Venezia, 6 ottobre – Arsenale, Teatro alle Tese
La Biennale Musica 2019 si è chiusa nel segno del jazz. Non è certo una novità: negli ultimi anni infatti il jazz, con nomi più o meno noti, ha sempre fatto capolino nel palinsesto della prestigiosa manifestazione dedicata alla più stretta attualità della musica contemporanea. Fra l’altro nei primi giorni di questa edizione, la sessantatreesima, si è tenuto a Mestre il concerto dei validi partner di Mohini Dey, la sorprendente bassista indiana nata nel 1996. Purtroppo, per gravi motivi personali la giovane leader non ha potuto essere presente in quella che sarebbe stata la sua prima apparizione italiana. È stato un vero peccato, perché sarebbe stata un’ottima occasione per verificare dal vivo non solo il suo talento strumentale, ma anche la caratura della sua leadership, l’incidenza dell’improvvisazione e dell’interplay, nonché la natura dello stimolante incrocio proposto, oscillante fra fusion, funk, etno-jazz e world music… Ci auguriamo di avere l’opportunità di ascoltare nel prossimo futuro questa artista emergente.
L’onore di concludere il festival, domenica 6 ottobre, è toccato al Malafede Trio, fondato nel 2015 dal bassista elettrico vicentino Federico Malaman e documentato dal cd “Touché” edito nel 2016. Se è vero che una delle tendenze in atto negli ultimi tempi, con modalità più o meno esplicite, è un certo revival della fusion, nelle sue varie declinazioni, il gruppo, non sufficientemente conosciuto in Italia, a Venezia si è dimostrato uno dei più degni portabandiera di questa tendenza. Innanzitutto per l’approccio tecnico-strumentale, che viene esibito con una perizia e una sicurezza incredibili. Smaliziata, fluidissima, a tratti con frenetiche impennate di note, è risultata la diteggiatura di Malaman, regista autorevole di un interplay che si è svolto serrato e funzionale, preordinato ma senza il supporto di spartiti, secondo gli automatismi di un meccanismo collaudatissimo. Fenomenale anche il drumming di Ricky Quagliato: velocissimo, secco e puntiglioso, coordinato in ogni passaggio, con un uso mai fastidioso della grancassa. Il chitarrista Riccardo Bertuzzi ha apportato un contributo forse meno appariscente, ma sempre costante e fondamentale nel concepire sviluppi concatenati con una ferrea pulizia logica.
Il sound compatto e brillante del trio ha interpretato un repertorio prevalentemente di original. Ogni brano, ispirato a un tema specifico, è stato condotto con una parabola narrativa coerente e leggibile: fra le prevalenti atmosfere toniche e affermative non è mancata qua e là una venatura onirica, come in Il mistero del Signor Piler, scritto da Bertuzzi. Altrove, per esempio in L’ispettore Malafede, sorta di colonna sonora da film poliziesco a firma di Malaman, sono intervenute cadenze danzanti, quasi allusive e umoristiche.
Tutto dunque funziona a meraviglia nel Malafede Trio; i tre jazzisti veneti sono individualmente e collettivamente così smaccatamente bravi forse proprio perché agiscono con convinzione all’interno di un’ottica precisa, di uno stile già collaudato consegnatoci dalla storia. La loro musica non si basa tanto sulla decantazione, il ripensamento e la rigenerazione tipici di un’innovativa neo-fusion, ma possiede la sicurezza spavalda e la coerenza appunto del revival, vissuto come una fede e interpretato con un’esasperazione per così dire iperrealistica. In questo atteggiamento uni-direzionale e compiaciuto, super energico ed estroverso, perfino magniloquente, si manifesta una scarsa dose di problematicità; il percorso procede inesorabilmente con esperta determinazione, senza dirottamenti e discontinuità, senza interferenze con altre tendenze jazzistiche o extra jazzistiche. In definitiva i pregi di questa scelta consapevole, evidenti e notevolissimi, coincidono con i suoi limiti, tutto sommato veniali, che derivano dal non perseguire una visione dell’attualità più compromessa, trasversale e creativamente critica.
Libero Farnè