Il manuale per errori di Manlio Maresca

Il chitarrista romano parla del suo nuovo lavoro discografico, del suo progetto musicale e di tanto altro.

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Dai Neo agli Squartet ai Manual For Errors. Cosa è cambiato nella tua musica?Parlerei più che altro di un’evoluzione, poiché la spinta creativa è sempre la stessa. E’ mia intenzione non mostrare l’aspetto melodioso, solare, dai contenuti positivi della musica, ma la parte più cruda e dissonante, facendola apparire altrettanto accomodante e non ponendo l’accento sulla difficoltà dell’impresa musicale, ma bensì sulla complessità concettuale ed emotiva. Il Manual For Errors questa volta ha semplicemente cambiato veste: ha contrapposto alle timbriche più voluminose e distorte delle chitarre registrate da Steve Albini, sonorità più acustiche senza perdere il mordente punk che lo alimenta.

Parliamo nel dettaglio del nuovo gruppo che ti affianca.
Il progetto è stato interamente scritto, arrangiato e assemblato da me. Avevo accumulato del materiale scritto negli ultimi anni: alcuni erano dei miei brani di natura jazz per trio o quartetto. Non ho fatto altro che riarrangiarli per questa circostanza, come per esempio Speedball. Altri brani più recenti nascono da esercizi ritmici, come per esempio Domosinth o Esercizi di memoria. Per questi ho scritto delle armonie che in alcuni casi ho trovato ottimali per il pianismo di Roberto Tarenzi, oppure per una sezione fiati già consolidata come quella composta da Daniele Tittarelli e Francesco Lento, a cui fa eco la solidità e la capacità interpretativa della ritmica formata da Matteo Bortone ed Enrico Morello. Per creare l’elemento di disturbo è bastato solamente aggiungere il suono della mia chitarra che, unito alla mia modalità di scrittura, ha generato un unico contenitore capace di inglobare tutto: tradizione, avanguardia, contemporaneità, noise.

Quando hai formato il gruppo avevi in mente qualche riferimento storico in particolare?
Certamente. Questo ovviamente non riguarda tutti i brani, ma in particolare quelli di matrice jazz, che fanno riferimento al periodo che va dalla fine degli anni Cinquanta alla metà degli anni Sessanta. In un certo senso ho voluto rendere un tributo a tutte le modalità espressive di quell’epoca, con brani come If I Were A bello, con un sound stile Lenny Tristano o con Nodo in gola, che nella prima parte ho immaginato con un sound più West Coast.  Auting out, è un brano che sento più vicino a «Miles Smiles» ed «ESP»;  infine Speedball, che è suonato come si suonerebbe uno standard in quartetto con piano e chitarra. Mentre Craving Rag lo immagino come una possibile colonna sonora di un film italiano in bianco e nero. Tutto questo potrebbe far pensare a un lavoro di tipo accademico. Invece, preferisco avvalermi di un elemento singolare, ossia l’errore.

A proposito, l’esaltazione dell’errore. Ci spiegheresti questo concetto?
A volte gli esseri umani assumono istintivamente degli atteggiamenti poco conformi e che possono essere considerati viziosi o deleteri, come il disordine, la pigrizia, l’eccessiva attività e così via. Tutti comportamenti che per la maggior parte degli individui possono essere considerati sbagliati o addirittura generare delle limitazioni. Però possono diventare dei vezzi: il limite nell’arte può essere uno stimolo creativo. In un apparente disordine una persona può trovarsi perfettamente a proprio agio, perché è la condizione di normalità di quell’individuo. Mettere in ordine in questo caso vorrebbe dire mettere disordine. E’ questo quello che accade a me con l’errore. Ho avuto un’educazione musicale poco ordinata ed essendo in gran parte autodidatta non ho mai dato importanza a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ho fatto un cocktail di tutto quello che accende la mia curiosità. Ed ecco che già ci troviamo davanti a quella che potrebbe essere considerata una cosa insolita, un errore appunto. Nel corso degli anni questo modo di agire si è evoluto e mi ha permesso di miscelare il velluto di certe sonorità afroamericane con il freddo noise industriale eurocentrico. Tutto questo è stato da me metabolizzato in maniera completamente disordinata. L’errore qui è inteso come elemento inaspettato, una casualità che nasce da uno sbaglio, che in questo caso diventa qualcosa di edificante.

