Nai Palm dei Hiatus Kaiyote: le frontiere, sia fisiche che metaforiche, non esistono più

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Hiatus Kaiyote

In un mondo di artisti costruiti a tavolino e manovrati da eserciti di produttori, consulenti d’immagine e esperti di marketing, gli Hiatus Kaiyote sono una boccata d’aria fresca: bianchi, australiani, bizzarri e male assortiti a vedersi, in maniera del tutto spontanea sono riusciti a diventare una delle migliori soul band contemporanee. Capitanati dalla vulcanica cantante e chitarrista Nai Palm, all’anagrafe Naomi Saalfield, negli ultimi tre anni si sono accaparrati i complimenti di artisti come Prince, Erykah Badu o The Roots, un contratto discografico con Salaam Remi (che per primo aveva prodotto Amy Winehouse) e due nomination ai Grammy Awards nel 2013 e 2015 per la miglior performance R&B. È soprattutto Nai Palm ad aver scatenato la curiosità del pubblico: dopo un’infanzia complicata – la madre è morta quando era solo una bambina e l’affidamento l’ha allontanata dai fratelli – ha imparato a esprimere se stessa attraverso le sue canzoni e i suoi look coloratissimi, diventando un modello per una generazione di giovani musicisti, nonché un’icona LGBT. L’abbiamo incontrata dietro le quinte del suo ultimo concerto milanese.

La definizione che viene più spesso utilizzata per la vostra musica è “future soul” : ti ci ritrovi?

Non molto, anche perché non l’abbiamo scelta noi. Allo stesso tempo, però, credo sia sensata: la parola future rende bene l’idea della nostra voglia di esplorare e sperimentare, soul fa capire la profondità delle nostre intenzioni. Però sono d’accordo con il detto “Parlare di musica è come ballare di architettura”: non ha senso! Le definizioni vanno bene solo finché servono a evocare un immaginario.

Si dice che gli Hiatus Kaiyote siano nati da una folgorazione dei tuoi attuali compagni di band, che dopo averti visto suonare in un locale di Melbourne avrebbero fatto di tutto per convincerti ad unirti a loro. È vero?

Sì: prima di conoscere Paul Bender, Simon Mavin e Perrin Moss già mi esibivo in molti piccoli club della città come solista (e in un ensemble che faceva cumbia, ma quella era solo una scusa per imparare lo spagnolo!). I ragazzi mi hanno trovata proprio al momento giusto, quando cominciavo a desiderare una band tutta mia. Dopo il nostro incontro, la situazione si è evoluta molto rapidamente: nel giro di sei mesi abbiamo registrato l’album di debutto, cominciato una tournée mondiale e ottenuto la nostra prima nomination ai Grammy. Una sensazione pazzesca: sono passata dal non essere mai stata parte di un gruppo al vivere delle esperienze collettive così importanti! Mi sento fortunata a lavorare con artisti così talentuosi, ma amo molto anche suonare da sola: è qualcosa di terapeutico e intimo, per me.

Al momento, in effetti, sei in Italia per un concerto solista: questo vuol dire che, visto che la parola hiatus in inglese significa “in pausa”, avete compiuto la profezia del vostro nome e siete effettivamente fermi?

No, affatto! Abbiamo appena finito un tour molto importante, l’ultimo show insieme è stato qualche giorno fa. Non ci siamo sciolti né siamo in pausa; il fatto è che girare da sola per suonare è il mio modo per vedere il mondo. Non mi piace fare la turista, quando viaggio devo avere uno scopo: a differenza degli altri membri della band non avevo ancora voglia di tornare a casa, perciò approfitto di questo periodo in Europa più a lungo che posso. Non sono una fan del vostro inverno, però, è molto più freddo di quello dell’Oceania. Il vantaggio per i musicisti australiani, in effetti, è che quando nel vostro emisfero arriva la stagione dei festival migriamo qui e sfuggiamo al nostro inverno. E quando rientriamo, da noi è finalmente estate!

A proposito dell’Australia, negli ultimi anni ha una scena di soul e R&B contemporaneo molto vivace (basti pensare al successo di artisti come Chet Faker o Flume, oltre al vostro). Come mai è così fiorente, secondo te?

Penso che in Australia ci sia sempre stata ottima musica nera, ma all’estero quasi nessuno aveva occasione di scoprirlo: siamo così isolati che verrebbe automatico pensare che non siamo allo stesso livello del resto del mondo. Lo sviluppo di Internet, però, ci ha finalmente dato la possibilità di emergere. Noi stessi abbiamo cominciato diffondendo la nostra musica online, e il pubblico l’ha scoperta così.

Gli Hiatus Kaiyote, però, sono arrivati alla notorietà internazionale anche grazie a Salaam Remi, che vi ha presi sotto la sua ala: com’è stato lavorare con lui?

