Paolo Fresu: Canzoni da vedere e da sentire

Per ben gustare le sue canzoni preferite, Paolo Fresu dovrà portarsi sulla fatidica isola deserta anche un lettore Dvd

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paolo fresu

Paolo Fresu, partiamo da un concetto: una canzone non è un’entità assoluta ma è anche una data interpretazione, che la fissa nel tempo.
È anche immagine, certo, per trattenere una specifica impressione. Il cinema ne è la prova. Pensa a Cucurrucucù Paloma cantata da Caetano Veloso in Parla con lei di Almodovar: un pezzo bellissimo ma è l’esaltazione filmica a fissare un dato coinvolgimento emotivo. La musica da film in generale ha questo grande potere di fascinazione, in un interscambio da cui trae benefici enormi. Pensa solo a Rota, a Morricone, a Piovani; pensa a La strada o al tema di Nuovo cinema Paradiso (che poi non è nemmeno di Ennio ma di suo figlio Andrea), una melodia scarna, sempre uguale che, rigirata in mille modi diversi, copre non so quante battute. Nel cinema la cosa funziona, lavorando sull’orchestrazione. I temi hanno spesso un’architettura molto semplice, capace di colpire subito. Se torniamo alla canzone in sé, prendi E se domani di Carlo Alberto Rossi, un pezzo splendido che io suono spesso: è semplicissimo.

Lì magari c’è qualche modulazione in più.
In fondo sì, eredità, negli autori italiani di quella generazione, della grande canzone statunitense, i famosi standard – Gershwin, Cole Porter… – dove la complessità nasce dalla raffinatezza, dall’attenzione al dettaglio.

Da ragazzo hai avuto una colonna sonora fatta di canzoni?
Se rivado alla mia infanzia, mi viene in mente un tema composto da Chaplin per Il monello, che vedevo regolarmente a Natale in tv. Ciò rinforza il concetto del potere immaginifico della musica legata alla visualità. Poi è ovvio che, se scrivi una melodia che non vale nulla, rimane lì; però, se crei qualcosa di bello, d’incisivo, di genuino e lo poni al servizio del linguaggio filmico, ne ricavi enormi riverberi positivi. Restando alla tv, un altro ricordo indelebile sono le musiche della Freccia nera, magari di servizio ma di grande qualità, scritte da ottimi professionisti – nello specifico Riz Ortolani – per cui suono e immagine
componevano un tutto perfettamente cucito, perché l’aspetto semantico della musica da film secondo me sta proprio nel rapporto tra gli intervalli della melodia e la sua funzione descrittiva, nella capacità di scrivere musiche dolci, tese, risolutive, eccetera. Ovviamente noi italiani, melodici, lirici per eccellenza, siamo maestri in materia. E torniamo ai Rota, ai Morricone, ai Piovani… Più tardi, poi, «Rimmel» di De Gregori mi ha folgorato. E qui devo dire che talora faccio un po’ fatica a capire perché si rileggano così copiosamente Battisti, De André, ultimamente Dalla e non appunto un De Gregori.

rimmel

 ■ Forse perché è ancora vivo… Comunque ricordo notevoli riletture da parte di Fiorella Mannoia, su tutte La storia; o Generale interpretata da Vasco Rossi, o la Donna cannone da Mia Martini, anche in versioni inedite per pianoforte e voce che ho potuto ascoltare grazie ad Arrigo Cappelletti.
Mia Martini mi fa venire in mente un’altra canzone bellissima: Almeno tu nell’universo, legata anche a Mina, e a Elisa in Ricordati di me di Muccino. Le ho ascoltate in quest’ordine ed è stata una riscoperta continua, finché ho deciso di registarla con il quintetto, trovandola molto incisiva, di grande personalità, anche complessa, con una struttura piuttosto insolita rispetto alla classica forma AABA, e invece con tutta una serie di movimenti interni che ne fa una delle più belle canzoni italiane degli ultimi decenni, come del resto Caruso, per intensità e potenza emotiva. L’avevo incisa con Aldo Romano in «Non dimenticar», dopo di che non l’ho più toccata per anni, finché una mattina vengo a sapere dal mio dentista, a Bologna, della morte di Dalla. Il pomeriggio volo a Parigi, dove la sera presento al Café de la Danse «Alma» in duo con Omar Sosa e mi viene spontaneo proporgli di suonare proprio Caruso, che gli è ignota: gliela insegno e la sera la suoniamo. Era il 3 marzo, il giorno della morte di Dalla. L’indomani siamo alla Cantina Bentivoglio di Bologna, nel giorno del compleanno di Dalla, di cui si celebrano i funerali: la suoniamo nuovamente e da allora sempre e dappertutto, negli Stati Uniti, in Giappone, a Singapore, e alla fine del concerto c’è sempre qualcuno o che viene a chiederci notizie del pezzo, o che lo conosce e si complimenta per averlo suonato. Quindi è un pezzo che arriva subito anche a chi non lo conosce.

lucio dalla

Ti viene in mente qualcos’altro?
La grande canzone napoletana, che ho iniziato a conoscere suonando con Maurizio Giammarco nel progetto Naples In Jazz, portato a Berchidda una ventina d’anni fa ma mai uscito su disco. All’epoca feci uno studio piuttosto approfondito sul repertorio di Roberto Murolo, scoprendo due o tre pezzi di grande valore che ignoravo, tra cui Varca lucente, che ha una struttura interna abbastanza tradizionale, AABA, ma con una sezione B che sembra quasi un brano brasiliano, con certe discese cromatiche tipiche di quell’area musicale. Così ho registrato anche quella: nel primo disco con Uri Caine, «Things», dove c’è anche E se domani. La canzone napoletana è secondo me quella che riesce a coniugare meglio accademico e popolare, rimanendo spesso sull’orlo del baratro (dell’eccessiva facilità) senza caderci dentro, anche grazie a un rapporto tra testo e musica estremamente descrittivo, che conduce nella teatralità tipica dell’indole napoletana, però sempre con un certo equilibrio, una certa raffinatezza. Musicalmente c’è un particolare rapporto tra modo maggiore e minore, e sul piano testuale un racconto molto intenso dei temi di una data società. Nell’unione di queste due componenti i brani migliori hanno la capacità di dar voce in tre minuti a un universo vastissimo.

paolo fresu

Hai citato il Brasile: anche da quel serbatoio trai spesso qualche gemma da reinterpretare. Ce n’è almeno una che ti porteresti sulla fatidica isola?
O que será di Chico Buarque, assolutamente geniale in quella ripetitività, quella circolarità che la fa apparire un po’ sempre uguale e in questo simile a certo minimalismo, mentre invece ha una struttura in costante movimento, con una piccola cellula melodica che viene portata continuamente a spasso. È sempre il discorso della semplicità che diventa complessità.

Alberto Bazzurro