era anche Alex von Schlippenbach, e allora ho iniziato a lavorare con gli americani, principalmente batteristi. Le radici del mio genere di musica sono molto legate alla musica degli Stati Uniti, anche se non dovremmo dimenticare che la musica europea dagli anni Sessanta in avanti ha avuto importanti influenze sulla musica improvvisata in generale, e credo che nel frattempo la maggior parte degli americani se ne sia resa conto.

Tra le innumerevoli esperienze discografiche e concertistiche, vuoi ricordarne qualcuna in particolare?
Beh, ormai ne ho dimenticate molte! Comunque no, non posso raccontare di un concerto preferito o un festival, o un piccolo club… C’era una persona cui ero affezionato e con cui ho suonato molto, il contrabbassista Fred Hopkins. Eravamo in un festival ad Atlanta, con Hamid Drake e Fred, e quello è stato il suo ultimo concerto, perché poco tempo dopo è morto. Questo genere di cose, naturalmente, me lo ricordo.

E tra le collaborazioni?
Sono felice di dire che è stato un piacere collaborare con quasi tutti i musicisti che ho incontrato. Alcuni di loro li conosco da molto tempo: William Parker da più di trent’anni, Hamid Drake da più di venticinque, e con alcuni non abbiamo solo suonato ma si è sviluppata anche un’amicizia, che naturalmente è molto rara nel nostro mondo ma quando avviene è davvero bella. Potrei citare anche il mio amico giapponese Toshinori Kondo, che ho conosciuto negli anni Settanta: è stato magnifico poterlo incontrare e suonare assieme. E così via, ma menzionarli tutti prenderebbe troppo tempo.

Peter Brotzmann
Brotzmann, Gustafsson, NilssenLove ©Rossetti-PHOCUS

Quali sono i punti di contatto e le differenze fra la musica improvvisata europea e il free statunitense?
La musica americana ha una tradizione differente, una storia differente e, dal lato estetico e formale, è costruita diversamente. Gli americani amano le canzoni, le composizioni, desiderano che ci sia una fine e un inizio. È sempre sbagliato generalizzare ma quando abbiamo sviluppato il nostro stile europeo, specialmente con l’aiuto di grandi musicisti come Derek Bailey o Misha Mengelberg, avevamo un approccio differente. Non bisognerebbe mai dimenticare che la musica americana all’origine era una musica d’intrattenimento, se guardiamo alla sua storia, mentre i musicisti dell’Europa occidentale dagli anni Sessanta in poi avevano una sorta di approccio duro, più connesso con ciò che succedeva nell’ambito della musica contemporanea. Tutti noi ascoltavamo Alois Zimmermann, Stockhausen o Ligeti e molti altri. Naturalmente ascoltavamo anche gli statunitensi come John Cage e altri, ma noi credevamo più nell’estetica rispetto agli americani. Ci stiamo muovendo in un ambito molto difficile, perché naturalmente se prendiamo Cecil Taylor o Richard Abrams, loro hanno sviluppato una propria estetica, le proprie strutture formali e così via. Ma penso che il punto fondamentale sia il nostro modo di pensare relativamente alla musica europea, che non aveva nulla a che fare con l’intrattenimento. Ricordo che quando ero ragazzo pensavo di suonare per il pubblico ma, specialmente all’inizio, avevo lunghe discussioni con Han Bennink, che sosteneva invece di suonare solo per sé stesso, di non essere interessato a suonare per un pubblico. Così io propendevo per l’approccio americano ma c’era una tendenza, specialmente alla fine degli anni Sessanta e negli anni Settanta, in base alla quale molti musicisti europei non volevano aver niente a che fare con la musica degli Stati Uniti, forse anche per ragioni politiche. Si voleva dimostrare, in sintesi, che la musica improvvisata europea aveva radici differenti ed era completamente diversa. Non è mai stato così per me, ma per persone come Derek Bailey sì. Poi anche lui, col passsar degli anni, ha iniziato a suonare standard americani nei piccoli club, e il suo ultimo disco era dedicato a quelle esperienze. Insomma, tutto è un po’ complicato da raccontare.

Concludiamo con la tua passione per l’arte pittorica.
Nei miei anni giovanili il mio primo obiettivo era diventare un pittore. La musica l’avevo in un certo senso messa da parte: studiavo alla scuola d’arte, facevo le prime mostre in Germania e in Olanda ed ebbi una sorta di successo anticipato, mettiamola così. Poi per qualche ragione la musica ha preso sempre più importanza, quindi dalla metà al termine degli anni Sessanta ho finito per ritrovarmi sempre più impegnato a suonare. Però non ho mai smesso di dipingere e da circa dodici anni faccio di nuovo mostre. Vorrei avere più tempo per la pittura ma la musica prende quasi tutto il mio tempo. Vedremo.
Forse tutto questo ha a che fare con l’invecchiare e col bisogno di maggior quiete nella vita, ma certo vorrei passare più tempo nel mio studio di pittura.

Vincenzo Fugaldi