Nik Bärtsch: lavorare sul suono

di Soukizy

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Nik Bärtsch
Nik Bärtsch's Ronin (foto di Jonas Holthaus)

Da tempo Nik Bärtsch occupa un ruolo importante e assolutamente originale all’interno della musica improvvisata di matrice jazzistica. Alla viglia del suo ritorno concertistico in Italia, l’abbiamo intervistato

Hai da poco vinto un importante premio come The Art Award e compiuto un tour negli USA. Com’è andata?
Inizierei con il tour americano, che era anche collegato al premio. Sono approdato a ECM nel 2006 e l’etichetta ha cercato di promuovermi anche negli USA, perché è un mercato interessante non solo per quanto riguarda il jazz ma anche per la forte sensibilità verso le working bands. Come sai, per noi europei non è facile mostrare la nostra musica negli Stati Uniti, bisogna lavorare sodo per ottenere risultati perché lo scenario è complesso, quindi per me era ed è un aspetto fondamentale del mio lavoro. Ma fin dall’inizio abbiamo ottenuto eccellenti riscontri. Questo lavoro è andato avanti nel corso degli anni: nel 2018 abbiamo fatto due tour importanti e, nel marzo 2019, abbiamo suonato al Big Ears Festival di Louisville, nel Kentucky, forse il luogo in cui più di altri oggi si ritrova la musica contemporanea che davvero conta, sia scritta sia improvvisata. Ci siamo divertiti, la band ha suonato su un buon livello e abbiamo fatto una buona impressione sulla stampa, sugli appassionati e sul pubblico più generalista. Del resto credo che sia essenziale confrontare le reazioni di continenti diversi.
Ciò che è successo in Svizzera con l’Art Award, invece, sinceramente non me l’aspettavo. Certo, speravo che prima o poi arrivasse anche un riconoscimento materiale, dopo aver fondato un’etichetta, sostenuto molti giovani artisti ma anche lavorato senza sosta con la mia band guadagnando molto credito nel corso degli anni, sia localmente ma anche a livello internazionale. La mia convinzione è che sia importante rimanere nel tuo Paese per cambiare qualcosa, intraprendere iniziative e anche aiutare te stesso. E la motivazione del premio è stata proprio questa! La città di Zurigo mi ha conferito l’Art Award per aiutarmi a sostenere queste iniziative e questo spirito locale, che alla fine serve a dare a tutti quanti noi una reputazione internazionale. Penso che sì, sono stato premiato io ma alla fine il premio serve a tutti, non è necessario trasferirsi a New York, a Londra o a Berlino per trovare la tua voce. Per creare qualcosa di interessante con la tua comunità non hai più bisogno di spostarti: puoi restare dove sei e connetterti con persone in gamba in tutto il mondo; questa è la mia idea e la città di Zurigo l’ha apprezzata. Così sono rimasto molto sorpreso ma anche felice che sia andata così. Ovvio, ci abbiamo lavorato tanto, quindi non è che tutto questo sia venuto fuori dal nulla. L’importante è che mi sia utile ad andare avanti, non foss’altro che per rispettare la comunità e lo spirito locale e trasferire un know how ai giovani musicisti. Ritengo fondamentale che nelle comunità locali si riesca a lavorare per cambiare qualcosa e, alla fine, poter creare vibrazioni positive anche nel quotidiano, così da farti apprezzare il luogo nel quale vivi e lavori, da farti crescere e svilupparti insieme agli altri.

Nik Bärtsch (foto di Soukizy)
Nik Bärtsch (foto di Soukizy)

Parliamo del tuo background. So che sei cresciuto interessandoti a compositori come John Cage e Morton Feldman.
Il mio background è abbastanza vario, Sono cresciuto con mille stili musicali e mi sono aperto a tutto ciò che mi sembrava avere qualcosa di interessante da offrire. Ho iniziato con la batteria ed ero molto interessato alla musica che aveva del ritmo; poi, a otto anni, quando ho scelto definitivamente il pianoforte, la mia idea era di suonare boogie woogie e musiche affini ma nelle scuole di musica non era possibile farlo. Così mia madre ha cercato un insegnante privato ed è da lì che sono partito. Nell’adolescenza, poi ho iniziato a interessarmi alla musica classica che avesse certi elementi ritmici, come quella di Stravinskij, e poi ho sviluppato il mio interesse per la contemporanea. Il mio rispetto per la musica classica mi ha poi portato a suonarla molto intensamente per circa quindici anni, anche se posso dire di esserci arrivato relativamente tardi. Però scoprire personaggi che lavoravano sui concetti di ritmo e minamalismo, nel senso di una reductio ad miminum, mi ha ispirato molto: a vent’anni, quando ho iniziato a cercare l’essenza delle cose per trovare la mia vera strada, mi sentivo assai ispirato da Stravinskij, Morton Feldman e John Cage per il loro modo di usare il pianoforte, il ritmo e soprattutto lo spazio e la drammaturgia. E questo, a lungo andare, mi ha spinto a impegnarmi in un campo apparentemente molto diverso, con l’idea di innestare il groove e il funk su aree di musica non strettamente jazzistica.

