Musiche Corsare  

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Il quintetto di Michel Portal - Foto di Nicola Amato

Bari, Teatro Forma

27-29 maggio

Nell’introdurre la seconda sezione della rassegna Musiche Corsare e nello spiegarne i presupposti, il direttore artistico Roberto Ottaviano ha utilizzato la metafora del salmone che risale la corrente. Parallelo quanto mai opportuno, perché questa prima edizione – organizzata dall’associazione Nel Gioco del Jazz – si poneva la prerogativa di andare controcorrente. In altre parole, proporre alcune delle migliori espressioni del jazz e della musica improvvisata di ambito italiano ed europeo a dispetto di due anni di pandemia, cercando così di dare una risposta significativa all’allontanamento del pubblico dal rapporto vivo con le arti performative e al distanziamento sociale (quello vero!) che ha progressivamente portato le persone a isolarsi e distaccarsi dalla cultura come forma di aggregazione. Non è quindi un caso che le scelte artistiche siano cadute su musicisti che operano secondo parametri tutt’altro che scontati e che sono stati capaci di definire un’identità e una poetica del tutto consone alle rispettive culture. Musiche corsare, dunque: esplicito riferimento agli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini, al cui spirito libero si ispirava dichiaratamente la manifestazione. Un assunto confermato anche dalla prima parte della rassegna, svoltasi dal 20 al 22 maggio, che aveva visto protagonisti nell’ordine il quartetto di Enrico Morello, il duo John Surman-Vigleik Storaas, il solo di Ernst Reijseger e il Crossing 4tet di Enzo Favata.

Non meno densa di contenuti si è rivelata la seconda parte, come ha dimostrato il doppio set in programma il 27 maggio. Il piano solo di Stefano Battaglia ha dischiuso agli ascoltatori un microcosmo tanto composito quanto coerente per ricchezza e rigore. Nell’approccio di Battaglia si coglie un azzeramento quasi totale della prassi jazzistica convenzionale. Per contro, il pianista applica diffusamente il concetto di improvvisazione come composizione estemporanea, rispettando parametri timbrici e dinamici che gli consentono di produrre un’ampia gamma di soluzioni. Nei passaggi più rarefatti si individuano tracce di puntillismo post-weberniano, in cui l’uso del pedale risulta determinante per variare altezze e dinamiche. Il processo esecutivo si stratifica mediante la progressiva aggregazione di cellule che conduce a una tensione crescente e può sfociare poi in improvvisi saliscendi, grovigli sonori e cascate di arpeggi all’insegna di una frequente alternanza tra tensione e distensione, pieno e vuoto. Certe figure ritmiche disegnate sul registro grave richiamano Paul Bley e, per associazione, anche Lennie Tristano. Occasionali scorribande furiose sulla tastiera possono essere ricondotte alla poetica di Cecil Taylor. Al tempo stesso, alcune progressioni iterative e martellanti non possono non evocare For Cornelius, che Alvin Curran aveva dedicato a Cornelius Cardew. In conclusione, un solo di assoluto pregio, alimentato da una concentrazione granitica e un rapporto fisico con lo strumento.

Stefano Battaglia – Foto di Nicola Amato

Il quartetto Sound Glance è il frutto succoso di precedenti esperienze in duo. Da una parte il rapporto decennale tra il pianista Fabrizio Puglisi e il batterista Günter «Baby» Sommer; dall’altra, la collaborazione tra la contrabbassista Silvia Bolognesi e il polistrumentista Marco Colonna (clarinetti – basso e in Si bemolle – e sax tenore). L’operato del gruppo è improntato a una libertà creativa che a partire dagli anni Settanta ha caratterizzato le frange più avanzate della scena europea. Lo si riscontra immediatamente nelle sezioni atonali, che comunque rifuggono da rievocazioni del free storicizzato. Lo si apprezza nell’approccio teatrale, quasi cabarettistico, di certi passaggi. Lo si tocca con mano nella gestualità e nelle gags di Sommer, nonché nell’uso di campanellini e in certi trattamenti sulla cordiera del piano a cui Puglisi ricorre anche in virtù del suo amore per il movimento Fluxus. Puglisi fa poi riaffiorare il suo legame con Thelonious Monk in virtù di uno stile asciutto, eterodosso, fatto di linee sghembe e impregnato di un sottile senso del blues. Appunto il blues emerge nettamente più avanti, in un intenso e facondo dialogo tra Bolognesi e Colonna. La contrabbassista funge da vero e proprio perno del gruppo con linee fluide e corposi spessori sonori. Per parte sua, Colonna riconferma il suo magistero strumentale: prodigo di intuizioni spericolate al clarinetto basso; sanguigno e bluesy al clarinetto in Si bemolle, ma anche capace di trattarlo come un flauto etnico dopo avergli tolto l’imboccatura; dotato di un suono aspro e rugoso al tenore, su un’ipotetica linea stilistica che risale a David Murray, Archie Shepp ed Albert Ayler. Sommer sciorina con disinvolta nonchalance un campionario di invenzioni ritmiche e coloristiche utilizzando anche spazzole e mazze felpate. Il batterista tedesco – classe 1943, tra i protagonisti indiscussi del free europeo negli anni Settanta – incarna lo spirito del quartetto, votato a una musica libera, disinibita, pervasa dalla gioia e dalla condivisione.

