Metastasio Jazz XXII edizione, Prato (prima parte)

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Teatro Metastasio Prato

30 gennaio e 6 febbraio 2017, Teatro Metastasio Prato

Per la XXII edizione di Metastasio Jazz, e anche in concomitanza con il cinquantenario della scomparsa di John Coltrane, il direttore artistico Stefano Zenni ha colto l’occasione per comporre una rassegna che cercasse di documentare vari aspetti del sassofono contemporaneo, evitando così ogni intento celebrativo. I primi due concerti ospitati dal Teatro Metastasio sembrano aver confermato la bontà di queste intenzioni.

Per la produzione originale Dear John, commissionatagli per l’occasione, Francesco Bearzatti ha riunito un vecchio sodale come l’organista Emmanuel Bex e Jeff Ballard alla batteria. Nel repertorio, in buona parte basato su composizioni originali, ha cercato di far confluire – anche sotto forma di riferimenti indiretti – vari elementi riconducibili all’universo espressivo di Coltrane. Specie per timbro e fraseggio, Bearzatti possiede un approccio al tenore certamente distante da Coltrane. Nella circostanza il sassofonista friulano ha comunque limato certe asperità e quel suo proverbiale, impetuoso impatto sonoro che in qualche misura richiamano Archie Shepp e Albert Ayler, a favore di un eloquio più ponderato e più vicino alla spiritualità e al senso melodico espressi da Coltrane, come dimostrato da Like Johnny (parafrasi di Like Sonny) o dalla conclusiva Dear Lord.

Fabrizio Bearzatti, Emmanuel Bex e Jeff Ballard

Quanto ai contenuti, per cominciare non poteva mancare l’Africa in un pezzo ispirato da un recente viaggio in Zimbabwe e introdotto da Bearzatti con la mbira. Su certe serrate progressioni armoniche, punteggiate da Ballard sull’ up tempo con uno swing torrenziale e sostenute dal pulsante apporto dell’organo, Bearzatti riesce a concatenare frasi pervase da una logica stringente, evocando così quelle sheets of sound alla base del linguaggio di Coltrane. Ne è una prova lampante Suspended Steps, modellata su una progressione analoga a quella di Giant Steps. Prevale poi la modalità, terreno fertile per esplorazioni che culminano con Trane To East, frenetica divagazione orientaleggiante che prende le mosse dalla vamp di India. Gli unici, evidenti limiti dell’operazione vanno individuati nello stato ancora embrionale del progetto e nell’uso insistito del vocoder all’unisono con l’organo da parte di Bex, molto più efficace quando invece dallo strumento trae varietà timbrica e fraseggi guizzanti, a tratti taglienti.

Met Jazz 2017 David Murray e Aki Takase – Teatro Metastasio

In duo con Aki Takase, David Murray sembra aver recuperato buona parte dello smalto e del rigore che negli anni Ottanta ne avevano caratterizzato la fase più creativa, ma che ultimamente si erano forse un po’ dispersi in percorsi disparati a causa di un approccio fin troppo curioso e generoso. Ciò che maggiormente lo accomuna alla pianista giapponese è la predisposizione per la ricerca, attraverso una visione sempre in bilico tra tensioni sperimentali e sguardo critico sulla tradizione. Anche sul piano espressivo Aki Takase si rivela una partner ideale per la capacità di (dis)articolare con leggerezza e ironia le strutture per mezzo di linee sghembe di origine monkiana, cellule ritmiche scarne e acuminate, possenti block chords e clusters. Tutto questo permette a Murray di costruire fraseggi spericolati sfruttando appieno i registri del tenore, fino ad avventurarsi con efficacia sui sovracuti. Nel suono e nel fraseggio si individuano, ovviamente riprocessati nella poetica di un vero maestro, tanto l’urlo di Albert Ayler e il ruvido senso del blues di Archie Shepp, quanto le inflessioni di Ben Webster e Coleman Hawkins.

Il confronto con la tradizione riserva piacevoli sorprese. Le linee sinuose del tema di Chelsea Bridge di Billy Strayhorn vengono enunciate con un uso del soffiato che ricorda appunto Webster, mentre il trattamento destinato a Body And Soul – per quanto ben lungi dall’essere convenzionale – lascia emergere un timbro virile affine a quello di Hawkins. Tuttavia, il vertice espressivo si registra nella versione di Let’s Cool One di Thelonious Monk. Introdotta dai segmenti ritmici disegnati al clarinetto basso, l’esecuzione esplora il retroterra su cui Monk aveva formato il proprio stile, chiaramente riscontrabile nello sviluppo impresso al pezzo da Aki Takase: impregnato di stride e di evidenti richiami a pianisti come Fats Waller e James P. Johnson, tra i principali ispiratori dello stesso Monk. In conclusione, un duo animato da una dialettica fervida e produttiva, come documentato anche da «Blue Monk» (Enja, 1995) e da «Cherry Sakura» (Intakt), appena pubblicato.

Enzo Boddi