Musiche Corsare: il coraggio delle scelte

Organizzata dall’associazione Nel Gioco del Jazz e curata da Roberto Ottaviano, la seconda edizione di Musiche Corsare ha rilanciato con forza ed efficacia ancor maggiori l’impostazione proposta nel 2022.

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What Love - Foto di Nicola Amato

Bari, Teatro Forma

20-23 aprile

Organizzata dall’associazione Nel Gioco del Jazz e curata da Roberto Ottaviano, la seconda edizione di Musiche Corsare ha rilanciato con forza ed efficacia ancor maggiori l’impostazione proposta nel 2022. Vale a dire, non un festival improntato a una varietà dispersiva, né tantomeno basato su nomi di facile richiamo. Piuttosto, un festival (o rassegna che dir si voglia) articolato su un’idea ben precisa, in direzione ostinata e contraria all’appiattimento culturale, aperto a quei musicisti animati dalla sete di conoscenza e quindi desiderosi di tentare e percorrere nuove strade. Se la prima edizione era stata celebrata – già nell’esplicita parafrasi contenuta nel titolo – in onore di Pier Paolo Pasolini, questo secondo capitolo era dedicato a George Russell. Scelta del tutto mirata e volta ad illustrare il rapporto tra composizione e improvvisazione, e le nuove modalità che caratterizzano questi processi.
Nella serata introduttiva è stato giustamente concesso spazio a un gruppo di musicisti pugliesi guidati dal batterista Fabio Accardi. Con Feel of Drummatiko, evidente gioco di parole, Accardi si prefigge di mettere in risalto il ruolo compositivo (non di rado sottovalutato) di alcuni batteristi che hanno ampiamente contribuito allo sviluppo del jazz moderno. In questo novero si colloca a pieno titolo Jack DeJohnette, dal cui repertorio sono state prelevate Jack In e Parallel Realities, ricche di caleidoscopiche invenzioni ritmiche e timbriche. Vi appartiene poi di diritto Tony Williams, autore di Pee Wee, incisa su «Sorcerer» di Miles Davis e qui sottoposta a un trattamento funk, e di There Comes a Time, cavallo di battaglia dell’orchestra di Gil Evans. La notevole versatilità di Peter Erskine si riscontra sia nelle ariose aperture melodiche della ballad Not a Word, che nel festoso calypso di Corazon. Da non sottovalutare, infine, il talvolta bistrattato Billy Cobham che nel suo primo (e probabilmente migliore) album, «Spectrum» del 1973, espresse doti non comuni di compositore, qui documentate dall’intro pianistica di To the Women in My Life e dagli inebrianti profumi latini di Le Lis. Tutti materiali degni di approfondimento, ben arrangiati da Accardi ed eseguiti efficacemente da Francesco Lomangino (sax tenore e soprano, flauto), Fabrizio Savino (chitarra), Francesco Schepisi (piano, tastiera), Gianluca Aceto (basso elettrico), Walter Celi (percussioni e voce).

