Marta Sánchez: tutta l’originalità della nuova generazione del jazz

di Enzo Capua

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Marta Sánchez (foto di Tayla Nebeski)
Marta Sánchez (foto di Tayla Nebeski)

La giovane pianista spagnola Marta Sánchez si è rapidamente imposta sulla difficile scena newyorkese con un misto di talento e determinazione

Arriva dalla Spagna una delle musiciste più originali della nuova generazione. Pianista e compositrice di rara intelligenza e profondità, Marta Sánchez in pochissimi anni è riuscita a creare uno stile compositivo che racchiude la leggerezza e la dominante attenzione per la struttura armonica tipica delle melodie ispaniche con la modernità iconoclasta del linguaggio jazzistico più avanzato. A esprimerla così, questa definizione potrebbe apparire come una contraddizione in termini, eppure racchiude in sé l’incanto che Sánchez riesce a sviluppare da un insieme di metodologie complesse e allo stesso tempo semplicemente godibili. Della sua storia ancora breve racconteremo tra poche righe, ma ciò che ci appare quasi stupefacente è che questa ragazza, dopo un pugno di collaborazioni e un paio di album ancora acerbi da leader nella sua terra natia, ha avuto la forza e la capacità di imporsi con soli due dischi fra i compositori più ragguardevoli della nuova scena newyorkese. Questi album sono stati incisi a Brooklyn fra il 2014 e il 2017 per la Fresh Sound New Talent e s’intitolano «Partenika» e «Danza Imposible». Ambedue in quintetto, con due prestigiosi sax solisti (Román Filíu al contralto e Jérôme Sabbagh al tenore), si sono imposti al pubblico e ai critici più attenti come delle vere e proprie gemme. Oltretutto si avvalgono delle note di copertina di due personaggi illustri: Ethan Iverson per il primo e il critico (ora ex) del New York Times Ben Ratliff per il secondo. Sono biglietti da visita in carta dorata che pochi musicisti possono vantare, ma che Sánchez si è ampiamente meritata. La sua musica possiede un andamento latino così rarefatto da apparire come scritto con inchiostro simpatico, ma allo stesso tempo questa cantabilità viene polverizzata con decisione dalla voce possente dei due sax (il cui fraseggio d’insieme ci sembra come uno dei marchi di fabbrica dello stile di Marta) fino a confluire, radicalmente trasformata, in una struttura molto solida, ben scritta, segno evidente di passioni musicali di natura diversa. È un approccio al jazz squisitamente femminile, orgoglioso e per nulla intimidito nel suo dispiegarsi con languida dolcezza.

Sei nata a Madrid: com’è emerso il tuo interesse per la musica e per il jazz in particolare?
Vengo da una famiglia piuttosto intellettuale, anche se non particolarmente dedita alla musica. A mia madre piace la musica classica e ancora ricorda che da bambina, a sette anni, le chiesi con insistenza di farmi avere delle lezioni di pianoforte. Quindi già a quell’età volevo imparare! Continuai assiduamente e poi mi iscrissi al conservatorio per studiare pianoforte e composizione. Il jazz è arrivato più avanti, devo dire anche per via di un insegnante di pianoforte al quale piaceva: mi fece vedere come si improvvisava, una cosa che non studiavamo al conservatorio. All’inizio non sapevo come fare, però la cosa mi attirava molto finché non divenni quasi stregata da quella musica. Mi piacevano molto le cantanti come Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan, che sentivo assiduamente. Fu però l’ascolto di Brad Mehldau a conquistarmi definitivamente, e dunque mi convinsi che volevo seguire quella strada come musicista. In lui percepivo non solo la bellezza del jazz ma anche il retroterra di studi classici: qualcosa che apparteneva anche a me.

È fuori di dubbio. Ma dal suonare Mozart o Chopin al jazz vero e proprio ce ne vuole!
Lo so, ma c’era dell’altro che mi attirava: certi musicisti amici miei con esperienze più variegate avevano la possibilità di suonare spesso, ogni sera, in contesti diversi. In qualche modo ne fui gelosa: quel contatto costante col pubblico, il calore, erano aspetti che mi mancavano. Per la classica avevo però preferenze spiccate per i compositori più moderni, come Stravinskij, fino a Morton Feldman e György Ligeti.

Questi autori più contemporanei hanno avuto una forte influenza sulla tua musica?
Certamente. Per esempio, quando compongo un brano non parto direttamente dalla melodia ma scrivo il percorso in modo strutturale, strumento per strumento.

