Mark Murphy: un inquieto viaggiatore del jazz contemporaneo

Il grande cantante di Syracuse ha lasciato un segno indelebile nella vocalità jazzistica del Novecento, nonostante un carattere poco accomodante e una personalità eccentrica

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Mark Murphy

Lontano mille miglia dai bagliori e dai clamorosi successi di un Frank Sinatra, di un Tony Bennett o persino del ben più suadente Mel Tormè, Mark Murphy rimarrà nella storia del jazz come il cantante bianco più importante della sua generazione. Assieme ai tre giganti sopra citati condivideva una straordinaria sensibilità musicale, un rispetto ineguagliabile per i testi delle song oltre ad una flessibilità e una tecnica vocale di finissima fattura. Sono queste le conditio sine qua non per accedere nell’Olimpo dei grandi cantanti, interpreti che si ergono come fari per le generazioni successive. A differenza, però, degli altri di questa ristretta élite, Murphy non ha avuto modo di accedere al grande pubblico e quindi essere universalmente riconosciuto e ammirato come un fuoriclasse. E ora che se n’è andato all’età di ottantatré anni, dopo una lunga malattia, siamo sicuri che il tempo gli darà ragione: ovvero quando le schiere dei suoi maldestri imitatori si ritireranno in bell’ordine una volta riconosciuta l’impossibilità di eguagliarlo nello stile e nella classe che lo hanno contraddistinto durante la sua non facile esistenza. Sembra quasi uno scherzo del destino che l’ultimo album in ordine d’uscita lo veda come ospite assieme ad altri illustri cantanti d’antan come Jon Hendricks, Bob Dorough, Sheila Jordan e Annie Ross in un omaggio assemblato da due devoti allievi, Amy London e Darmon Meader (coadiuvati in quartetto vocale da Dylan Pramuk e Holli Ross), che prorio al glorioso Murphy fa deciso riferimento.

Difatti il disco si intitola emblematicamente «The Royal Bopsters», visto che l’intera poetica di Murphy ha spiccato con forza il volo dal bebop e dalla cultura che stava attorno a quello stile, cruciale per l’evoluzione del jazz. Basta citare, quasi a caso, alcuni degli album indispensabili del grande cantante americano come «Rah» (Riverside, 1961), «Mark Murphy Sings» (Muse, 1975, con una Body and Soul che trafigge il cuore), «Bop for Kerouac» (Muse, 1981) o il più recente «Bop for Miles»  (High Note, 2004, ma in parte registrato dal vivo nel 1990 e di gran lunga il migliore omaggio vocale a Davis mai inciso), per capire quali venti spingessero Mark nel suo navigare fra le acque inquiete del jazz a lui contemporaneo. Le ragioni della sua relativa mancanza di popolarità possono sembrare quindi evidenti se si considerano le scelte di repertorio, ma ce ne sono delle altre meno vistose che possono avergli reso molto difficile la carriera: e risiedono principalmente in un carattere non facile e in una personalità fortemente eccentrica. Per nostra fortuna Murphy ha inciso molto, spesso con esiti abbaglianti e altre volte con risultati discontinui, come del resto erano le sue esibizioni dal vivo. Poi ha insegnato a lungo a New York, formando così molti giovani cantanti. E anche chi non è stato suo allievo diretto, di sicuro da lui ha dovuto assimilare da lui molte lezioni d’interpretazione vocale. Tra tutti, per esempio, emerge Kurt Elling, che non ha mai nascosto la sua reverenza nei confronti di Murphy e anzi, in passato, ha avuto occasione di esibirsi assieme a lui, per la gioia di chi ha potuto assistere a quei momenti indimenticabili. Se n’è dunque andato un grande artista, che aveva fatto della voce la ragione stessa del suo vivere nel jazz, per il jazz e con il jazz. Una voce che non finirà certo nel dimenticatoio, sia per chi ha avuto modo di conoscerla e apprezzarla dal vivo sia per chiunque desidera accostarsi, prima o poi, alla difficile ma nobile arte del canto.

Enzo Capua