Ho assistito a una tua performance imperniata sul silenzio. Immagino che in qualche modo fosse collegata a John Cage.
Sì, è stato un episodio divertente e comunque molto importante. Avevo ricevuto un invito da un amico che ha creato un «museo del nulla». Come sai, nella tradizione spirituale dello zen e anche in diverse tradizioni artistiche «riduttive», il nulla è un termine molto importante, così come il modo di lavorare con lo spazio e con la sua assenza, quindi questa performance è stata interessante perché quando il mio amico ha annunciato di aprire il suo «no show museum», che non mostra nulla, ho capito che finalmente c’era qualcuno disposto a lavorare sugli artisti che stanno sviluppando questo concetto di nothingness. Quindi, visto che quel luogo è per definizione «pieno di nulla», ho pensato: «Quando sarò lì, come potrò fare nulla?»
Alla fine ho deciso di estrarre la tastiera del pianoforte e di suonare i miei ritmi senza più alcun tasto ma semplicemente premendo i pedali di risonanza. Tutto questo ha suscitato nel pubblico un’enorme attenzione e concentrazione. Il mio tapping sui pedali ha fatto l’effetto di uno scroscio di pioggia, quasi come una situazione zen che metteva insieme i miei bagliori ritmici e il rapporto per il pianoforte in quanto tale.

foto di Jonas Holtaus
Nik Bärtsch’s Ronin (foto di Jonas Holtaus)

Quando ascolto la tua musica posso visualizzarne le dinamiche e i patterns. E subito mi chiedo: che cos’è per te il suono? E come lo gestisci?
Questa è una domanda molto importante anche se sembra molto semplice, perché ovviamente ogni espressione musicale ha un suono. Ma il suono, come qualità della nota, è l’essenza della musica. Per esempio, quando studi il violino, hai l’assoluta necessità di lavorare sul suono, mentre sul pianoforte pensiamo che sia sufficiente premere un tasto per ottenere il suono. Ma, da pianista, so che una delle cose più importanti è il lavorare sul tuo suono, ovvero la consapevolezza che premere un tasto crea un suono con certe caratteristiche: un nucleo e una bella rotondità. La conseguenza è che risulta necessario intervenire a livello fisico allenando il tuo corpo, in maniera sì molto naturale ma anche con una certa precisione. Quando un pianoforte è inserito all’interno di un gruppo, ha ovviamente un effetto di grande rilievo sul suono complessivo, ed è necessario conservare una certa potenza diretta e un impatto fisico e sensuale fisico. L’importante è mantenere comunque una certa serenità di fondo, ed è ciò che sto cercando di fare con il mio gruppo a livello di suono. Ti faccio un esempio pratico. Nelle nostre esecuzioni puntiamo a quattro obiettivi:

  1. Il fraseggio, ovvero il modo di suonare assieme e di concepire l’interpretazione;
  2. La dinamica, ovvero l’attenzione a ciò che si sviluppa non solo nel singolo brano ma durante l’intera performance;
  3. Il suono, ovvero come esso entra in risonanza, che cosa ascoltiamo, il modo in cui «assaggiamo» le note;
  4. La drammaturgia, ovvero il flusso complessivo di un singolo brano o di una performance.

Questi aspetti esecutivi sono essenziali per fare musica e sono meno astratti della melodia, dell’armonia o del ritmo; anzi, sono molto diretti e fisici e li sperimentiamo in ogni performance.

Awase
Nik Bärtsch’s Ronin «Awase»

