Mario Ciampà: Jazz Is My Religion, tema di Roma Jazz Festival

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Roma Jazz Festival
Mario Ciampà

Superati gli “anta” per il Roma Jazz Festival è il momento di una riflessione: sul passato, sul presente ma anche su cosa riserverà il futuro. Di questa 41esima edizione, dei traguardi raggiunti e dell’emozione che si nasconde (anche) nei piccoli concerti, abbiamo parlato con il suo ideatore – nonché Direttore artistico – Mario Ciampà. 

Partiamo dagli inizi. Com’è nata l’idea del Roma Jazz Festival?
Il Festival è iniziato con l’Estate romana, nel 1976, durante quello che è nato come un esperimento, per poi diventare qualcosa di molto più importante. Quello che volevamo, in quel momento, era attivare la città nei riguardi della cultura perché c’era un bel deserto. E l’idea di noi architetti – riuniti attorno a Renato Nicolini – era di ipotizzare quali potessero essere i luoghi, e le iniziative, volte a creare tutto questo. In questo contesto nacque il primo Roma Jazz Festival, all’Anfiteatro del Gianicolo. Un luogo abbandonato, all’epoca – e purtroppo anche oggi – con una capienza di circa 200, 250 posti e una vista incredibile su Roma. Da lì è iniziato tutto: si lavorava principalmente con artisti italiani, e andò così bene che in seguito crebbe e si decise di spostare i concerti anche in altre zone della città. Dalla scalinata dell’Eur fino al Foro italico, per arrivare all’Auditorium Parco della Musica dove il Festival si svolge ormai da 12 anni.

Che cosa dobbiamo aspettarci dall’edizione 2017? E qual è il tema di quest’anno?
Poiché il mio compito è progettare il festival, cerco sempre di pensarlo non come mera vetrina, ma come riflesso di ciò che accade intorno a me. Ho sempre cercato di dargli un aspetto più ampio, e per questa ragione, il tema di quest’anno è Jazz Is My Religion. Una scelta che ho fatto per un motivo ben preciso. Il primo è che effettivamente in un momento così delicato di guerre e contrasti ideologici e anche religiosi, ho pensato che il jazz è sempre stato una sorta di religione che ha accomunato razze e stili diversi. Una trasversalità che non a caso gli è valsa il riconoscimento dell’Unesco, che ha istituito una giornata internazionale per celebrarlo. La seconda motivazione è che sia il blues, da sempre ritenuto “musica del diavolo”, e il gospel, che invece sarebbe la musica di Dio, hanno sempre fatto parte della tradizione jazzistica. Mi sembrava appropriato. Infine, ho optato in un certo senso per un ritorno alle origini, perché i concerti saranno dislocati anche in altri luoghi della città, come il Museo ebraico, il Pantheon, alcune chiese della Capitale e non solo.

Come è avvenuta la scelta degli artisti che dovevano esibirsi?
Dal momento che l’idea era di utilizzare il fil rouge della religione, ho selezionato artisti con un forte rapporto con la propria spiritualità. Inizieremo il 5 novembre con il sestetto di Chick Corea e Steve Gadd. Corea, in particolare, è da anni un seguace di Scientology e non ha mai fatto mistero di come questa religione lo abbia aiutato nella sua musica, dandogli spessore spirituale. Il 7 novembre, invece, toccherà a Daymé Arocena, un’incredibile cantante cubana di soli 24 anni, ma già considerata una promessa. La Arocena, che si esibisce sempre vestita di bianco, aderisce da sempre al culto religioso della santerìa, oltre ad essere  particolarmente devota a Yemanjà, la dea del mare che rappresenta la rinascita della vita. Tra gli artisti italiani che si esibiranno ci sarà poi Gabriele Coen, che suona musica klezmer e si esibirà, peraltro, al Museo ebraico l’8 novembre. Il 12 novembre sarà il turno di Mulatu Astatke, il re dell’ethio jazz che mescola alla propria tradizione musicale etiope elementi provenienti dalle melodie religiose copte. Questo solo per fare alcuni esempi di quello che sarà un programma molto vario e ispirato alle diverse declinazioni di spiritualità all’interno del jazz.