Dice il vecchio adagio: «Sbagliando si impara», però sembra che tu voglia trarre insegnamento dall’errore non tanto per rimediarvi in futuro, ma per trarne un esempio da seguire. Oggi c’è musica troppo «perfetta e precisa» in circolazione?
Io cambierei questo proverbio in «sbagliando si impara a sbagliare». Non voglio imparare ad essere «politicamente corretto», voglio imparare a sbagliare. Prima di tutto perché ritengo faccia parte della natura dell’uomo e in secondo luogo perché non possiamo fare assolutamente nulla per evitarlo. Possiamo solo imparare a farlo bene. Per cui io ambisco ad essere un musicista che sappia quantomeno sbagliare con classe. Per quanto riguarda la musica «perfetta e precisa», certo che ce n’è, ovviamente molta e anche assai bella. La perfezione, che potrebbe essere intesa come cura del dettaglio, non è mai troppa. Anche per sbagliare bene però bisogna essere molto precisi. Alcune musiche, infatti, richiedono una precisione estrema, quasi maniacale, pur essendo assurde. Non a caso sono un adoratore di Frank Zappa, così come vado in estasi con cose sporche, stonate e demoniache, che si possono ascoltare nei brani di Syd Barrett, dei Residents e di Captain Beefheart. Secondo me queste caratteristiche di estrema perfezione sono interessanti fino a quando non diventano sfoggi circensi, o vengono ridotte ad applicazioni servili per zuccherose melodie atte al trastullo delle masse. Prediligo la perfezione quando viene messa al servizio del «male» e le sonorità dalla natura convulsa che danno la sensazione di inafferrabilità.

Quali musicisti o quali brani metteresti in un grande cesto per buttarlo nell’angolo più buio della cantina?
Di cose che non condivido ce ne sono molte. Alcune forse hanno avuto il merito e l’utilità di farmi capire con esattezza quello che non mi piace, come la mia musica non deve essere. Tra le cose che trovo più di pessimo gusto, ci sono quei tentativi fallimentari di voler fare la cosa «strana». Per ricondurci al discorso della perfezione, ci sono molti chitarristi che trovo interessanti tecnicamente, ma per i quali questo talento non si riflette allo stesso modo nelle loro composizioni. Sono portati a scrivere cose magari armonicamente complesse, ma che risultano al mio orecchio come se fossero delle canzoni di Biagio Antonacci, come per esempio Kurt Rosenwinkel. Secondo me in questo genere di musica manca la dannazione. E ancora: tutto ciò che affianca alle sonorità jazz quelle del rock più stereotipato, quello dei grandi classici, ma in maniera approssimativa e scontata, con l’impoverimento di entrambi i linguaggi. Anche qui, cercando disperatamente di fare la cosa «strana», ne risulta una cosa da azione cattolica. Cosa tipica dei musicisti nostrani.

Parliamo del tuo album nello specifico e partiamo dal titolo, che merita una qualche spiegazione.
Il fatto di introdurre un termine come hardcore in un disco che, secondo me, ha solamente l’aria di un disco di jazz è riconducibile a vari significati. Questo termine lo si utilizza per identificare un genere di musica o ci riporta al mondo della pornografia. Queste due cose hanno in comune molto. Entrambe sono spudorate, sporche e mettono in risalto qualcosa di estremo che, per chi le vive, diventano la quotidianità. Mi limito al primo significato, facendo riferimento non tanto alla musica hardcore quanto all’atteggiamento hardcore, che in alcuni casi ha generato delle vere e proprie forme di ricerca. Parlo di dissonanze, saturazioni, ricerca nell’autocostruzione di amplificatori, strumenti percussivi ricavati da fusti di plastica o lastre di metallo. Penso che ora la vera rivoluzione nel jazz sia quella di non limitarsi al passato, ma considerare anche quello che è avvenuto nella musica più di recente e a qualcosa di più estraneo possibile allo stesso genere. Tutte cose che un musicista di jazz solitamente non conosce. Il senso è di restituire al jazz la sua anima «sporca e dannata».