Il gruppo di Fabio Accardi – Fpto di Nicola Amato

La seconda serata è stata contraddistinta da forti contrasti. Al trio Disorder at the Border – formato da Daniele D’Agaro (sax tenore e clarinetto), Giovanni Maier (contrabbasso) e Zlatko Kaučič (batteria e percussioni) – si è unito il sassofonista e clarinettista olandese Tobias Delius, con cui D’Agaro condivide un sodalizio risalente agli anni Ottanta, ai tempi del suo soggiorno in Olanda. Musica informale e a tratti incandescente, quella del quartetto, basata su un elevato livello di ascolto reciproco e su una scrupolosa esplorazione di timbri e dinamiche. D’Agaro e Delius sono profondi conoscitori della tradizione. Nella voce possente dei loro tenori si individua il retaggio di Coleman Hawkins e Ben Webster; nell’approccio ai clarinetti si coglie il senso del blues di Pee Wee Russell e Tony Scott. Entrambi sfruttano le risorse dei rispettivi strumenti fino alle estreme conseguenze, portandoli su registri estremi sulla scia di storici improvvisatori europei come il tedesco Peter Brötzmann e l’olandese Willem Breuker. La loro dialettica produce un impressionante impatto, accentuato dall’impeto della ritmica. Maier sviluppa una pulsazione tellurica e dei pedali formidabili su cui Kaučič può avventurarsi con un drumming frastagliato e coloristico, estremamente concentrato, frutto del suo talento di percussionista. Anche nei frangenti più aleatori il quartetto mantiene equilibrio e disciplina ammirevoli. Cosciente dell’eredità del free storicizzato e anche dell’improvvisazione radicale europea degli anni Settanta, ma certamente non ancorato a stilemi e luoghi comuni. Al contrario, ne risulta un’esperienza liberatoria, sia per i musicisti che per gli ascoltatori.

Disorder at the Border -Foto di Nicola Amato

A una scrittura minuziosa si affida invece il pianista Wayne Horvitz, che – in quartetto con Francesco Bigoni (sax tenore e clarinetto), Danilo Gallo (contrabbasso) e Zeno De Rossi (batteria) – ha riproposto il repertorio di «Sweeter than the Day». Le composizioni sono ingegnosamente strutturate a livello tematico e armonico, con particolare attenzione al contrappunto e anche una certa predilezione per linee melodiche finemente elaborate, quasi centellinate. Nel tempo Horvitz ha ulteriormente prosciugato il suo pianismo intriso di blues (con Herbie Nichols come possibile riferimento) e animato da un sostanzioso ed efficace lavoro sul registro grave. Al tenore Bigoni disegna frasi asciutte e pregne di blues feeling, articolate con senso della misura e timbro sanguigno. Al clarinetto traccia arabeschi dalle ampie volute che evocano Jimmy Giuffre, soprattutto per quanto riguarda certe deviazioni atonali del tutto consone all’impostazione cameristica data da Horvitz. Alla dilatazione della materia e all’apertura di spazi contribuisce anche l’impeccabile ritmica, forte di un vecchio sodalizio. Gallo possiede un suono antico e un fraseggio essenziale, sempre complementare. De Rossi è dotato di una versatilità che gli consente di spaziare mediante sottigliezze dinamiche dall’informale al modale, dallo swing al dixieland nella ricognizione attraverso i vari capitoli della musica americana confluiti nell’affresco concepito da Horvitz.

Wayne Horvitz Sweeter than the Day – Foto di Nicola Amato

Le giornate di sabato 22 e domenica 23 sono state caratterizzate da programmi più intensi, grazie all’inserimento dei concerti mattutini. Formato da Marcello Allulli (sax tenore), Francesco Diodati (chitarra) ed Ermanno Baron (batteria), il MAT Trio si contraddistingue per una poetica dalle connotazioni forti e sfaccettate, che può ricordare a tratti – fatte le debite differenze – il trio di Paul Motian con Bill Frisell e Joe Lovano. L’azione del trio è infatti animata da libertà espressiva, dall’attenzione a valori melodici essenziali ma pregnanti, dal continuo circolare di stimoli e segnali, nonché da strutture ritmiche sempre diversificate e ricche di preziose dinamiche. Anche i passaggi informali vengono affrontati con spiccata capacità di ascolto reciproco ed esemplare disciplina. In un tale contesto, la prassi dell’assolo è pressoché assente. Piuttosto, tutti e tre i componenti contribuiscono paritariamente allo sviluppo di nuclei che talvolta scaturiscono da fasi su tempo libero e frequentemente confluiscono in crescendo prorompenti. In questi frangenti Allulli esprime un empito e un senso del blues in qualche modo riconducibili ad Albert Ayler. Senza protagonismi Diodati produce una variegata gamma timbrica, mentre Baron si prodiga in efficaci scomposizioni e figurazioni coloristiche. Oltre alle composizioni originali, nel repertorio figurano anche ingegnose versioni di Time di Tom Waits, Bachianas Brasileiras n. 5 di Heitor Villa-Lobos e Kathelin Gray di Ornette Coleman.