Roma jazz festival

Che cosa è cambiato in questi anni di Roma Jazz Festival, secondo lei?
Il cambiamento principale che io ho notato riguarda il pubblico. Credo che ciò che spesso non viene considerato è che ci sono stati dei cambi generazionali. Quaranta anni fa avevo un certo tipo di pubblico che adesso è inevitabilmente invecchiato. Quindi quello che succede è che c’è uno zoccolo duro sempre più vecchio, che esce sempre meno la sera e affolla meno i concerti, e dall’altra parte un pubblico anagraficamente più giovane, che sarebbe in potenza il tuo nuovo pubblico ma al quale manca una conoscenza di questa musica. Il pubblico tra i 20 e i 35 anni non è educato al jazz nonostante tante scuole siano nate, come il Saint Louis da me fondato, che pure a sua volta ha dovuto evolversi. È come se fosse venuto meno il pubblico, e qui torniamo al discorso relativo ai programmi dei festival jazz che strizzano l’occhio al pop. La contrazione, è indubbio, c’è stata. L’intelligenza di un direttore artistico credo sia quindi nello scegliere musicisti giovani e affermati che con il loro nuovo modo di comunicare siano in grado di catalizzare nuovo pubblico.

Una caratteristica di questa manifestazione è senza dubbio la capacità di aver sempre scansato le facili derive pop, scelta che probabilmente costa molti sacrifici in termini di ritorno economico.
Sì, è così. Questa decisione ha fatto sì che rinunciassimo a certi guadagni, ma ci ha consentito di preservare una certa qualità, di avere la libertà di scegliere ogni anno un tema e attorno a quello costruire il Festival. Il jazz in Italia, va detto, ha avuto e ha spesso uno sviluppo molto strano. Ogni estate assistiamo a un fiorire di festival sedicenti jazz che a questa parola abbinano qualsiasi altra cosa (più spesso il cibo). Le amministrazioni utilizzano questa etichetta per fornire un’aura culturale a qualcosa. Peccato che tale pratica diventi fuorviante, oltre a svuotare di significato quello che dovrebbe essere un festival jazz.

A proposito di amministrazioni più o meno illuminate, l’anno scorso il Festival non ha ricevuto finanziamenti pubblici. Quest’anno è andata meglio? Quali sono i rapporti con la nuova giunta?
Dall’anno scorso il festival non gode di finanziamenti pubblici, è vero, ma quest’anno dalla Regione è stato possibile reperire dei fondi. Quanto ai rapporti con la giunta Raggi, posso dire che con l’assessore alla Cultura Luca Bergamo ci conosciamo da tempo. Non solo, condividiamo molte idee e mi piace molto come si sta muovendo. Mi riferisco specialmente al fatto di coinvolgere le varie circoscrizioni. Allo stesso tempo, devo dire che non ci sono state occasioni per dialogare, ma capisco che essendoci grandi difficoltà nella gestione di questa città – ed essendo Bergamo anche vicesindaco – ci siano problemi più urgenti che richiedono il suo intervento.

Dando uno sguardo agli altri Festival europei, che sensazione avverte?
Sarebbe bello potersi confrontare con realtà europee, ma la verità è che non possiamo. E questo per due ordini di motivi. Il primo è l’assenza di pubblico, che è sempre meno e in Italia poco educato al jazz, specie quello più giovane. Il secondo, oltre alla carenza di risorse, è che anche geograficamente siamo un po’ tagliati fuori. Il baricentro del jazz in Europa va da Milano in su, e questo ci penalizza inevitabilmente. In questo, Roma è Sud pieno.

In 40 anni di concerti, cosa ricorda con più soddisfazione?
Senza dubbio i concerti di Miles Davis e Sonny Rollins mi sono rimasti nel cuore. Certo, dopo 40 anni è difficile emozionarsi ancora, specie per un direttore artistico, ma nel tempo ho scoperto la magia nei piccoli concerti, ed è ciò che mi aspetto di ritrovare anche quest’anno.

Un artista che vorrebbe ospitare in una prossima edizione o un sogno che ancora non si è concretizzato?
Keith Jarrett non l’ho mai avuto al Roma Jazz Festival e mi piacerebbe moltissimo. Ma a dirla tutta, conoscendo le sue intemperanze, non so se sarebbe più un sogno o un incubo.

Lucilla Chiodi

Roma Jazz Festival 2017