 Il tuo sembra essere un approccio quasi matematico. Sei alla ricerca della formula della musica perfetta?
Sono alla ricerca della formula imperfetta. La matematica è una componente fondamentale della musica. Quindi a volte inizio a scrivere partendo proprio da una griglia ritmica sulla quale poggio poi gli accordi. Spesso le mie composizioni sono costituite da tempi irregolari che cambiano sempre indicazione metrica, battuta dopo battuta, che viene vista come un’entità a sé e questo genera gli improvvisi cambi di atmosfera.  Per me il tempo dispari è come se fosse un 4/4 sbagliato. Questo disorientamento è fondamentale per capire il mio approccio metafisico, che avvolge l’ascoltatore dando appunto questa sensazione di sballo.  Un altro tipico modo di procedere è quello istintivo, che si verifica in maniera del tutto casuale, soprattutto nei momenti di stand-by, quando sono con lo strumento in mano, pensando a quello che potrei fare. Poi c’è quello che io chiamo «riciclaggio». Quando ascolto un brano di altri musicisti, che mi piace particolarmente, vorrei che quello stesso piacere provenga da qualcosa di mio. Allora mi metto letteralmente a copiare la cosa che sto ascoltando. Il risultato non è quasi mai quello che vorrei, né tantomeno una cosa simile a quella che ho ascoltato, ma a volte i risultati sono curiosi.

Utilizzi più linguaggi, mettendo le mani anche nella tradizione jazzistica. Quali sono gli aspetti  musicali che più ti attirano e perché?
Secondo me la tradizione va rispettata. Non come valore assoluto, ma come un passato che informa di sé il futuro e che quindi ha il dovere di adeguarsi, altrimenti diventa un revival. La musica che ritengo perfetta e che incarna tutta la vasta gamma di suoni e timbriche esistenti, è il jazz inteso in tutte le sue forme. La stessa composizione di uno standard è fondamentale per capire la musica di tutti i tempi. Uno dei suoi molteplici aspetti per me più affascinanti è la sintesi. Fino ad allora musica della stessa complessità era la musica classica. Invece, le nascenti forme del jazz hanno sintetizzato tutti questi passaggi senza impoverirli, ma con l’aggiunta di improvvisazioni, che esistevano anche nella musica classica.

 Parliamo di Esercizi di memoria, che si sviluppa anche in due versioni, di cui una è una summer edition. La prima domanda è: perché una summer edition?
La maggior parte dei brani è supportata da una scrittura atonale, che poggia su griglie armoniche o accordi più consonanti, come nel caso di Esercizi di memoria. Questo per creare contrasto tra la melodia e la base sulla quale poggia. Nella versione estiva del brano ho voluto provare a dare un taglio più convenzionale, con una ritmica più regolare senza sbalzi di accenti, come nelle altre composizioni. Dato che negli ultimi anni mi sono avvicinato al nu-soul newyorkese, ho deciso di inserire il piano Fender Rhodes.

