Miles Okazaki: il nuovo grande, innovatore

di Enzo Capua

623
Miles Okazaki (foto di Dimitri Louis)
Miles Okazaki (foto di Dimitri Louis)

Miles Okazaki spicca per l’originalità del fraseggio in una dimensione ritmica molto complessa e per la quasi totale assenza di distorsione o manipolazione a priori del suono del suo strumento.

In questi ultimi dieci anni la chitarra elettrica è ritornata decisamente in auge nel jazz, anche se in modo del tutto diverso di quanto lo fosse negli anni della cosiddetta fusion. I giovani chitarristi, americani ed europei, hanno saputo riconfigurare le sonorità tipiche del rock in un contesto del tutto inedito, dove l’improvvisazione jazzistica trova nuova linfa vitale per avventurarsi in un paesaggio sonoro ancora da esplorare fino in fondo. In pratica non solo ci troviamo in una vera e propria «età d’oro» della chitarra, ma con essa si aprono anche delle prospettive inusitate per l’evoluzione del linguaggio jazzistico tutto. È un’affermazione forte ma dalle solide radici: da quelli che possiamo ormai considerare come «padri putativi», Bill Frisell da un lato e Pat Metheny dall’altro (pur non dimenticando un grande virtuoso come John McLaughlin), oggi le punte di diamante del new sound chitarristico le possiamo individuare in Nels Cline, Mary Halvorson e quindi Miles Okazaki. E questo per rimanere in terra americana, altrimenti il discorso sarebbe troppo lungo.

Dunque, Miles Okazaki sta emergendo fra i grandi innovatori sia per le considerazioni prima fatte, sia perché si distingue fra tutti gli altri per due caratteristiche notevoli: l’originalità del fraseggio in una dimensione ritmica molto complessa e la quasi totale assenza di distorsione o manipolazione a priori del suono dello strumento. In questo senso il suo album, «Trickster» (2017, Pi Recordings) può essere considerato un vero e proprio capolavoro. Un punto saldo del jazz contemporaneo, un riferimento per il futuro. Il disco si avvale anche della presenza di un altro personaggio di riguardo della nuova scena jazzistica, il pianista Craig Taborn, che qui trova in Miles Okazaki un partner ideale. Ma «Trickster» è comunque l’evoluzione di uno stile che nella manciata di pochi album come leader, dall’autoprodotto «Mirror» del 2006 fino a oggi, ha aperto una prospettiva davvero esaltante per il jazz odierno. Non dimentichiamo, peraltro, che Miles Okazaki ha flirtato volentieri con alcuni nostri musicisti: una sua bella collaborazione, con Gaetano Partipilo al sax e Dan Weiss alla batteria, la ritroviamo nel cd «I Like Too Much», prodotto nel 2008 dalla Auand. Anche lui abitante in quello che possiamo considerare come il quartiere residenziale di gran parte del nuovo jazz newyorkese, cioè Flatbush a Brooklyn, Miles Okazaki riesce a sconfiggere la sua naturale introversione quando si trova tra le mura del suo piccolo studio, al piano basso di casa, dove può sperimentare indisturbato.

Miles è un nome importante per un musicista di jazz: viene proprio da Davis o altro?
Be’, credo proprio di sì. Mio padre è sempre stato un grande appassionato di jazz e poi anche nella famiglia di mia madre era un nome già usato, da un suo zio. Il mio cognome è giapponese perché mio padre lo è, ma abitava alle Hawaii, mentre mia madre viene dallo Stato di Washington, dove sono nato in una cittadina vicina a Seattle, Port Townsend. Del resto la mia passione per la musica è nata molto presto perché a casa c’era una grande collezione di dischi: Beatles, Stevie Wonder e soul da un lato e, per via di mio padre, tanto jazz dall’altro. Il jazz però all’inizio non mi piaceva, forse perché era troppo complicato. Ma ho iniziato con la chitarra molto presto, a circa sei anni: era facile seguire quei dischi di rock. E poi crescendo, come tutti, entrai a far parte di una piccola band. Visto che mi piaceva lo strumento cominciai a studiarlo sul serio, con la chitarra classica. A quattordici anni già suonavo jazz dal vivo: ristoranti, soprattutto italiani, ogni mercoledì sera e da solo. Mi ci portava mia madre e poi verso le undici di sera mi riportava a casa. Avevo la scuola, il giorno dopo!

Dev’essere stata una bella scuola di musica per te: avevi un pubblico vario, davanti, e dovevi destare attenzione. Che tipo di musica?
Standard di jazz. Un’esperienza fondamentale per un ragazzino di quell’età. Nacque così, pian piano, l’idea di diventare un vero professionista, ma la cosa avvenne solo quando decisi di fare il gran passo e venire a New York, a ventidue anni. Da solo e senza conoscere nessuno.

Un bel passo, anche azzardato.
Sapevo che la scena di New York era in movimento, quindi non mi sarebbe stato difficile incontrare gente e suonare. Era il 1997. Bastava entrare nei posti giusti e suonare alle jam: non c’era neanche bisogno di parlare. Del resto io non sono mai stato un gran parlatore… Avevo incontrato Dan Weiss, il batterista, e con lui andavo nei ristoranti a chiedere se volevano della musica dal vivo, giusto per fare qualche soldo. Riuscimmo a mettere su due o tre gigs la settimana nei ristoranti di New York. Ovviamente suonavo sempre gli standard. Comunque cominciai a seguire lezioni da Rodney Jones, eccellente chitarrista, che poi mi aiutò a trovare degli ingaggi più seri, dove potevo suonare cose più interessanti. Ricordo che il primo fu con il sassofonista Stanley Turrentine, il quale però era già in declino fisicamente. Feci anche della musica più commerciale, ad esempio con la band del Saturday Night Show, fino a diventare il chitarrista della cantante Jane Monheit, con la quale suonai per qualche anno.

