Pescara Jazz, Teatro D’Annunzio 8-10 luglio 2016

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Pescara Jazz 2016: si parte con Bill Evans e Terence Blanchard E-Collective

Ancor più che negli ultimi anni, l’edizione n° 44 di Pescara Jazz ha avuto una gestazione piuttosto sofferta, ma ha comunque proposto contenuti di indubbio interesse e richiamato un consistente seguito di pubblico, in buona parte composto da uno zoccolo duro di appassionati.

Spiazzando chi lo conosce come trombettista di impostazione post bop e compositore di colonne sonore, Terence Blanchard sta tentando di definire insieme all’E-Collective una sua interpretazione dei fermenti che animano la black music attuale. Certamente non gli si possono imputare mire commerciali; piuttosto, gli va riconosciuto lo sforzo intellettualmente onesto di cogliere lo spirito dei tempi. L’azione del quintetto è integrata da inserti elettronici e campionamenti comprendenti testi con chiare connotazioni socio-politiche. Blanchard filtra costantemente il suono della tromba, snaturandolo e conferendogli il taglio aggressivo di una chitarra elettrica, finendo però per appiattirlo sul piano espressivo. Inevitabile il richiamo a Davis, cui la musica dell’E-Collective deve senz’altro qualcosa anche per l’innesto di massicce dosi di funk negli impianti ritmici, il ricorso a riff rock e tinte pop non distanti dalla poetica di Michael Jackson.
Già negli anni Settanta David Sanborn e i Brecker Brothers avevano sperimentato una fusione tra jazz, R&B, funk e rock. Dopo le esperienze con Davis e Gil Evans, Bill Evans si è indirizzato su un percorso analogo. Costretto a sostituire Mike Stern – colpito da un serio infortunio – con l’esperto Dean Brown e a varare un nuovo repertorio, Evans ha offerto un set gradevole, non privo di spunti felici, animato dalla poderosa ritmica Darryl Jones–Dennis Chambers, su cui Brown ha efficacemente sovrapposto elementi sintattici e timbrici di derivazione rock. Nell’approccio al tenore Evans rivela da una parte una distinta matrice R&B e qualche affinità con Michael Brecker e Bob Berg dall’altra, mentre l’impronta di Shorter trapela nella versione di Jean Pierre.

Ravi Coltrane, Jack De Johnette, Matthew Garrison

Con Ravi Coltrane e Matthew Garrison, Jack DeJohnette dimostra – sulla scorta del recente «In Movement» – di voler imprimere nuovi sviluppi alla poetica del trio, a tratti rovesciando i ruoli, più spesso impostando una dialettica densa, simbiotica e del tutto paritaria. Una caratteristica, questa, valorizzata appieno anche in varie sezioni informali su tempo libero. Gli impianti poliritmici e il gioco incessante di scomposizioni del batterista sono integrati da Garrison, soprattutto sul terreno modale, con pedali pregnanti e frasi melodiche scarne che – oltre ad evocare il padre Jimmy – conferiscono allo strumento elettrico una veste contrabbassistica. Essenziale, e funzionale al contesto, anche il contributo timbrico fornito attraverso la pedaliera e il laptop. L’apporto di Coltrane risulta particolarmente efficace al soprano e al sopranino, con i quali contrasta la materia ritmica con frasi segmentate, stridenti e corrosive.
Arturo Sandoval sembra cullarsi sugli allori della sua indubbia maestria tecnica, ma scivola spesso sulla duplice buccia di banana di formule cristallizzate, da una parte, e di un intrattenimento ammiccante al facile consenso, dall’altra. Improbabile il tentativo di proporsi in veste di cantante, eccezion fatta per uno scat alla Gillespie. Alla tromba, fraseggio e pronuncia godono di una nitidezza quasi intatta, e impressionante risulta ancora la capacità di arrampicarsi sui sovracuti. Per contro, il retroterra afrocubano riemerge in modo convincente solo a tratti. Il più delle volte è soggetto a trattamenti di maniera, complice anche la statura non eccelsa dei membri del sestetto. Invece si rivela efficace l’applicazione di certe sovrapposizioni poliritmiche a A Night In Tunisia e, ancor più, a Seven Steps To Heaven.
Ancor più che in passato, e specialmente nel recente «Andando el Tiempo», nel sodalizio con Steve Swallow e Andy Sheppard Carla Bley dimostra di aver saputo far tesoro di alcune intuizioni a suo tempo sviluppate da Jimmy Giuffre e Paul Bley. Ciò si riscontra particolarmente nell’attenzione meticolosa alle timbriche e alle dinamiche, e nella fine tessitura di armonie, fraseggi e linee contrappuntistiche, paragonabile al lavoro di cesello di un artigiano. Il processo creativo e l’improvvisazione non risentono della presenza di ampie porzioni di scrittura. La pianista ha ulteriormente scarnificato il proprio linguaggio, talvolta scandito attraverso frasi in staccato. Nel suo arrangiamento dell’unico standard proposto, Misterioso, ribadisce la sua visione geniale, inserendo le cellule del tema di Monk in un’introduzione e una coda di gusto cameristico con un gioco di stimolanti contrasti, e poi sviscerandone l’intima essenza blues. Oltre ad essere un perno ritmico e un interlocutore insostituibile, Swallow conferma e consolida il suo ruolo di produttore di raffinate melodie. Sia al tenore (in qualche misura debitore di Warne Marsh) che al soprano, Sheppard disegna ampie curve e preziosi arabeschi.
Documentato da Upward Spiral, l’insolito binomio Branford Marsalis-Kurt Elling funziona ancor meglio dal vivo. In veste di vero alter ego del sassofonista, il vocalist di Chicago possiede un’assoluta padronanza del palcoscenico, una dizione nitida e un’elevata capacità di articolare lo scat e dominare i registri. Lo testimoniano le modulazioni sapienti di Blue Gardenia, il fluido swing di There’s A Boat Dat’s Leavin’ Soon For New York, l’incisivo taglio ritmico impresso a Só tinha de ser com você, la convincente abilità narrativa espressa negli originali, l’intenso call and response con Marsalis nel duetto di I’m A Fool To Want You. Branford esibisce piena maturità espressiva e senso della misura sia al tenore che al soprano; Joey Calderazzo (p.) si prodiga nell’esplorazione dei risvolti armonici; Eric Revis (cb.) e Justin Faulkner (batt.) costituiscono una coppia solida e versatile. Un credibile esempio di modern mainstream, a degna chiusura di uno dei festival più longevi d’Europa.

Enzo Boddi