La seconda domanda riguarda la memoria. Quanto ritieni sia importante la memoria per un artista?
La memoria è un elemento importantissimo nella mia musica. Anche questo nasce da un deficit. E’ risaputo che i chitarristi sono i peggiori musicisti nel leggere a prima vista. Per cui, essendo un chitarrista, mi sono dovuto adattare sviluppando capacità mnemoniche. Fissare velocemente le idee implica la creazione di spazi all’interno del cervello dedicati solamente a questo. Tutto ciò fa sì che la composizione aumenti di intensità, volta dopo volta, concerto dopo concerto. I passaggi si incolleranno automaticamente. Basta creare queste caselle nelle quali andremo a disporre le battute, una dietro l’altra, con i contenuti. Ovviamente ci sono degli svantaggi: la memoria ha un limite di tempo, quindi alcune cose sono destinate a scomparire se non vengono trascritte.

Manlio Maresca e il jazz quando e come si sono incontrati?
Ho iniziato a suonare la chitarra a otto anni e i miei primi innamoramenti sono stati per la musica elettrica. Non capivo ancora la bellezza estetica delle canzoni di Hendrix, ma ero più che altro affascinato dalla sua tecnica e dal personaggio maledetto. Successivamente negli anni ho sviluppato una sorta di dualismo: da una parte tutta quella musica che non aveva bisogno di preparazione tecnica, ma si esprimeva ugualmente con altre proprietà, e dall’altra la musica afroamericana. Nell’adolescenza ho conosciuto la musica di John Zorn e da lì ho cominciato a nutrire un interesse smisurato nel capire come si potesse arrivare a quello. Ho così iniziato un lento percorso a ritroso nel tempo e ho scoperto Zappa, i Residents e Fred Frith. Scendendo ancora sono arrivato a Miles e contemporaneamente a Dolphy, Mingus, agli anni Cinquanta, alla Swing Era e poi sempre più giù, fino a New Orleans e così via. Al contempo tutto ciò andava suonato, non mi sono mai limitato al solo ascolto. Così ho iniziato lo studio del jazz vero e proprio verso i vent’anni.

È difficile fare il musicista in Italia?
Non per tutti ovviamente, il sistema italiano è un sistema completamente sballato, che non ha valori ed è chiuso in se stesso. Il circolo vizioso che si è creato va a scapito delle realtà minori come fama. Il problema è che i festival, i jazz club e tutti quelli che vivono dell’aspetto organizzativo di questa musica non vogliono rischiare di perdere nemmeno un centesimo, fornendo sempre lo stesso prodotto ad un pubblico indolente, che ascolta e riascolta passivamente. Ai concerti non ci si va più per la musica, ma per partecipare all’evento. Le cose che funzionano di più sono le cose promosse da Tizio o da Caio. Nei jazz club importanti, suonano solo nomi noti o i musicisti americani. Di realtà emergenti non c’è traccia. Quando invece proprio in Italia c’è una moltitudine di fenomeni intriganti e musicisti interessantissimi, che fanno cose molto originali. Il bello è che se queste realtà sconosciute si dovessero ritrovare per sbaglio in un grande festival il pubblico (che ritengo non del tutto inerte) si risveglierebbe improvvisamente. Ma poi tutto ripiomberebbe nel triste ovattato deliquio, e lo spettatore ritornerebbe alla routine di belle melodie, di ennesimi tributi ad Ellington, di «jazzetto» con minime incursioni elettroniche.

Cosa è scritto nell’agenda di Manlio Maresca?
In questi ultimi tempi ci sono stati molti incontri che hanno stimolato la nascita di nuovi progetti. Primo quello con Enrico Pieranunzi. Ha ascoltato per caso il mio progetto Andymusic e ne è rimasto particolarmente colpito. Incuriositi entrambi da una possibile collaborazione, mi sono subito messo al lavoro per adattare i miei brani per un eccelso musicista come lui e tra poco ne ascolteremo i risultati. Un altro progetto, ancora in fase del tutto embrionale, è con Roberto Gatto, che mi ha proposto di dar vita ad un progetto, insieme al mio grande amico Carletto Conti al sassofono. Dopodiché sto elaborando una versione del Manual For Errors in solo, con il supporto di chitarra e computer. In ultimo sto lavorando al secondo album del trio Andymusic, che si chiamerà «Noisy Games».
Alceste Ayroldi