MAT Trio – Foto di Nicola Amato

Boris Savoldelli è un cantante e vocalist (oltreché abile e divertente one-man band) dotato di una concezione eminentemente strumentale della voce. In un’unica performance solistica è capace di plasmarla e trasformarla differenziandone le funzioni, anche con l’ausilio di una loop station che gli permette di costruire basi sulle quali sovrapporre e stratificare la materia. Ciò non gli impedisce comunque di eseguire parti a cappella affrontando standards del Songbook: l’introduzione di Lullaby of Birdland, preludio a una parte eseguita in stile scat in cui ripropone l’assolo di Mel Tormé; un’accorata versione di Nature Boy. Il gioco di sovrapposizioni consente di trattare materiali del tutto diversi. Englishman in New York di Sting è ravvivata da un’improvvisazione in scat. I Mean You di Thelonious Monk esemplifica efficacemente l’applicazione del voicing, cioè la disposizione verticale delle note che compongono un accordo. In Dear Prudence dei Beatles Savoldelli dispone una tavolozza di colori in cui riproduce due violini, due violoncelli, due corni francesi e un oboe. Miles Davis e John Coltrane sono altri due inevitabili punti di riferimento, grazie agli incastri ritmici di All Blues e alle progressioni armoniche di My Favorite Things. Infine, una piccola perla è la versione di Voodoo Chile di Jimi Hendrix, trasposta in uno scarno impianto tra spiritual e work song.

Boris Savoldelli – Foto di Nicola Amato

Diretto da Danilo Gallo, qui in veste di bassista elettrico e compositore, completato da Francesco Bearzatti e Francesco Bigoni (sax tenore e clarinetto) e Jim Black (batteria), Dark Dry Tears costituisce una delle più belle realtà della scena italiana attuale. Le esecuzioni prendono frequentemente le mosse da figure ipnotiche e scansioni rock, e poggiano sulla feconda dialettica tra le ance. Al tenore Bearzatti e Bigoni – il primo con fraseggi spigolosi e timbro corrosivo; il secondo con un sanguigno blues feeling – sono infatti protagonisti di palpitanti dialoghi, imperiose progressioni e infuocati intrecci, talvolta cosparsi di schegge acuminate. Al clarinetto disegnano invece sinuose linee contrappuntistiche. Dotati di un’intesa coesa e ormai consolidata, alimentata anche dal comune interesse per altre espressioni, Gallo e Black imbastiscono un tessuto ritmico il più delle volte denso, a tratti esplosivo in virtù delle distorsioni del basso, in altri frangenti intelligentemente disarticolato. Un esempio intelligente di come si possano convogliare nel contesto dell’improvvisazione di matrice jazzistica stimoli ritmici e colori timbrici desunti dalle propaggini più avanzate e creative del rock indipendente.

Dark Dry Tears – Foto di Nicola Amato

L’interazione tra il trombonista svizzero Samuel Blaser e il chitarrista francese Marc Ducret si basa su una fitta rete di segnali, richiami, rimandi e rimpalli e si svolge all’insegna della continua trasmissione di stimoli e suggerimenti. Blaser perpetua e sviluppa la tradizione (o meglio, la linea genetica) di grandi trombonisti europei quali Albert Mangelsdorff, Eje Thelin, Wolter Wierbos, Radu Malfatti e Paul Rutherford in virtù di una versatilità e di un’ampia gamma timbrica arricchita dal sapiente uso della sordina. Come suo costume, Ducret trae sonorità non convenzionali – aspre e abrasive – dalle corde e perfino dal corpo dello strumento attraverso un approccio molto fisico, trasfigurandolo letteralmente con l’uso calibratissimo della distorsione e l’ausilio della slide. Il duo utilizza anche tracce scritte, ponendo massima attenzione all’equilibrio tra forma e contenuto nel processo improvvisativo. Blaser e Ducret riescono a giocare su dinamiche delicate anche con sordine e distorsioni, costruendo trame elaborate con intrecci e contrappunti gustosi nei brani originali, o centellinando cellula per cellula il blues di Blind Willie Johnson Dark Was the Night, Cold Was the Ground.