Miles Okazaki «Trickster»
Miles Okazaki «Trickster»

Era solo per necessità economica, o perché ancora non ti sentivi di fare un salto qualitativo proponendo la tua musica, quella più personale?
Sai, volevo imparare a suonare bene per davvero. Andare in tour e suonare con dei bravi professionisti mi aiutava a conoscere meglio me stesso e lo strumento. C’era da imparare tanto. Poi cominciai a scrivere qualche brano, roba che si avvicinava alle composizioni di Monk o di Parker, persino canzoni sullo stile di Cole Porter. Ma erano soprattutto degli studi, esercizi di stile. Scrivevo tanto, fino al punto in cui, intorno al 2005, decisi di mollare la band di Jane Monheit per dedicarmi alla mia musica. Del resto studiavo anche musica indiana, roba fuori dalle solite cose, e dunque suonare standard non mi stimolava più.

Fu allora che incidesti il tuo primo disco da leader?
Mi sentivo pronto, ma stavo attraversando un periodo molto difficile. Non avevo un soldo e stavo divorziando da mia moglie, con una figlia che allora aveva solo tre anni. Dovetti fare delle scelte dure e seguire solo me stesso. Non mi sentivo di fare altro. Quindi mi iscrissi alla Thelonious Monk Competition nel 2005 e arrivai secondo dietro Lage Lund. Ricevetti un assegno di 10.000 dollari che mi permise di incidere il mio primo disco, «Mirror», autoprodotto ma che riuscì a destare attenzione, anche un articolo sul New York Times, e fu pure pubblicato in Italia con la rivista Jazzit. Con me c’erano anche Miguel Zenon e Dan Weiss, con i quali ho suonato e inciso tanto. In particolare Zenon, che scrive molto bene, mi aiutò a crescere come compositore.

Ci sono due elementi in evidenza nel tuo modo di suonare la chitarra: il ritmo, che è predominante, e il suono, molto curato e nitido.
Il ritmo è molto importante per me, fino al punto di pensare alla chitarra come uno strumento ritmico, una batteria. I chitarristi che hanno avuto una certa influenza su di me sono Charlie Christian, Grant Green, George Benson. Meno Jimi Hendrix, infatti, a parte gli inizi della mia carriera, preferisco suonare in modo pulito, nitido, senza effetti. Alla base di questa scelta c’è una ragione artistica, cioè ottenere quello che desidero dallo strumento solo attraverso la tecnica, e una ragione pratica: non mi piace portarmi dietro un sacco di roba, come pedaliere, distorsori… Sarebbero delle distrazioni per me, dal vivo. Anche se ammiro molto certi chitarristi come Nels Cline o Ben Monder, cui piace lavorare con effetti sullo strumento. Io amo il suono puro della chitarra.

L’ultimo tuo disco uscito, «Trickster», è straordinario. Vuoi continuare in quella direzione, con gli stessi musicisti?
La Pi Recordings, che lo ha pubblicato, è un’eccellente etichetta, ma molto selettiva nel calendario dei dischi da far uscire ogni anno. Dovrei aspettare troppo a lungo per pubblicarne un altro, per cui ho appena messo su Bandcamp tre album di sola chitarra dedicati a Monk e auto-prodotti, nell’attesa di tornare a incidere con la band. I ragazzi della Pi mi hanno conosciuto per via della mia lunga collaborazione con Steve Coleman, a parte i dischi di Matt Mitchell e Dan Weiss. A Steve mi sono sentito molto vicino per via della sua predisposizione verso il ritmo, che è simile alla mia. Infatti con lui ho esplorato sul serio quell’area della musica che mi ha sempre interessato.

C’è una somiglianza ma anche una differenza sostanziale, fra te e Steve Coleman. Tu sei molto più emotivo nell’approccio alla musica, mentre Steve è sempre cerebrale, al limite dello spasimo.
Steve è fatto così. Ha un totalmente privo del benché minimo compromesso in tutto ciò che fa, soprattutto sulle strutture. Roba molto difficile da suonare. Adesso ho anche messo da parte la mia collaborazione con lui per dedicarmi a questo progetto da solo. La gente continua a chiamarmi per suonare, proprio per il lavoro che ho fatto con Steve, ma ho dovuto rifiutare molte cose per dedicarmi alla nuova impresa.

Si tratta dunque di un nuovo cambio di marcia nella tua carriera di musicista?
Non lo so, ma spero di sì…È ormai un anno che mi sto dedicando a questo nuovo progetto, e forse può rappresentare una svolta nuova. Con «Trickster» penso si sia chiuso un periodo molto importante, nel quale ho sviluppato a fondo lo studio sul ritmo. Adesso è come se volessi digerire tutto ciò per dedicarmi ad altro, da solo con il mio strumento. Sto andando piano, a passi lenti, proprio per lavorare su certi aspetti che per me sono preminenti. Suono principalmente con una vecchia Gibson dei primi anni Settanta, che ha un timbro molto brillante. Se fai degli errori viene fuori un brutto sound, quindi devi stare molto attento a come la usi. Dunque, se lavoro sul suono, è soprattutto per l’articolazione e il controllo della mia tecnica. È su questo aspetto che sono concentrato, visto che il nuovo progetto non è basato su mie composizioni ma su quelle di Monk. Chiamiamoli standard. In qualche modo lo sono.

Enzo Capua

[da Musica Jazz, settembre 2018]