Salaam è arrivato quando già le cose avevano cominciato a ingranare: ha scoperto della nostra esistenza perché altri artisti si complimentavano con noi su Twitter. Anche Taylor McFerrin, il figlio di Bobby, è stato molto importante per la nostra carriera, perché portava personalmente la nostra musica alle radio ogni volta che andava a fare promozione per il suo album. Tornando a Salaam Remi, è stato lui a pubblicare il nostro primo lavoro «Nakamarra» tramite la sua etichetta Flying Buddha, una consociata della Sony. È una persona meravigliosa, calma e rassicurante e ha un ottimo orecchio, ci tiene a coltivare la creatività sua e altrui. La cosa più bella di lavorare con lui, però, è che non vuole imporre la sua volontà, cosa molto rara per un produttore discografico: ci ha permesso di essere noi stessi al 100%. Si fida di noi, così come si è fidato di tutti coloro con cui ha lavorato, da Amy Winehouse ai Fugees, che sono diventati famosissimi nel mondo ma che hanno sempre conservato la loro integrità artistica.

Hai dichiarato che il tuo processo creativo passa necessariamente attraverso la sofferenza, perché è quella che ti ispira… 

L’ispirazione per me è qualcosa di intangibile, può arrivare da qualsiasi cosa: persone che incontro, documentari sulla natura, videogame, film, arte, altri musicisti… Ma è vero, il dolore mi serve, e non perché io sia masochista. Il famoso poeta sufi Khalil Gibrain diceva che la sofferenza è ciò che rompe il guscio della tua conoscenza, e anche per me è così: mi permette di comprendere il mondo a un livello più profondo. Avere il cuore infranto è una faccia della medaglia, ma il lato opposto e complementare è la saggezza che ne deriva. Come autrice di canzoni per me è importante venire a contatto con questo aspetto della vita: non è vitale, riesco a scrivere anche quando sono felice, ma stare male mi aiuta a elaborare meglio alcuni sentimenti.

Nai Palm, cantante e chitarrista dei Hiatus Kaiyote

L’immagine della band sul palco e nei servizi fotografici è molto particolare, ed è soprattutto il tuo senso della moda ad avere catturato la curiosità del pubblico. Da cosa deriva?

Penso che l’abbigliamento e lo stile possano essere un gioco oppure comunicare un messaggio molto potente: io cerco di prendere due piccioni con una fava. Uso i miei vestiti come un supereroe usa il suo costume, in un certo senso. Viaggiando per lavoro mi capita di vedere molti modi diversi e bellissimi di intendere la moda e il costume, da cui prendo ispirazione; allo stesso tempo, però, visto che sono sempre in giro quello che indosso è la mia casa, mi serve per rimanere ancorata a me stessa. Gli abiti e gli accessori che uso mi ricordano persone, luoghi, situazioni a cui sono legata. Diciamo che nei miei vestiti c’è uno strato di profonda affettività e di significati, e un altro strato più superficiale di giocosità.

Tornando al vostro sound, negli ultimi anni i concetti di soul e R&B si sono molto evoluti, tant’è che oggi si parla di neo-soul e contemporary R&B per definire le nuove e variegate mutazioni del genere. Credi che artisti come te, Frank Ocean, FKA Twigs, Blood Orange e Solange Knowles abbiate qualcosa in comune oppure ciascuno fa scuola a sé?

Penso che ormai le frontiere, sia quelle fisiche che quelle metaforiche, non esistano più. Chiunque può scoprire nuove ispirazioni semplicemente navigando su YouTube, mentre un tempo per fare un certo genere musicale dovevi essere nato nella sua comunità di riferimento, e magari averlo assimilato saccheggiando la collezione di dischi di una vecchia zia. Oggi il mondo è a portata di clic, e questo ci ha regalato una palette sonora molto più ampia: se c’è qualcosa che tutti noi abbiamo in comune è che facciamo il tipo di musica che ci fa piacere sentire, e lo facciamo con coraggio. È molto triste quando un artista orienta le sue scelte in base alle mode del momento, ma credo che nessuno degli artisti citati prima lo faccia, così come non lo fanno altri come Kendrick Lamar, Anderson.Paak, The-Internet… Siamo sinceri nella nostra ricerca, e questo aiuta molto la gente a entrare in sintonia con i nostri album.

A proposito, quali sono i tuoi album preferiti che rientrano in questa categoria, tra le uscite recenti?

In realtà molte non le ho ancora ascoltate. Ad esempio non ho ancora sentito «Blonde» di Frank Ocean, di cui tutti parlano, e anche con «Black Messiah», l’attesissimo album di D’Angelo uscito dopo quindici anni di assenza dalle scene, avevo preferito aspettare per mesi di essere nello stato d’animo giusto per affrontarlo. Per me i dischi sono come i libri, ho bisogno dei giusti tempi per gustarmeli, non inseguo l’attualità: e infatti al momento sto ascoltando a ripetizione l’ultimo lavoro di Bjork, «Vulnicura», pubblicato nel 2015.

Marta “Blumi” Tripodi