Marc Ribot: il mio suono deriva da cattive abitudini

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Marc Ribot

Specialmente nei concerti in solitudine, può capitare che Marc Ribot passi nello stesso brano dalla chitarra acustica all’elettrica. Risulta quindi evidente che la forma del suono rimane uguale e che la fisicità di ogni nota rimanda a un mondo musicale subito riconoscibile, tipico, come quello dei grandi sassofonisti del jazz che sono identificabili a ogni attacco. Questo, nonostante una carriera che lo ha visto alternarsi in una serie ininterrotta di collaborazioni, dal rhythm’n’blues degli esordi, con Wilson Pickett e Solomon Burke, alla no wave dei Lounge Lizards, dal rock abrasivo di Tom Waits al new jazz della downtown New York, fino alla formazione che ha preso le mosse dal suo amore per Mickey Baker, chitarrista nato nel 1925 nel Kentucky e attivo come leader e musicista di studio per le etichette Atlantic, Savoy, King.

Marc Ribot, parliamo innanzitutto della tua capacità così profonda di segnare a fuoco ogni intervento, come accadeva a Coleman Hawkins e Ben Webster. 
Grazie per questo paragone. Ricordo di aver pensato qualcosa di simile la prima volta che ho ascoltato Bill Frisell alla chitarra acustica: quando suonava l’elettrica tutti i fanatici tra i chitarristi erano lì a fotografare i suoi pedali per capire cosa facesse; ma quando usava la chitarra acustica il suo suono era essenzialmente lo stesso. Nel mio caso, molto del mio suono deriva da una lunga serie di cattive abitudini che ho raccolto con il tempo, come quella di cercare di suonar forte con alcuni leader che non mi avrebbero mai permesso di alzare il volume dell’amplificatore come avrei voluto. Adesso questi leader non ci sono più e io suono spesso acustico… Ma ancora ci provo. Credo che si tratti di una sorta di trauma.

Perché hai scelto la chitarra? 
Da ragazzo portavo l’apparecchio ai denti ed era doloroso suonare la tromba, che a dodici anni era il mio strumento: ero parecchio bravo. Poi vidi Keith Richards suonare in televisione e pensai che, se avessi suonato come lui, sarei piaciuto anch’io alle ragazze. In realtà tutto ciò non si è verificato e sicuramente ho spezzato il cuore al mio insegnante: la sua grande speranza era che un suo allievo entrasse nella marching band della New Jersey All State.

Marc Ribot
Marc Ribot Quartet Really The Blues

In tempi recenti ti sei esibito con un gruppo che hai chiamato Really The Blues.
È un quartetto con JT Lewis alla batteria, Brad Jones al basso e Cooper-Moore alle tastiere. Il gruppo è nato da due rivelazioni: l’essermi reso conto che Mickey Baker è Dio e l’aver capito qualcosa di più in generale riguardo agli assoli di chitarra nel blues. Quest’aspetto merita qualche spiegazione. Ho iniziato a notare che spesso la sezione ritmica nelle blues bands funziona come una macchina, un treno che spinge sempre avanti (a volte velocemente, a volte lentamente ma sempre avanti) in una maniera ripetitiva. La musica mantiene la struttura classica del call and response ma il response di queste sezioni ritmiche non varia mai, è inesorabile. Il solista, dal canto suo, le prova tutte. La rivelazione è stata nel capire che il call and response non è un vero dialogo ma è una discussione unilaterale tra un uomo o una donna (ma per lo più un uomo) e il suo destino. Le parole dei blues definiscono la situazione tragica ma è la sezione ritmica che la incarna, che diventa il suono della sua inesorabilità, del suo procedere inarrestabile contro il chitarrista eroe. E il chitarrista eroe combatte, ricorrendo a tutte le strategie che conosce: supplicando, minacciando, litigando, scherzando, piangendo, cercando di fare qualunque cosa pur di fermare il corso del terribile treno-destino. Ma la ritmica-motore continua a spingere avanti, senza nemmeno rallentare. A un certo punto, in queste forme basate sul blues succede una cosa molto particolare: il o la chitarrista blues capisce che è fregato/a, che non c’è più niente da fare per fermare il treno-destino, e allora urla. Questo urlo chitarristico è un momento particolare dell’assolo: è come il riconoscimento rituale della nostra inutilità collettiva. Sapere esattamente quand’è il momento di urlare è cruciale per un chitarrista blues: forse è la cosa più importante. Urlare troppo presto, senza mostrare una resistenza coraggiosa, può rivelare un fatalismo insano; arrendersi troppo tardi può annoiare gli ascoltatori. Molti musicisti, fuori dagli Stati Uniti, hanno perfezionato differenti aspetti del suonare jazz e blues ma ancora non padroneggiano l’arte dell’urlo. John Zorn ha detto: «L’importante non è come suona ma ciò che è». Per quanto riguarda i brani e come li suoneremo con il gruppo Really The Blues, ancora non ho una traccia precisa.

Hai anche partecipato a un omaggio a John Cage. In precedenza hai affrontato brani di Ayler e hai reso onore a Giacinto Scelsi. Questi artisti hanno in comune l’essere iconoclasti. È questa una caratteristica che apprezzi nella musica?
Sì, mi piace il punk in tutte le sue forme e specialmente in quelle che ne hanno anticipato l’esistenza e che ne hanno ampliato la sfera sociale.

Sei stato uno dei protagonisti della downtown scene newyorkese. Tempo fa avevamo la percezione di un movimento. È cambiato qualcosa negli ultimi anni? L’11 settembre ha messo fine ad un’utopia?
Non c’era utopia prima dell’11 settembre. E ancora ci sono in giro musicisti che lavorano sodo. Prendo la chitarra e vado a suonare, oggi come ieri. Ma una cosa bisogna dirla: i prezzi esosi delle case sono una forma di violenza contro gli esseri umani che non sono ricchi. Andrebbero trattati di conseguenza. Avanti populo [sic].

Dopo avere collaborato con Allen Toussaint per il suo disco «The Bright Mississippi», hai anche suonato in duo con lui. Com’è andata?
Allen è stato ed è un musicista sontuoso, magnifico: credo siano le parole giuste per descrivere la sua musicalità. In duo mi sono sforzato di suonare i brani che sul disco, prodotto da Joe Henry, avevamo suonato in quintetto. È difficile vestire panni che sarebbero stati perfetti per Don Byron, capisci? Ma i miei sforzi hanno avuto un effetto curioso: dopo il concerto sono andato a casa e ho imparato a suonare sulla sola chitarra tutti i brani che avevamo registrato assieme. Così la prossima volta farò attenzione!

Che musica ti piace ascoltare?
Roba dei primi anni Ottanta, ma anche i Cameo, Skrillex, gli Shadows, Nels Cline, lo Stu Martin Trio, Sonny Sharrock, Dusty Springfield, Johnny Ace, Iggy Pop e molto altro.

Come procedi quando lavori per le colonne sonore di film?
Ho smesso: è un tipo di professione per gente che ama lavorare tra sequencers e nevrosi. Ma quando lo facevo guardavo il film e ci suonavo sopra, improvvisando la colonna sonora per poi rifinirla. Cercavo di scrivere poca musica e di ripetere i temi il più possibile e in maniera diversa, perché è così che funziona meglio nei film.

Chi sono gli artisti vivi o scomparsi con cui avresti voluto suonare?
Be’, mi sono perso James Brown. Ma ho fatto una jam session con James Chance.

Giuseppe Vigna