Madeleine Peyroux: Anthem

di Alceste Ayroldi

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Madeleine Peyroux (foto di Yann Orhan)
Madeleine Peyroux (foto di Yann Orhan)

Personaggio complesso e tormentato, la cantante Madeleine Peyroux ha una forte coscienza politica e sociale e una scarsa disponibilità al compromesso

L’impressione è che «Anthem» metta in profonda evidenza la tua anima e offra una nuova prospettiva di Madeleine Peyroux. Quali sono state le riflessioni che ti hanno guidato in questo album?
Diciamo che le mie riflessioni sono nate in maniera assai naturale. All’inizio non sapevo che ne sarebbe venuto fuori un disco ma, adesso che questo disco c’è, mi accorgo che l’obiettivo inconscio doveva essere quello di unire le mie faccende private a quelle politiche. E credo che il risultato si possa definire un breve racconto sui miei problemi personali, che a loro volta riflettono tutti quelli che abbiamo oggi negli Stati Uniti. «Anthem» è un album nato «dal gruppo»: io e i miei amici ci siamo chiusi in una stanza, meditando sugli eventi del mondo e lasciando che le esperienze personali facessero sorgere idee. La tristezza di David Baerwald, causata dalla scomparsa del poeta John Ashbery, ha dato origine a sentimenti di ammirazione nei confronti di certi personaggi che riescono ad accendere lampi di luce nell’ombra, ma ha anche portato alla ribalta la loro vulnerabilità molto umana.

Ecco, partiamo da qui. Il periodo attuale, sotto l’aspetto politico, culturale ed economico, non è certo di facile lettura. Qual è la tua opinione?
Credo che il capitalismo sia vicino a distruggere tutto ciò che che abbiamo costruito di buono. Penso che oggi sia necessario prendersi cura gli uni degli altri: dobbiamo ritrovare l’istruzione, dobbiamo ritrovare la salute e l’educazione all’ecologia. E questi punti, a mio avviso, vengono prima di tutto. La responsabilità è soprattutto del sistema economico che abbiamo negli Stati Uniti: penso che sia gravemente colpevole e che tutti quanti stiamo sbagliando nel credere che il mondo possa essere più bello facendo semplicemente sparire i poveri (ma non la povertà). Invece i poveri esistono eccome, e tutti noi dobbiamo essere disposti a correre loro in aiuto.

Ci riassumi la genesi di «Anthem»?
Come dicevo prima, «Anthem» è un album nato «dal gruppo», ovvero da cinque persone; un lavoro le cui caratteristiche derivano dalla meditazione sulle esperienze di ciascuno di noi: David Baerwald, che è un autore di testi molto interessante, Brian MacLeod, con il quale avevo già collaborato in un altro progetto, Patrick Warren, che è un arrangiatore fantastico e anche un eccellente compositore e Larry Klein, che è il produttore ma anche un ottimo compositore, autore e arrangiatore. Avere al mio fianco questi straordinari musicisti mi ha consentito di lavorare su un’idea concettuale. Abbiamo proceduto, per ogni singolo brano, tutti e cinque di pari passo, anche se ognuno con le proprie competenze. La musica nasce in funzione di un’idea di base. Ho preso i colori della bandiera americana e li ho sistemati di modo tale che non rappresentassero nessuna bandiera particolare o posizione politica. Volevo suscitare una domanda: dove ti trovi? Voglio mettere in discussione ciò in cui crediamo e il presunto significato che diamo alla democrazia, interrogandomi sul modo in cui intendiamo continuare a crearla. Il tutto nasce dalle mie riflessioni personali, ma è anche la conseguenza delle elezioni presidenziali del 2016.

Possiamo parlare dei singoli brani? Iniziamo da On My Own, probabilmente un brano autobiografico.
Sì, almeno in parte.

Madeleine Peyroux (foto di Yann Orhan)

E Down On Me, che ha un’anima blues.
Vero, perché riflette una situazione economica ormai molto diffusa negli Stati Uniti, quella di gente che perde il lavoro e cade in disgrazia: tutto quanto sembra impossibile e non si può più tornare indietro. L’abbiamo concepito pensando, dal punto di vista della struttura musicale, a J.J. Cale.

Anthem, il brano di Leonard Cohen che dà il titolo al disco, ha un particolare significato per te?
Dopo le elezioni io e Larry Klein eravamo parecchio depressi per i risultati e per la situazione che si prospettava. Larry mi disse di ascoltare Anthem, la canzone di Leonard Cohen, che io non avevo mai sentito prima. Capii subito di volerla cantare, ma non volevo farne una semplice cover e, quindi, cercai la migliore soluzione per poterla arrangiare e rispettare le mie caratteristiche vocali. Il suo messaggio, per quanto severo, è che l’ultima grazia salvifica dell’umanità sono le sue imperfezioni.