Samuel Blaser e Marc Ducret – Foto di Nicola Amato

Storico pianista di Archie Shepp e suo compagno in incisioni fondamentali come «The Way Ahead», «Live at the Pan-African Festival», «Blasé», «Attica Blues», «A Sea of Faces», alla bella età di 82 anni Dave Burrell ha mantenuto un tocco essenziale, asciutto, che lo porta a procedere spesso con progressioni di block chords e frasi in staccato con cui esplora le singole cellule della melodia, conducendo un lavoro di scavo approfondito nel tessuto dell’impianto armonico. Provvede poi ad allestire potenti contrafforti ritmici sfruttando al meglio il registro grave, ora sovrapponendovi rapidi arpeggi, ora realizzando potenti progressioni in un crescendo dinamico. In tal modo, anche il trattamento degli standards risulta tutt’altro che scontato, come dimostrano My Melancholy Baby e la medley Lush Life/My Funny Valentine/Come Rain or Come Shine.

Dave Burrell – Foto di Nicola Amato

What Love, il nuovo progetto di Roberto Ottaviano, è la naturale estensione della ricerca condotta con il quintetto Eternal Love. In questo contesto il sassofonista ha formato una ritmica con due contrabbassi, Giovanni Maier e Danilo Gallo, e Zeno De Rossi alla batteria. Quindi, ha predisposto una nutrita sezione di ance con Marco Colonna (clarinetto basso), Francesco Bearzatti (clarinetto in Si bemolle e sax tenore), Gaetano Partipilo (sax alto), oltre al proprio soprano. Vi ha poi aggiunto Ralph Alessi (tromba) e Samuel Blaser (trombone). Completano al formazione Alexander Hawkins al piano e Michele Sannelli al vibrafono. Ottaviano ha realizzato una suite in nove movimenti, ricca di contrasti e colori, L’introduzione – affidata a clarinetto, vibrafono e trombone – è improntata a un camerismo dal sapore stravinskiano e zappiano, con fini contrappunti. Dai successivi fitti intrecci tra le ance scaturiscono assoli di vibrafono, trombone e soprano. Tuttavia, in fin dei conti prevale il gusto per densi insiemi, all’insegna di un tutti nitido in cui si distinguono nettamente le rispettive voci. Una concezione del collettivo che emerge anche nei successivi movimenti, sia su impianti modali che su incisivi e swinganti up tempo, e tanto in ingegnose divisioni metriche, quanto in scoppiettanti dialoghi fra le sezioni. Non manca spazio per sortite individuali: il sorprendente Sannelli; il periodare vigoroso di Bearzatti; l’approccio viscerale di Colonna; il tagliente soprano del leader; il bruciante fraseggio di Partipilo; la concezione razionale di Alessi; le ricche sfumature di Blaser; la faconda dialettica tra i contrabbassi. Un mosaico sfaccettato e lungimirante.

What Love – Foto di Nicola Amato

Ottaviano ha annunciato la sua decisione di lasciare l’incarico di direttore artistico, definizione nella quale non si riconosce, prediligendo quella di curatore. A modesto parere di chi scrive, ha invece svolto una reale funzione di direzione artistica, privilegiando la qualità e costruendo un programma organico. Peccato che questi sforzi non siano stati sufficientemente premiati dalla partecipazione del pubblico. Ci auguriamo che Musiche Corsare possa proseguire il cammino.
Enzo Boddi