Open Music Festival, movimenti sismici

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Il quartetto KAZE - Foto di Luciano Rossetti/Phocus Agency

Forlì, Area Sismica

5-6 novembre

Con un titolo appropriato come Note al presente la sesta edizione di Open Music Festival – organizzata dall’associazione Area Sismica con la direzione artistica di Ariele Monti – ha confermato la sua vocazione di rassegna trasversale e aperta sia alla musica contemporanea di matrice accademica che all’improvvisazione radicale. Nell’impossibilità di utilizzare spazi situati nel centro storico, tutti gli eventi si sono svolti nella sede di Area Sismica, alle porte di Forlì. Un luogo informale che ispira un autentico senso di comunità, dotato di un piccolo auditorium acusticamente impeccabile. Parallelamente al programma concertistico si sono potute apprezzare altre iniziative. Area Sismica ha ospitato la mostra fotografica Note a margine di Luciano Rossetti. I giovanissimi allievi dell’istituto musicale “Angelo Masini” hanno potuto assistere alla lezione-conversazione del pianista Fabrizio Ottaviucci e partecipare a una conduction guidata da Elio Martusciello. Esperienze, queste, che meriterebbero di essere riproposte.

Ljuba Bergamelli – Foto di Luciano Rossetti/Phocus Agency

Affrontare una performance solistica con uno strumento complesso come la voce costituisce un’autentica sfida, superata con disinvoltura da Ljuba Bergamelli. Nell’approccio della soprano emerge con prepotenza l’influenza di Cathy Berberian, omaggiata con Stripsody, divertente sequenza di onomatopee, versi di animali, camuffamenti vocali che evocano i cartoni animati. Caratteristiche riscontrabili anche in Bestiaire Remix di Vittorio Montalti, multiforme zapping sonoro. Il lavoro approfondito sulla valenza stessa dei fonemi trova piena realizzazione nel Solo for Voice I di John Cage. L’esplorazione delle risorse vocali raggiunge una sua completa dimensione sia in Sequenza III di Luciano Berio che nel caleidoscopio – fatto di sussulti ritmici, frasi dispiegate, mugolii e sfumature ironiche – di Pub 3 di Georges Aperghis. Infine, in Com a tua voz di Pasquale Corrado, si assiste alla destrutturazione di un fado di Amália Rodrigues.

Kaja Draksler – Foto di Luciano Rossetti/Phocus Agency

La slovena Kaja Draksler è una pianista di formazione classica e frequentazione jazzistica da tempo residente ad Amsterdam. Queste due anime confluiscono in un solo proiettato verso una ricerca rigorosa, ricca di dissonanze e linee sghembe. Grazie alla dialettica tra piano ed elettronica riesce a creare, in una sorta di sdoppiamento, una spirale, un loop su cui colloca potenti accordi sul registro grave, ostinato e block chords. Ad arpeggi incalzanti contrappone rapide frasi e fulminei saliscendi. Per contro, la lenta costruzione di cellule melodiche viene progressivamente sottoposta alla sistematica interferenza di linee dissonanti, anche quando la melodia attinge al retroterra popolare.

Chris Pitsiokos – Foto di Luciano Rossetti/Phocus Agency

Esponente dell’avanguardia newyorkese, il 32enne sassofonista Chris Pitsiokos cerca di sviscerare le potenzialità del suo sax alto attraverso l’alternanza tra espansione e dilatazione, tra accelerazione e decelerazione, nonché grazie a un campionario di tecniche ed effetti. La costruzione del fraseggio, metodica e geometrica, palesa la netta influenza di Anthony Braxton, del resto a più riprese dichiarata dallo stesso Pitsiokos. L’uso di suoni parassiti o stoppati nell’ancia e della respirazione circolare sembra rifarsi alla lezione di Roscoe Mitchell. Pitsiokos applica poi procedimenti eterodossi per esplorare le risorse dello strumento. Ne tappa la campana alla maniera di John Zorn e vi respira dentro creando una sequenza ritmica. Lo smonta soffiando nell’imboccatura e produce gorgoglii immergendo l’ancia in un bicchiere d’acqua. Al di là della perizia tecnica e dell’onestà intellettuale, non cancella però la sensazione del già sentito.

A Trio – Foto di Luciano Rossetti/Phocus Agency

L’approccio dei libanesi dell’A Trio è a dir poco singolare per il trattamento riservato ai rispettivi strumenti. Smontato il bocchino della tromba, Mazen Kerbaj vi applica un tubo elastico in cui emette lunghi bordoni, coprendo al tempo stesso la campana con vari oggetti. Sharif Sehnaoui tiene la chitarra acustica sulle ginocchia percuotendone corde e corpo con bacchette metalliche. Raed Yassin suona (?) il contrabbasso, inclinato e appoggiato su una sedia, con l’arco, ricavandone un bordone fisso e ronzante, oltre a piazzare bacchette e oggetti metallici sotto le corde e in prossimità del ponticello. Il gioco sarebbe interessante se durasse poco e fungesse da base per la costruzione di contenuti. Il problema è che non succede niente. Non una nota, né un accordo. Si allunga solo il brodo a dismisura. Rumorismo gratuito, al limite della mistificazione, e conclusione alquanto deludente della prima serata.

