Mary Halvorson & Mivos Quartet chiudono MetJazz

352
Mary Halvorson & Mivos Quartet - Foto di Marco Benvenuti

Prato, Teatro Metastasio

13 marzo

A suggello conclusivo della 28esima edizione di MetJazz, il concerto di Mary Halvorson con il Mivos Quartet – nella circostanza organizzato in collaborazione con Musicus Concentus – ha proposto vari spunti di riflessione e non pochi interrogativi. Documentata dal recente «Belladonna» (Nonesuch, 2022), la scrittura per chitarra e quartetto d’archi di Halvorson si colloca in una sorta di terra di nessuno che, parafrasando il titolo della rassegna pratese, si potrebbe definire come meta-jazz.

A differenza di «Amarillys», eccellente lavoro per sestetto uscito contemporaneamente per la stessa etichetta, qui vengono a mancare quasi completamente i codici che contraddistinguono il linguaggio jazzistico in termini di armonia, pronuncia e articolazione del fraseggio. La scrittura approntata dalla chitarrista lascia sì spazio ad alcune scarne porzioni di improvvisazione, ma prevede partiture che – limitatamente all’azione degli archi – risentono in una certa misura del retaggio dell’Espressionismo viennese, con echi abbastanza tangibili di Webern, lasciando in definitiva la netta sensazione del già sentito. Siamo dunque lontani sia dalle sperimentazioni condotte estesamente da Elliott Sharp con il Soldier String Quartet che dal radicalismo corrosivo di «Richter 858», che Bill Frisell realizzò una ventina d’anni fa insieme ad improvvisatori come la violinista Jenny Scheinman, il violista Eyvind Kang e il violoncellista Hank Roberts.

Mary Halvorson & Mivos Quartet – Foto di Marco Benvenuti

Formato da Olivia De Prato e Ludovica Burtone (violini), Victor Lowrie Tafoya (viola) e Tyler J. Borden (violoncello), il Mivos Quartet vanta collaborazioni disparate al di fuori dell’ambito classico-contemporaneo: con la cantante Cécile McLorin Salvant, con il clarinettista e polistrumentista Ned Rothenberg, con trombettisti di estrazione totalmente diversa quali Ambrose Akinmusire e Nate Wooley. Ha inoltre partecipato all’incisione di tre brani del suddetto «Amarillys», ben integrandosi con il lavoro del sestetto.

Mary Halvorson con Olivia de Prato e Ludovica Burtone (violini) – Foto di Marco Benvenuti

Nel contesto di «Belladonna» Halvorson sembra quasi voler rimanere in disparte, inserendo frasi spartane, algide e asimmetriche – quasi sempre costruite con timbro pulito e talvolta con uso dello staccato – negli insiemi e nel gioco di contrapposizioni tra pizzicato e arcate. L’operazione produce effetti abbastanza apprezzabili quando la dialettica si fa più serrata e dinamica, specialmente laddove la chitarrista lascia briglia sciolta ai colleghi per alcuni brevi passaggi improvvisati. Esemplare in tal senso risulta il brano eponimo, Belladonna appunto, in virtù dei passaggi collettivi improvvisati e delle timbriche distorte della chitarra, finalmente liberata da compiti di tessitura di trame talvolta fin troppo esili. Purtroppo, si registrano invece improvvisi cali di tensione proprio nei frangenti in cui le esecuzioni rimangono ingabbiate nella partitura. In tali circostanze sembra dunque mancare la voglia di osare, ad appannaggio dell’ossequioso rispetto della pagina scritta.

Mary Halvorson – Foto di Marco Benvenuti

Pertanto, viene spontaneo chiedersi: che direzione intende intraprendere Halvorson con «Belladonna»? La strada di una discutibile rimasticazione di suggestioni classico-contemporanee? Un sentiero alternativo al cosiddetto new jazz, ammesso che un’etichetta del genere abbia qualche senso? Certamente si tratta di un abbozzo, di un progetto in fieri. È lecito augurarsi che approdi a risultati più congrui e sostanziosi.

 

Enzo Boddi