Il quartetto Sound Glance – Foto di Nicola Amato

Di scena il 28 maggio, il sassofonista ucraino Maksim Kochetov vive a Belgrado dal 2006. Si è dunque pienamente inserito nella scena musicale serba e serbi sono appunto i membri del suo quartetto: Andreja Hristić (piano), Miloš Čolović (contrabbasso), Miloš Grbatinić (batteria). Con questo gruppo (ma con Boris Šainović al posto di Čolović) Kochetov ha recentemente inciso «Altered Feelings» – suite di 42 minuti – per l’etichetta barese A.Ma Records, che tra l’altro si sforza di documentare proprio la scena serba. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, nelle composizioni di Kochetov non figurano né melodie ispirate alle tradizioni popolari dell’Est europeo, né divisioni metriche basate su tempi dispari di matrice balcanica. Vi si individua invece una solida adesione a determinati stilemi afroamericani. Per cominciare, un modalismo palesemente ispirato a John Coltrane, che si riflette nel piglio ritmico e nell’uso dei voicings dell’ottimo Hristić (con chiari riferimenti a McCoy Tyner), e poi spiana la strada per certe torrenziali digressioni di Kochetov al soprano. Quindi, un’impronta decisamente ed energicamente post bop che emerge dalla costruzione armonica e si ripercuote sia sull’approccio di Kochetov al contralto – con echi di Jackie McLean – che sul pianismo di Hristić, venato dalle influenze di Wynton Kelly e, a tratti, Bobby Timmons. Qua e là, infine, affiorano riferimenti al mainstream con esiti non memorabili e alcune accattivanti tracce funky. Dunque, musica non originalissima, ma proposta con sincerità e generosità.

Il quartetto di Maksim Kochetov – Foto di Nicola Amato

Il 29 maggio la conclusione della rassegna è stata affidata a Michel Portal, alla guida del quintetto con cui due anni fa aveva inciso «MP85» per la Label Bleu. È sorprendente come, alla bella età di 87 anni, il clarinettista francese sfoggi ancora estro creativo, entusiasmo nella prassi esecutiva e rigorosa lucidità nella gestione del processo collettivo. Al di là dell’elevato valore dei singoli, i tratti distintivi del gruppo risiedono nell’efficace ed empatica interazione, nell’accurata distribuzione delle voci e nella contagiosa energia che si sprigiona da ogni esecuzione. Quasi sempre impegnato al clarinetto basso (a cui affianca occasionalmente quello in Si bemolle e il sax soprano), Portal imbastisce con il trombone di Nils Wogram un fitto ordito contrappuntistico, ricchi impasti timbrici e disegni tematici finemente articolati in brani di sua creazione come African Wind e Mister Pharmacy. Nei concisi interventi solistici evidenzia un controllo ferreo del suono e delle dinamiche, e una logica stringente nella concatenazione del fraseggio. Per parte sua, Wogram si dimostra degno successore e continuatore dell’opera del connazionale Albert Mangelsdorff per la densità dello spessore timbrico e la fluidità del fraseggio, come nella propria Split The Difference. Bojan Z funge da solerte cucitore di trame operando prevalentemente al Fender Rhodes, che tratta alla stregua di uno strumento autonomo modificandone le timbriche, suonandolo in contemporanea con il piano acustico o sovrapponendovi un sintetizzatore Prophet-6. La sua Full Half Moon profuma del suo retroterra balcanico e aderisce in pieno alla poetica di Portal in virtù del ricorso a cambi di tempo e metri dispari. La proficua dialettica tra Bruno Chevillon e Lander Gyselinck garantisce un impianto ritmico capace, solido e fluido al tempo stesso. Il contrabbassista francese produce linee ficcanti e propulsive con una cavata corposa e profonda. La sua introduzione solitaria a Mino-Miro (doppia dedica a Mino Cinélu e Miroslav Vitouš) è un esempio magistrale di asciutto senso melodico, plasticità e senso architettonico. Il giovane batterista belga si rivela ascoltatore attento e ricettivo, sempre pronto a cogliere e rilanciare suggerimenti. Va sottolineato, infine, il gusto di Portal per la costruzione certosina di raffinate melodie: il sinuoso tema di Desertown, disegnato dal clarinetto in Si bemolle; le preziose tessiture contrappuntistiche di clarinetto basso, trombone e piano che animano la struggente ed evocativa Armenia.

Michel Portal – Foto di Nicola Amato

Un più che degno epilogo per una rassegna che al suo primo anno di vita ha espresso un potenziale notevole di idee e contenuti, arricchendosi tra l’altro di varie iniziative culturali, tra cui la masterclass Tabula Rasa – L’arte dell’improvvisazione tenuta da Stefano Battaglia, la mostra fotografica di Luciano Rossetti e la presentazione del libro a fumetti Mingus, realizzato dal collega Flavio Massarutto con il disegnatore Squaz (alias Pasquale Todisco). È dunque auspicabile che per Musiche Corsare questa sia solo la prima tappa di un lungo percorso.

 

Enzo Boddi