La tua musica è spesso definita come Zen Funk. Qual è il suo legame con la meditazione e l’aikido? Quando e come ti sei avvicinato a queste attività?
Abbastanza presto. Mia madre praticava la meditazione zen da moltissimo tempo; all’epoca non ero particolarmente interessato ma verso i diciott’anni le chiesi come funzionasse, In quei tempi vivevo, in Toscana, vicino a Massa Marittima, tra boschi e ulivi. Avevamo una casa da quelle parti. Come dicevo, lei già praticava la meditazione e non mi aveva mai obbligato a fare altrettanto, ma in quel momento decise di spiegarmi come funzionavano le cose. Col tempo iniziai a mia volta a praticare la meditazione e a interessarmi dell’argomento. Il Giappone mi affascinava molto, così quando ebbi la possibilità di andarci in Giappone tra il 2003 e il 2004, ne approfittai per approfondire anche l’esperienza dell’aikido. Per lavoro, mia moglie doveva restare sei mesi in Giappone. Da tempo mi ero accostato all’aikido perché sentivo il bisogno di codificare il rapporto tra violenza, aggressività e conflitto, ma anche capire come davvero funziona il semplice contatto tra due persone o ciò che può svilupparsi all’interno di un gruppo durante una performance. Mi interessava approfondire come le arti marziali potessero lavorare su tutto questo, e l’aikido è l’unica a non essere violenta bensì basata sulla partnership. Durante le sedute di aikido devi rimanere in contatto con il tuo partner e non fare del male a nessuno: si lavora con l’energia ottenuta dagli altri. E penso che questo sia un aspetto essenziale della nostra attività di musicisti, sia tra di noi sul palco sia con il pubblico e, oltre a ciò, anche con i nostri partner nella vita quotidiana. E tutto ciò mi piace perché ha un aspetto molto fisico che non puoi intellettualizzare, devi allenare la tua mente e devi metterti in discussione. Non puoi semplicemente restartene lì, devi allenare la capacità di contatto e di partnership, e penso che sia molto utile per i musicisti, così da renderli assai più consapevoli quando salgono sul palco.

Anche i tuoi musicisti praticano la meditazione?
No. I miei colleghi meditano solo in parte, ma ognuno di noi ha un diverso modo di vedere gli sport e le tecniche di movimento. Si tratta essenzialmente di un mio interesse; per il resto dipende dai singoli musicisti. Per esempio, Nicolas Stocker – il batterista di Mobile – si serve di tecniche in un certo senso analoghe, come lo yoga. Ma è molto diverso, dipende dai musicisti dalla loro personalità.

Com’è avvenuto l’incontro con Sha?
Ah, lui studiava da un mio caro amico e già a sedici anni veniva ad assistere ai concerti della nostra band dell’epoca. A diciott’anni si mise in contatto con me per avere lezioni di composizione. Ne abbiamo fatta una per poi decidere che non aveva senso starsene seduti a tavolino ma era molto meglio suonare! Così lo abbiamo invitato a esibirsi con Ronin in qualità di come ospite e più tardi, verso il 2003, ha iniziato a frequentare le nostre serate ai Montags. Dal 2004, poi, è diventato membro di Ronin a tutti gli effetti.

Nik Bärtsch (foto di Christian Senti)
Nik Bärtsch (foto di Christian Senti)

Puoi svelarci che cosa si nasconde dietro la titolazione numerica dei tuoi brani?
Modul è un titolo essenzialmente pratico: il suo numero indica le caratteristiche della sua organizzazione di base, relative per esempio ai suoi patterns e e alle possibilità di modificarne la struttura. Il numero del singolo modulo indica a noi musicisti di cosa esattamente si tratta, o in certi casi la sua suddivisione metrica. Tutto ciò serve alla band per organizzare le esecusioni. Un modulo non ha caratteristiche immutabili, anzi è soggetto a modifiche, ma l’importante è che mantenga il suo carattere e la potenzialità di agire su improvvisazione e interpretazione. Voglio sempre lasciare ai musicisti, ma anche agli ascoltatori, una libertà per così dire poetica, perché ogni orecchio estrae qualcosa di diverso dalla musica e non sarò certo io a dire alle persone ciò che devono ascoltare o che devono vedere. Non voglio influenzare nessuno dando titoli specifici ai miei brani, ma preferisco che sia chi ci ascolta ad adattare la nostra musica alla sua personale varietà di sentimenti, emozioni o anche di idee filosofiche. E certe volte può anche essere un semplice fatto di energia cinetica…

So che tieni spesso dei seminari, solitamente in luoghi all’aperto immersi nella natura. Su cosa lavorate, e a chi vi rivolgete in particolare?
Tengo dei workshops ogni lunedì. Di solito durano due giorni, certi altri invece sono molto lunghi e combinati a meditazione e aikido. L’idea di base è che le tecniche corporee ci possano aiutare, come performers, a essere più reattivi, a capirne di più, ad ascoltare di più e a tenersi meglio in contatto con altre persone: questo significa che devi allenare il rispetto, la connessione, lo scambio di energia e le tecniche corporee di meditazione aikido. E anche le tecniche di performance musicale possono essere utili. Così, durante questi workshops, lavoriamo in gruppi, in cerchio, sia con gli strumenti sia senza, sia con il battito delle mani sia con gli shakers. La presenza corporea assume un’importanza enorme, e cerchiamo anche di aumentare la qualità della nostra consapevolezza esercitando in particolare non tanto l’aspetto mentale quanto quello fisico. Si tratta di una miscela di influenze che ho potuto imparare e mettere in pratica da altri maestri di tecniche del corpo. Adesso posso applicare nella musica ciò che mi è stato insegnato, e tento di condividerlo con chi è davvero interessato a concentrarsi per qualche tempo su queste materie.