Ciò ti avvicina ad altri compositori che lavorano nell’ambito del jazz di oggi. New York è apparsa all’orizzonte per questa ragione?
Prima di trasferirmi qui ero venuta un paio di volte in vacanza, anche per vedere cosa succedeva nel jazz. Anche in questo caso fui stregata dall’atmosfera e dall’energia di questa città: divenne quasi un’ossessione. Madrid non mi poteva dare gli stimoli di cui avevo bisogno: conoscevo bene la scena musicale e mi sembrava priva di veri sbocchi. Ma venire a New York senza punti di riferimento solidi mi sembrava azzardato: decisi di presentare un’application per ottenere il Fullbright, cioè il programma di sostentamento per i laureati che vogliono avere la possibilità di specializzarsi in USA. Lo vinsi ed ebbi così modo di entrare alla New York University totalmente spesata per approfondire lo studio del pianoforte. Fu dal 2011 fino al 2013. Poi rimasi definitivamente qui anche perché, nel frequentare la scena jazzistica, mi innamorai di un sassofonista che è tuttora il mio compagno di vita.

C’è voluto molto per imporsi come solista e bandleader, cioè poter fare la tua musica con un gruppo stabile?
La cosa è venuta fuori pian piano, suonando con tanti musicisti nelle jam session o nei loro gruppi. Infine riuscii a mettere su una mia band con gli strumentisti che ritenevo giusti e con i quali mi sentivo in sintonia. Con loro incisi il mio primo disco newyorkese, «Partenika», nel 2014 in quintetto. Con il secondo, «Danza Imposible», che mi sembra più maturo e strutturato, ho cambiato solo la sezione ritmica, mantenendo i due sax, Román Filíu e Jérôme Sabbagh.

La scelta di avere due sax come solisti ai fiati da dove nasce?
È una mia esigenza di suono: per il mio modo di comporre preferisco i sassofoni. Hanno più calore di una tromba. Nel mio stile di scrittura non lascio molto spazio all’improvvisazione: è soprattutto musica scritta. Ecco la necessità di avere un sound caratteristico. Ovviamente tutto ciò dipende dal brano che sto scrivendo: in alcuni casi lascio più spazio ai solisti. Non ci sarebbe del jazz senza assolo di sax o di pianoforte! Del resto i miei pezzi hanno una struttura definita, dalla quale non si può divergere più di tanto.

Credo che la tua musica dal vivo non sia molto differente da quella incisa in studio: è così?
È vero. Non lo è, e per le ragioni che ho prima espresso. Lo spazio per i solisti c’è ed è necessario, ma è sempre subordinato alla struttura complessiva del brano.

Ecco una ragione per la scelta dei solisti e per la stabilità della band. Vuoi continuare ancora con loro?
Sì. Infatti sto componendo dei nuovi pezzi per il quintetto, che spero di incidere presto.

Accetteresti di suonare dei brani non composti da te, in studio o dal vivo?
A me piace fare dei dischi che abbiano un concept univoco, cioè espressione di un compositore. Quindi credo che mi verrebbe difficile inserire musica di altri, con tutto il rispetto che ovviamente posso avere per la musica altrui.

Lo immaginavo, ma allora quali sono i compositori di jazz che ammiri di più?
Sicuramente Wayne Shorter.

È una scelta molto comune fra i giovani musicisti di oggi.
Shorter mi piace non solo per l’aria che dà alle sue composizioni, ma anche perché usa spesso dei concetti nella scrittura che provengono dalla musica classica. Mi piacciono molto anche Guillermo Klein e John Hollenbeck col suo Claudia Quintet.

Klein perché lo sente vicino come autore latino?
Credo che Guillermo abbia preso le distanze dalla musica dell’Argentina, la sua patria, e abbia seguito un percorso individuale. Del resto mi sembra di aver fatto io stessa altrettanto con la musica spagnola.

Non credo che le tue origini si sentano con forza nella musica, ma è fuor di dubbio che la tua natura artistica appartiene alla cultura spagnola.
Sono certamente spagnola, ma la musica della mia terra è difficilmente avvicinabile alla cosiddetta «musica latina», che è tipica delle nazioni del Sud America. Da noi, se vogliamo, prevale il flamenco, che è tutt’altra cosa. E amo certi cantanti e interpreti di flamenco, pur non sentendoli particolarmente vicini.

Ti piacerebbe incidere con dei cantanti?
Ho suonato dei nuovi brani dal vivo con Camila Meza, che è una cantante di origine cilena ma vive a New York. E anche con Sara Serpa, che è portoghese, e Charlotte Greve, sassofonista tedesca che ama cantare.

Enzo Capua

[da Musica Jazz, novembre 2018]