18 febbraio e 18 marzo 2017, Istituto Civico Musicale Brera
All’interno della sessione invernale della rassegna NovaraJazz XIV stagione, spicca l’esecuzione della suite «The Blessed Prince», ad opera del quartetto di Emanuele Parrini, che, per l’occasione, ospita lo statunitense Taylor Ho Bynum, voce sempre più autorevole nel panorama internazionale.
Sorprende la compattezza dell’inedita formazione a cinque, in cui l’ospite non fatica ad inserirsi, tanto nell’elaborazione di idee tematiche prestabilite, quanto nello sviluppo dei più concitati momenti di improvvisazione, sia collettiva che individuale.
La ricerca sonora di Ho Bynum, basata sull’impiego di diverse sordine e tecniche di emissione applicate alla cornetta – e più raramente al flicorno – aggiunge radicalità e densità timbrica all’interpretazione, che si abbandona mai al caos fine a se stesso, neppure nelle sezioni in cui il grado di indeterminazione è massimo.
Fondamentale è il ruolo di Parrini, che, oltre a mostrarsi uno strumentista versatile nell’uso delle diverse tecniche applicabili al violino, sa guidare senza tentennamenti l’evoluzione di un lavoro composito, filtrando la lezione del free degli anni ’70 attraverso una più meditata inclinazione cameristica.
La solidità dell’impianto non frena, ma anzi esalta, la vena melodica del sassofonista Grechi Espinoza, impregnata di eco ornettiane, mentre la coppia ritmica formata da Giovanni Maier e Andrea Melani fornisce il collante necessario ad amalgamare le differenti componenti del tessuto musicale, senza rinunciare a preziosi spunti personali.
L’esibizione di Fabrizio Puglisi e Günter “Baby” Sommer si muove lungo coordinate più aperte, nel solco della libera improvvisazione europea. Rispetto agli ampi spazi riservati alle scorribande estemporanee, gli elementi tematici si pongono, principalmente, come punti di partenza o momenti di raccordo.
Nel corso della serata si avvicendano diversi climi espressivi, che virano dalla contemplazione di timbri rarefatti al parossismo sonoro più disinibito, dalla destrutturazione dei materiali alla ricomposizione degli stessi, sotto l’incalzare di una pulsazione ritmica costante, anche quando implicita.
L’eterogeneità dell’insieme non giunge mai al punto di collasso, grazie all’intesa tra il pianista e il percussionista, che trascende gli aspetti prettamente musicali per coinvolgere il profilo “performativo”, nell’accezione più ampia possibile
Sulla base di questi presupposti, la sorpresa è sempre dietro l’angolo.
Gag di sapore dadaista possono insinuarsi prima, durante e dopo l’esecuzione di Monk’s Dream, in cui la gragnuola di colpi assestati da Sommer a qualsiasi arnese capiti a tiro (inclusi pentole e tegami) apre faticosamente gli spiragli per l’emersione del tema. Pur trasfigurato dalla sollecitazione altrettanto eterodossa della cordiera del pianoforte, il brano acquisisce via via forma e solidità, all’insegna dello swing più sfrenato.
La stessa, ludica, imprevedibilità ispira il resto del concerto, che, con insospettata naturalezza, alterna una trascinante In Walked Bud a una straniante tarantella per piano giocattolo e armonica.
Ermes Rosina