Puoi parlarci del club Exil, dei Montags e della tua etichetta Ronin Rhythm?
L’idea dei Montags è nata nel 2004, tornando dal Giappone, perché volevo un posto dove poter tenere incontri regolari, potermi allenare e suonare sempre dal vivo. Come sai, per una band è molto difficile provare e suonare a sufficienza, quindi volevo aiutare me stesso, e tutti noi come gruppo, a creare un luogo di comunità e suonare senza eccezioni ogni settimana. Ed è così che ho iniziato i workshops, per esplorare e condividere queste idee, per dare a chiunque fosse interessato la possibilità di costruirsi un background e un metodo di allenamento. Prima di andare in Giappone, ogni primo lunedì del mese ho tenuto una open house da mezzogiorno preciso fino alle otto di sera, con lo scopo di fungere da punto d’incontro per chiunque volesse venire a condividere le sue cose. E, quando sono tornato dal Giappone, ogni lunedi ho ripreso a farlo ma questa volta assieme alla band. Ecco come sono iniziati i Montags. E in cinque anni ci abbiamo lavorato sopra: volevamo cambiare, avere un club migliore, una luce migliore, un suono migliore e anche un club tutto nostro. Il club precedente era uno scantinato che potevamo affittare solo di lunedi, quindi per avere quei lunedì in cui suonare ci toccava sempre pagare qualcun altro. Così abbiamo deciso, in cinque soci, di aprire un nostro club, l’Exil: io, un mio amico architetto, due promoters e il nostro batterista. Abbiamo allestito il locale con le nostre mani correndo un grosso rischio, perché già sapevamo che il contratto durava cinque anni. Alla fine siamo riusciti a prolungarlo e ormai ci autofinanziamo quasi al cento per cento. Si tratta di un lavoro difficile, ma volevamo creare un club musicale sempre aperto e senza confini stilistici. Quindi da noi puoi ascoltare electro, hip hop, jazz, musica dal vivo di ogni genere, un sacco di dj, insomma una vera comunità come piace a noi. Adesso abbiamo il club da dieci anni e e vogliamo prolungare il contratto per altri cinque, quindi il nostro progetto si sta trasformando in un’autentica vittoria per tutte le persone che vi sono coinvolte ed è un altro esempio di qualcosa che può servire ad aiutare il singolo individuo ma anche creare qualcosa tutti assieme. Mi chiedi anche della Ronin Rhythm. Ho iniziato a incidere per ECM nel 2005 e naturalmente tutto questo ha significato molto per me, non solo come musicista ma anche per ciò che ho imparato da Manfred Eicher e dal suo team riguardo alla produzione e al business della musica. Prima di lavorare con ECM avevo già registrato qualcosa in proprio, con l’obiettivo – che non ho mai abbandonato – di sostenere i musicisti più giovani e i loro dischi, tutte persone che esplorano un settore non molto dissimile dal mio. Per come sono fatto, so anche di voler imparare qualcosa da loro e mi piace l’idea di trasferire agli altri ciò che so fare io. Ecco ciò che cosa sta alla base della Ronin Rhythm. Siamo una piccola etichetta indipendente che cerca di aiutare in maniera concreta giovani musicisti interessanti a dar vita al loro processo creativo e a trarre il meglio da questa esperienza.

A quali progetti stai lavorando?
Cerco di lavorare con estrema lentezza perché credo che, molto spesso, il potenziale di evoluzione sia più forte a lungo termine. Di conseguenza non mi discosto molto dalle mie attività consuete: Ronin come progetto principale e Mobile come progetto acustico di musica da camera, oltre alle mie esibizioni da solista e alle composizioni che scrivo per conto terzi. In questo momento ho molte commissioni per ensemble di percussionisti, cosa che si è rivelata assai interessante. Sto scrivendo dei brani per un gruppo storico come Les Percussions De Strasbourg, e per il Third Coast Percussion, un gruppo di percussionisti di Chicago.

E, con tutte queste attività, come organizzi il tuo processo creativo?
Avendo anche famiglia – moglie e tre figlie – punto a creare un flusso di lavoro che mi consenta di sfruttare al meglio tutte le mie attività: bandleader, musicista, produttore discografico e proprietario di un club. Ho un sacco di lavoro ma anche molte occasioni di scrivere musica. Cerco di avere tutto ben organizzato nella settimana, di modo che il lunedì sia il giorno del club, il martedì il giorno dell’ufficio, riservando invece il mercoledì al lavoro più creativo, come il giovedi ed il venerdi. E ovviamente suoniamo molto, quindi ho bisogno di adattarmi anche in base al tempo da dedicare alla famiglia.

Soukizy

[da Musica Jazz novembre 2019]