Sergio Sorrentino – Foto di Luciano Rossetti/Phocus Agency

Ben altri contenuti hanno caratterizzato la seconda, a cominciare dal solo del chitarrista Sergio Sorrentino, esecutore impeccabile di un programma tanto vario quanto indicativo delle possibilità dello strumento elettrico (nel caso specifico, una Fender Stratocaster). The Possibility of a New York for Electric Guitar di Morton Feldman si fonda su dinamiche rarefatte, dialettica col silenzio, note sparse e sostenute col pedale, uso dello staccato, com’è del resto tipico della poetica del compositore. Per contro, I Kick My Hand di Nick Didkovsky esalta il versante elettrico con abbondante uso del legato e della distorsione. Mentre Le corde di un tempo di Nicola Sani valorizza gli aspetti elettroacustici tramite una varietà di procedimenti, Dancetracks di Paul Lansky prevede l’interazione con una base ritmica preregistrata e include l’uso del tapping, del bottleneck e del bending, con risonanze elettroniche sul corpo dello strumento. Infine, la riproposizione del secondo e terzo movimento di Electric Counterpoint di Steve Reich, realizzata da Sorrentino con la sovraincisione di venti chitarre, si allontana dalla celebre versione di Pat Metheny, mantenendo intatta la concezione dell’autore.

James Erber e Gianpaolo Antongirolami – Foto di Luciano Rossetti/Pjhocus Agency

Si è quindi concesso un debito spazio agli omaggi ai compositori. Per quello all’inglese James Erber, presente in sala, Gianpaolo Antongirolami – membro del Sidera Quartet – ha eseguito tre brani per sax soprano solo: Prescrai, Prescrille e … a single line which is invisible and unceasing. Un caleidoscopio geometrico scaturito dal progressivo accumulo di segmenti o da frasi serrate, risultanti in una costruzione contraddistinta da dinamiche sottili e variegate. Ad Antonella Bini sono stati invece affidati Ein andrer Hauch per ottavino, Desire Lines per flauto alto in Sol e Traces per flauto in Do. Traiettorie dalle ampie curve, accavallarsi di onde, risvolti melodici spartani, vasto campionario timbrico (con soffiato e suoni stoppati) in una perfezione formale algida ma affascinante.

Antonella Bini – Foto di Luciano Rossetti/Phocus Agency

Il programma eseguito dal pianista Emanuele Torquati costituiva una sentita dedica a Giancarlo Cardini, recentemente scomparso, che era stato suo insegnante al Conservatorio “Cherubini” di Firenze nonché suo ispiratore. Per l’occasione Torquati ha scelto un repertorio caro al suo maestro. Pièces froides: trois danses de travers e Sonatine bureaucratique presentano il lato giocoso e ironico di Erik Satie (e in definitiva dello stesso Cardini), sottile revisore ed eversore dell’eredità dell’Ottocento. I liquidi arpeggi di In a Landscape di John Cage tessono una trama delicata, composta da linee che si rincorrono, si intrecciano e si rigenerano. Secondo improvviso di Cardini è cosparso di brandelli di quella melodia a cui il maestro – tra l’altro amante della canzone d’autore – attribuiva sempre il giusto valore. Finale di Paolo Castaldi è contraddistinto da linee contrappuntistiche, blocchi di accordi, potenti contrafforti sul registro grave, arpeggi scorrevoli e torrenziali. Nel complesso, un più che degno tributo al genio di Cardini.

Emanuele Torquati – Foto di Luciano Rossetti/Phocus Agency

Il festival si è chiuso con il botto, con il quartetto KAZE formato da Satoko Fujii (piano), Natsuki Tamura (tromba), Christian Provost (tromba e flicorno) e Peter Orins (batteria). Formazione agguerrita e coesa che fa dell’estemporaneità, dell’informale e della creatività le proprie armi principali, sviluppando un febbrile e fecondo lavoro basato su una miriade di soluzioni timbriche e invenzioni linguistiche. Si potrebbe parlare senza timore di una sana attualizzazione dei fermenti del free. Fujii mette a punto molteplici preparazioni collocando vari oggetti sulla cordiera del piano. Al tempo stesso, apre prospettive su percorsi impervi aggredendo letteralmente la tastiera. I trombettisti ricorrono a soffiato, grufolii, inserti vocali ed altri effetti per poi avventurarsi su sentieri spericolati, imbastire dialoghi fitti e infuocati, dare vita a stimolanti botta e risposta. Orins gioca su timbri e colori con un approccio eterodosso, ma efficace, a pelli e metalli. Non manca spazio per impianti modali, a tratti articolati su scale di matrice orientale snaturate ad arte. Tuttavia, il flusso che scaturisce dall’azione del quartetto è improntato a un impulso liberatorio, catartico, eppure governato da un’ammirevole disciplina collettiva.

Satoko Fujii – Foto di Luciano Rossetti/Phocus Agency

Non è superfluo concludere che Open Music ha ribadito ancora una volta la sua natura di manifestazione aderente allo spirito della contemporaneità, sempre pronta a porre problemi ed elementi di riflessione.

 

Enzo Boddi