The Brand New Deal?
È un’atto d’accusa nei confronti del mondo predone, «cane mangia cane», nel quale viviamo e dove le regole del denaro e il potere corrompono l’integrità morale. L’obiettivo della canzone era avere una melodia il cui ritornello potesse stamparsi nella mente: «Ogni uomo agisce per sé stesso, quindi coglie al volo la ricchezza». Inizialmente si sarebbe dovuta chiamare The Art Of The Deal, come l’autobiografia di Donald Trump, ma ho cambiato titolo perché, dopo averla letta, ho capito che lui non era così potente. Sarebbe stato un titolo troppo banale, perché riferito a una singola persona e non al problema di base, che è il sistema, l’atteggiamento e la filosofia che lo ha creato.

Quale storia racconta Lullaby?
Per me significa la perdita dell’identità, l’angoscia degli emigranti o dei rifugiati politici, che nel mezzo del nulla non hanno né identità né alcun tipo di aiuto. Hanno perduto tutto, non hanno più nulla, men che meno il denaro per sopravvivere. Tutta la gente che viaggia nella disperazione più assoluta dal Sud America e dal Centro America per fuggire il più delle volte dalla violenza, dalla povertà più nera. Ma è la stessa situazione che si verifica in tutto il mondo, anche nel Nord Africa. Noi non pensiamo a questa gente come a degli eroi, ma quel che fanno è un atto eroico.

The Ghosts Of Tomorrow. Quali sono questi fantasmi?
Molti dei nostri sogni non diventano realtà. Ci rimangono in mente anche se non si realizzano e, quindi, rimaniamo insoddisfatti. Ecco, questi sono i fantasmi di domani.

We Might As Well Dance.
È molto più soul e riprende i temi del brano di Leonard Cohen.

Infine troviamo Liberté, la splendida poesia di Paul Éluard.
L’ho registrata con Larry prima di incidere questo disco, quando un amico di famiglia mi ha chiesto di contribuire con una canzone al documentario On The Tips Of One’s Toes (Sur La Pointe des Pieds), raccontando la storia del figlio, gravemente malato di distrofia muscolare di Duchenne. Il brano fa riferimento a questo mio atteggiamento, personale e intimo, nei confronti della politica, e si chiede che cosa siano, per me, la realtà e l’idea di libertà. Che cosa amo di più, e come riesco a capirlo? In origine, Paul Éluard l’aveva pensata come una poesia d’amore per la sua compagna, ma alla fine si era reso conto che si era trasformata in un canto di protesta a favore della libertà.

Madeleine Peyroux «Anthem»
Madeleine Peyroux «Anthem»

Parliamo del tuo tour, da poco concluso, e in particolare della tappa italiana. Che gruppo hai portato a Milano?
Siamo un quintetto, tutti musicisti di base a New York. Di solito la mia band è formata da musicisti provenienti da ogni parte del mondo, ma in questa circostanza è capitato che fossimo tutti newyorkesi: comunque New York è sempre foriera di grandi novità e di straordinari musicisti, come quelli della mia band.

È vero che hai iniziato la tua attività musicale come artista di strada? Quanto è stata importante questa esperienza nel tuo percorso artistico?
Sì, ho iniziato come busker! È stato uno dei momenti più importanti nella mia vita. Ci sono molti musicisti di strada che hanno un suono stupefacente, che fanno un ottimo lavoro e possono davvero arrivare dentro di te, anche se non va sempre così. È difficile fare musica sopra il rumore del traffico, o con un treno che sferraglia sui binari. Ho imparato a condividere e a mostrarmi aperta, anche se all’inizio ero spaventata.

Poi ti sei trasferita da New York a Parigi. Quanto ha influito questo trasferimento sulle tue scelte musicali?
Soltanto stando lontana da me sono riuscita a vedere me stessa. Forse perché ho iniziato con i musicisti di strada, imparando in questo modo a suonare. A Parigi noi musicisti di strada venivamo invitati dal barista ad accomodarci nel locale e a suonare, come se fossimo in vetrina. In America, invece, viene spesso chiamata la polizia e si rischia di essere arrestati.

Ti va di fare un piccolo bilancio di questo tuo periodo?
Credo di aver fatto un bel tour: ho promosso il disco, ho cercato di unire le persone e di infondere amore in ogni concerto. Adesso, invece, vorrei lavorare a qualche canzone per bambini.

Alceste Ayroldi

[da Musica Jazz, dicembre 2018]