17 novembre, Parma, Casa della Musica
Disposta com’è ormai tradizione lungo tante giornate (quest’anno dal 26 ottobre al 1° dicembre) e tanti appuntamenti, la ventitreesima edizione del festival diretto fin dalla prima da Roberto Bonati aveva indubbiamente un suo punto nevralgico, una serata da non perdere, con l’incontro fra lo storico ICP e il Nieuw Amsterdams Peil, un totale di sedici elementi (con due pianisti, curiosamente accomodatisi, anche per mere ragioni di spazio, a un unico pianoforte) riuniti nel nome e nella memoria di Misha Mengelberg, che dell’ICP fu anima e corpo finché gli fu possibile (accanto ad Han Bennink, per fortuna tuttora in pista, anche se nello specifico col solo, fedelissimo rullante, più piatto e charleston) e al quale nel pomeriggio successivo al concerto è stata dedicata la proiezione (all’Associazione Gaibazzi) del film Misha and so on, girato nel 2013 da Cherry Duyns.
Di Mengelberg sono state proposte svariate composizioni, senza dimenticare quella che è un po’ la triade delle sue principali influenze (Stravinskij, Monk, Herbie Nichols: una pagina a testa) né brani targati più squisitamente ICP. I climi sono stati i più variegati, secondo lo stile (l’approccio) precipuo dell’ensemble (in formazione assolutamente storica: oltre a Bennink, Ab Baars, Michael Moore e Tobias Delius alle ance, Wolter Wierbos e il più giovane Thomas Heberer, caso unico, agli ottoni, Mary Oliver, Tristan Honsinger ed Ernst Glerum agli archi, Guus Janssen al pianoforte), svariando da intemperanze free-rumoristiche a rotonde aperture di stampo bandistico, cascami classico-cameristici e abbandoni à la Nino Rota, aplomb e disinvoltura, gusto per la boutade (anche verbale) e solismo ben tornito, il tutto servito con quell’impagabile sense of humour, quell’arguzia anche un po’ cialtrona (ma nel contempo come sospesa, volatile, quasi straniata) che erano elementi così tipici del pianista nativo di Kiev e nel contempo di tanto jazz olandese tout court.
Ognuno ha fatto per intero la sua parte, anche se non si può negare che proprio dalla somma delle varie individualità, nel loro riunirsi ma anche giustapporsi, talora con marcati contrasti dialettici (ovviamente curati ad arte), risiede la vera forza del progetto, naturalmente includendovi anche i sei membri del NAP, preziosi per esempio nella presenza del fagotto (Dorian Cook), nel rinforzo di archi e percussioni, nel singolare polistrumentismo (flauto di pan e mandolino) di Patricio Wang.
Un concerto memorabile, insomma, proprio nel senso etimologico del termine: che rimarrà della memoria del pubblico che ha riempito quella che a Parma sta sempre più imponendosi come la Casa della Musica, di nome e di fatto. Dove un pezzo di storia del jazz europeo ha fatto tappa in un sabato sera di novembre.
Alberto Bazzurro