«MY LOVE SUPREME» IL CD ALLEGATO A MUSICA JAZZ DI GIUGNO. INTERVISTA A MARTUX_m

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«My Love Supreme» è il disco in allegato al numero di giugno di Musica Jazz, firmato da Francesco Bearzatti e da Martux_m, con il quale ne abbiamo parlato.

Uno dei pochi lavori discografici che ci ricorda che sono passati cinquant’anni da quando John Coltrane incise «A Love Supreme». L’idea è tua o di Francesco Bearzatti?

E’ pensata da entrambi. Avevamo già lavorato insieme nell’omaggio a Miles Davis e «Imagine» e abbiamo pensato di intraprendere questa nuova avventura dedicata a John Coltrane.

Dopo il tema coltroniano, c’è tutta la vostra firma. Come avete proceduto in fase di rivisitazione-composizione?

Le fasi sono state due: la prima di ascolto di Coltrane, quasi come un mantra; un ascolto molto meditativo e concentrato per entrare completamente nella parte, come un attore si trova a dover entrare nel personaggio. La seconda fase è stata quella della composizione nata dallo studio delle biografie di Coltrane, seguendo le linee del sassofonista, dando un’impronta di improvvisazione e di naturalezza.

Un inno d’amore per un’opera rivoluzionaria. Quali focolai ha accesso A Love Supreme nel jazz, nella musica?

Credo che sia una delle opere più intime mai realizzate che si rivolge all’esterno: quasi un ossimoro. Credo che si siano delle opere che superino le barriere dei generi musicali. E «A Love Supreme» non appartiene solo al mondo del jazz. Coltrane l’ha pensata secondo il suo linguaggio, ma è stata interpretata e fatta propria da musicisti d’ogni estrazione. Abbiamo voluto riprenderla perché pensiamo che in questo particolare momento storico, la musica abbia perso un po’ questa spiritualità. E’ stato  un momento in cui ci siamo avvicinati a quella purezza espressa dal lavoro di Coltrane. E l’elettronica ha facilitato questo approccio. E ciò trova conforto in quel che afferma l’antropologo Massimo Canevacci, che ho avuto il piacere di conoscere; Canevacci sostiene che nelle culture native il rapporto con il trascendente è sempre di tipo estatico, ipnotico. E nelle culture africane tale elemento, dal punto di vista musicale, è sicuramente il ritmo.

Oltre a te e Francesco Bearzatti, chi sono gli altri artefici di questo disco?

Da un po’ di tempo i miei progetti hanno una sorta di marchio di fabbrica: la Martux_m Crew, che è un gruppo di lavoro. Per questo disco è formata da Zeno e da Kocleo. Questa è la mia crew, poi c’è Paul Brousseau, che Francesco ha suggerito e ha centrato l’obiettivo. Paul lavora a Parigi con l’Ojn ed è appassionato di musica elettronica.

Quali strumenti, quale strumentazione hai utilizzato per questo disco?

Abbiamo usato delle macchine elettroniche tra le più conosciute. Abbiamo usato macchine Electron, che è una casa svedese e che ci hanno consentito di dare i colori necessari al progetto.

I suoni li hai cercati o sono frutto dell’improvvisazione istantanea?

Il mio approccio è sempre quello di seguire ciò che il progetto impone: è quest’ultimo a dettare le sonorità. E le macchine di cui parlavo hanno questa capacità, di non essere programmate a monte, ma consentono di cercare i suoni.

Avete già sperimentato dal vivo. Come è andata?

Ogni volta è una prima volta, proprio per le caratteristiche del lavoro. L’abbiamo eseguito a Ravenna all’interno del Crossroads, in un ambiente più raccolto ed è stato magico! Poi, ci siamo esibiti a Torino nell’ambito del jazz festival in una piazza gremita da circa tremila persone, ed è stato completamente diverso. Siamo molto soddisfatti della riuscita dal vivo.

Avete preso in considerazione due opere che hanno, per diversi aspetti, scardinato gli assetti musicali dei rispettivi periodi storici: prima Miles Davis con «About In A Silent Way»  e ora Coltrane con «My Love Supreme». A tuo avviso, oggi c’è un opera o un’artista che possa avere la stessa valenza?

