Mauro Ottolini: Un solo progetto, unire le musiche del mondo

Il fondatore e leader dei Sousaphonix ci spiega cosa si nasconde dentro i due cd pubblicati dalla sua band

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Mauro Ottolini - foto Ugo Germinale

Una fotografia del 1921, dietro alla quale c’è una storia tutta da riscoprire: l’Orchestra della società senza pensieri rivive nelle note di presentazione del disco. Che cos’è oggi quell’orchestra?
A rappresentarla possono essere i Sousaphonics, che dal primo disco a oggi hanno attraversato e interiorizzato molti linguaggi fino a crearne uno proprio, unico e originale. Per farlo non si sono mai preclusi l’ascolto di alcun tipo di musica, aprendo le braccia alla contemporanea e allo stesso tempo mantenendo il rock, il blues e gli stili degli anni Venti e Trenta per sonorizzare film muti, cartoni animati e video d’arte. Oggi, grazie alla scoperta di questa piccola orchestra di Primolano, realmente esistita negli anni Venti, abbiamo trovato lo stimolo giusto per approfondire la nostra conoscenza musicale cercando un nuovo approccio all’improvvisazione attraverso la musica popolare, che non è un genere ma un mondo composto da migliaia di stili diversi. Artisti come Stravinskij, Ellington, Mingus, Berio, Miles Davis e tutti quelli che hanno lasciato un’impronta importante nella storia della musica si sono prima o poi interessati e ispirati alla musica popolare; da questa consapevolezza nasce la parte romanzata del nostro viaggio. Per abbracciarli tutti, ovviamente nei limiti del possibile.

È bastata una vecchia foto a scatenare la voglia di nuovo?
È il desiderio di esplorare altri linguaggi, approfondire la conoscenza di nuove forme musicali, spaziare con maggiore libertà e consapevolezza. La mia visione della musica è chiara: sono anni che cerco sempre di partire da un qualcosa di forte che mi ispiri indicandomi la strada da percorrere. Quando abbiamo inciso «Bix Factor» lo scopo era quello di investigare avvenimenti musicali e culturali degli anni Venti e Trenta; oggi è quello di conoscere altri suoni e musicalità: per esempio analizzare la musica araba nelle sue varie forme e capire come anche in essa ci sia improvvisazione; o comporre su una melodia russa usando i suoni prodotti dalle pietre sonore dello scultore Pinuccio Sciola; oppure di divertirmi a veder scrivere da Vanessa Tagliabue Yorke un testo originale in lingue come il finlandese o il francese su musiche composte da me. Tutto questo lavoro, poi diventato un doppio cd in due volumi e un documentario di 45 minuti, fa parte di un solo progetto: unire tutte queste musiche e farle convivere nell’interpretazione di un gruppo di musicisti di oggi che si affidano anche a strumenti particolari per trarne un sound collettivo particolare. Basta pensare alle potenzialità che offrono il theremin, il banjo a sei corde, il podofono, gli strumenti giocattolo, le conchiglie dei mari delle Antille, e poi le voci di Vincenzo Vasi e Vanessa Tagliabue Yorke che hanno la fenomenale capacità di interpretare brani in dodici lingue diverse con incredibile proprietà di suono e di linguaggio.

«Ho lasciato molti spazi per l’improvvisazione ma secondo una logica diversa dalla solita, seguendo una linea melodica anziché una struttura armonica»

La musica popolare, Berio e la musica accademica: Ottolini si scopre ricercatore e mette da parte la musica improvvisata per tuffarsi nella composizione?
Al contrario. Proprio parlando di Berio parliamo dell’artista che fu tra i primi a dare spazio all’improvvisazione dentro la musica contemporanea: sperimentò in molti modi con la collaborazione di musicisti come Gazzelloni, Pollini e l’unione tra musicisti di formazione classica e di matrice jazz. Tra l’altro le sue Folk Songs, che per un caso fortunato proprio nel 2014 compivano cinquant’anni, sono il classico esempio di come un artista possa prendere elementi dalla musica popolare e trasformarli in maniera personale in qualcosa di proprio. È vero che mi sono divertito molto a scrivere, comporre e arrangiare per questa strepitosa orchestra di diciotto elementi ma è anche vero che ho lasciato molti spazi per l’improvvisazione, però secondo una logica diversa dalla solita, seguendo una linea melodica anziché una struttura armonica. È quello che accade nel brano turco Zeinep, per esempio, dove Dan Kinzelman, con il suo flauto traverso, insegue quella melodia irregolare improvvisando in maniera molto moderna su intervalli tipici delle sonorità dolphyane. Ho lavorato sulla musica araba di Oum Kalthoum cercando di tenere le parti essenziali di Sirt el hob, che tradizionalmente dura circa un’ora e io ho sintetizzato in due tempi di sette minuti ciascuno; su alcune melodie suonate all’unisono, alcuni solisti intervengono improvvisando in maniera personale. Mentre della preghiera haitiana Papa loko abbiamo tenuto testo e melodia, e tutto quello che succede è improvvisazione pura. E così via lungo l’intero progetto ma, considerando che si tratta di un’opera molto lunga, ci sono anche brani con assoli gestiti in modo strutturato e altri dove non c’è neppure un assolo: una scelta decisamente originale per un jazzista.

Mauro Ottolini & Sousaphonix – foto Roberto Cifarelli

Due anni di lavoro, viaggi, ricerche: come raccontarli?
Si raccontano benissimo da soli, attraverso l’ascolto del disco, e poi chi è interessato ad approfondire può guardare online – tramite la password che trova nel disco – il documentario di 45 minuti che racconta la storia di questo concept album.

Raccontato così può apparire un lavoro non facile. Come accostarlo? C’è una chiave di lettura?
Giusto: la chiave di lettura. Con Vanessa e gli altri colleghi sousafonici ne abbiamo discusso molto e siamo giunti a concludere che sia utile leggere il libretto come si faceva ai tempi dell’opera e poi affrontare il documentario realizzato dal giovane regista Francesco Crapanzano, da Vanessa Tagliabue Yorke e da me. Le immagini e la storia del film aprono la fantasia e preparano all’ascolto dei due dischi: il secondo, che richiedeva almeno nove mesi di ulteriore stagionatura, è uscito a settembre, giusto il tempo necessario per digerire il film e il volume 1, e farsi tornare l’appetito.

Paolo Odello