E’  difficile studiare il nostro tempo standoci dentro. Penso che tutti i processi siano sempre un po’ sinuosi; nel senso che ci siano momenti stagnanti che si alternano con fasi di grande esplosione creativa. Probabilmente oggi stiamo vivendo un periodo di crisi. Sento tantissimi artisti preparati, eccezionali, ma non trovo molti artisti capaci di emozionarmi. Uno degli artisti capaci di emozionarmi e che ha rivoluzionato il linguaggio musicale è Nils Petter Molvær, con il quale ho collaborato. Un altro artista al quale devo molto e con il quale condivido molte cose, è Danilo Rea che ha una grande capacità comunicativa, seppur nella complessità del suo linguaggio musicale. Ogni qualvolta lo incontro, imparo qualcosa anche per la sua capacità di essere trasversale; capacità che lo mette spesso al centro di critiche da parte dei puristi, che non trovo condivisibili. Ecco, questi sono due artisti che sono capaci di stupirmi.

Tu sei un antesignano dell’elettronica affiancata al jazz. Ne avrai sentite di cotte e di crude in proposito, soprattutto dai più «talebani». Come hai reagito?

In passato mi faceva sorridere, ora mi fa un po’ tenerezza, perché la chiusura verso qualcosa è pur sempre un limite. Il jazz ha avuto tantissime evoluzioni e di questo bisogna prenderne atto e l’elettronica è una di queste. Credo che le musiche fanno il pubblico e credo che con il tempo le cose siano destinate a cambiare, perché la musica ha una componente vitale. L’Italia è una nazione molto conservatrice, forse anche per una questione anagrafica e, più di altre nazioni, ha paura del cambiamento. Ma il cambiamento è una pratica necessaria per mantenersi vitale. Comunque, al di là dell’anagrafica, è soprattutto una questione di mentalità. Uno dei miei grandi maestri è stato Filippo Bianchi e con lui ho un rapporto splendido ed è stato lui a introdurmi ad ascolti diversi, che probabilmente senza di lui non avrei mai fatto. Così, parlando di persone che hanno un’apertura mentale, ci sono Stefano Zenni e Furio Di Castri, che hanno voluto aprire al museo Egizio con Anthony Braxton e con noi.

A proposito: come nasce la liaison tra Martux e il jazz?

Nasco come batterista rock: ero ragazzino e mi cimentavo con le cover dei Led Zeppelin, Deep Purple, Rolling Stones; studiando la batteria, inevitabilmente, mi sono avvicinato al jazz e, quando mi trasferii a Roma ho suonato con diversi jazzisti. Poi, è nata la grande passione per la musica elettronica, quindi ho messo da parte il jazz e mi sono interamente dedicato a questa, per poi ritornare al jazz. C’è da dire che ho seguito sia Miles Davis che i Weather Report. Anche se non conoscevo i percorsi dei singoli musicisti dei Weather Report; così come non sapevo che Miles fosse un jazzista tout-court, perché solo in seguito ho letto la sua biografia e molto altro su di lui. Quindi, ho fuso le mie passioni: elettronica e jazz e ho trovato subito degli artisti che hanno avuto grande apertura mentale e curiosità. Il mio primo disco è stato «Reminiscence» con Danilo Rea, che si è mostrato da subito interessato; poi, ho trovato altri jazzisti sensibili, come Francesco Bearzatti, Fabrizio Bosso

Cosa c’è scritto nella agenda di Martux?

Da poco è uscito anche un altro mio disco, in duo con Marcus Stockhausen «Atlas», un’edizione limitata in vinile (Resiliens Astra). Vorrei provare a fare un lavoro inverso: portare gli standard elettronici, come per esempio i Massive Attack che hanno tanto del baglio afro nella loro musica, in un contesto più legato all’improvvisazione. Poi, saremo in giro con «My Love Supreme»; avrò degli appuntamenti in Germania per suonare il disco realizzato con Marcus e altre date in duo con Danilo Rea.

Alceste Ayroldi