Muhal Richard Abrams: La musica è come la vita, un percorso

A ottant'anni questo autentico guru della nuova Chicago era ancora impegnato a creare e, come diceva lui, a imparare ogni giorno. Per farlo meglio si stabilì a New York. «La mia sfida» disse «è continuare»

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Muhal Richard Abrams

Da quando nella sua Chicago ha promosso nel 1965 l’AACM, Muhal Richard Abrams ha impersonato, per tutto il jazz, la figura del vero maestro. Jack DeJohnette in una intervista a Musica Jazz del 2015 di lui disse «Muhal era ed è un musicista visionario, che stimola la tua ispirazione, sprona a trovare la propria dimensione, a esprimere se stessi. Spinge a dare il meglio di sé, crea situazioni in cui sviluppare la propria creatività.» Abrams, nato a Chicago nel 1930, fu pianista, compositore, arrangiatore, didatta e come pittore fu autore di numerose copertine di album ben conosciuti da tutti gli appassionati del jazz. 

“Music is a great source of comfort. I have always loved art and music.” 

                                           Muhal Richard Abrams (1930-2017)

 

Fondatore della prestigiosa AACM di Chicago, pianista e compositore tra i più interessanti e influenti dell’avanguardia jazzistica, Muhal Richard Abrams è un personaggio dotato di un forte carisma, tanto che lo si può considerare uno dei padri del jazz contemporaneo. Tendenzialmente schivo, ma allo stesso tempo serio e assolutamente integerrimo nel suo percorso di musicista, Abrams ha attraversato questi ultimi cinquant’anni di storia del jazz con un rigore e una profondità espressiva che hanno pochi uguali. Dalla metà degli anni Settanta si è stabilito a New York per immergersi sempre più nella ricerca musicale, suonando molto poco dal vivo.

Tra i suoi album fondamentali è necessario ricordare almeno «Levels And Degrees Of Light» (1967, Delmark), «Blues Forever» e «View From Within» (1982 e 1985, Black Saint) e il fantastico «Fanfare For The Warriors» (1974, Atlantic) dell’Art Ensemble Of Chicago.

Muhal Richard Abrams
La copertina dell’album «Levels And Degrees Of Light» fu realizzata con un dipinto di Abrams

Quest’anno, Mr. Abrams, al Vision Festival, cioè alla più importante manifestazione jazzistica di New York dedicata all’avanguardia, le è stata consegnata una grande onorificenza: il Lifetime Achievement (cui ora si è aggiunto l’ingresso nella Hall Of Fame di Down Beat, votato dai critici internazionali). A settembre compirà ottanta anni: si sente di aver raggiunto qualcosa di sostanziale nel corso di una vita dedicata al jazz e alla ricerca musicale?
In realtà mi sento di aver sempre vissuto in un continuum, cioè in un percorso unico. Quindi non penso in termini di raggiungimento di qualcosa; però ho apprezzato molto questa attenzione, questo rispetto che gli organizzatori del festival hanno manifestato nei miei confronti anche se io non penso alla mia vita di musicista nella stessa maniera.

È un segno d’umiltà, il suo? 
No. Non proprio. Io parlo di continuum perché vedo le cose come un esercizio di pratica continua. Significa che io imparo sempre, tutti i giorni. È il mio stile di vita. Quindi se vogliamo considerare il raggiungimento di uno scopo, direi che è quello di rimanere in salute per poter continuare ancora la mia pratica.

È una pratica che riguarda esclusivamente la musica, come se fosse la cosa più importante della sua vita? 
No. È una pratica che esercito con la vita stessa. La musica è inclusa, naturalmente, visto che si tratta della mia professione e dunque le dedico molto tempo. Ma la musica per me è una parte di un corpo intero di interessi che infine è la mia vita.

Quindi possiamo considerare la musica come una fetta di una grande torta, nel suo caso? 
Esatto. È la vita che è importante nell’insieme, per cui tutte le altre cose, o fette come lei dice, hanno un impatto notevole sulla musica e viceversa. La fa
miglia, gli amici, tutto il resto. La mia è una considerazione filosofica che riguarda la vita intera.

Tornando a parlare di musica, ci può dire come è nata la AACM (Association for the Advancement of Creative Musicians) a Chicago, visto che lei è uno dei fondatori?
L’AACM è nata nel 1965 per interesse mio, di Steve McCall, di Jodie Christian e di Phil Cohran. Sentivamo di essere delle persone creative, quindi decidemmo di creare un’entità e di chiedere ad altri di farne parte. L’idea originaria non era ristretta al solo campo musicale: volevamo associarci per poter fare qualcosa assieme come individui. Esseri umani che avevano intenzione di fare qualcosa di originale. Creazioni individuali, non opere standardizzate come quelle che già esistevano. Ma prima ancora dell’AACM avevo costituito l’Experimental Band, circa venti musicisti: fu da quella esperienza che prese forma l’idea di creare un’associazione.

Muhal Richard Abrams
Muhal Richard Abrams e l’Association for the Advancement of Creative Musicians, nel 1965

Cosa pensa della sua creatura oggi, cioè dell’AACM dei nostri giorni?
Penso che gente come Nicole Mitchell e altri continuino sullo stesso sentiero tracciato da noi tanti anni fa. Parlo dell’idea di base che ha costituito l’AACM e che le ho appena descritto. Io seguo questi giovani musicisti.

Suggerisce loro anche qualcosa, come musicista?
No. Non lo faccio mai, né mai è stato fatto da alcuno all’AACM. Noi semplicemente ci rispettiamo e collaboriamo assieme in diversi progetti, ma non interferiamo mai con l’individualità di ognuno. E ciò è molto importante. Se c’è un’influenza reciproca questa avviene oggettivamente, nel lavorare assieme.

È importante, oggi come allora, mostrare che c’è un’identità della cosiddetta black culture negli Stati Uniti o nel resto del mondo?
No. Non dobbiamo dimostrare niente, visto che siamo già neri e si vede benissimo. D’altronde non c’è neanche un rifiuto rispetto al resto. Anzi è proprio il contrario, in termini di accettazione di ciò che ognuno di noi è come individuo. Eravamo, ieri come oggi, concentrati su ciò che facevamo senza che altri interferissero.

Come si entra a far parte dell’AACM? Ci sono delle regole per essere accettati?
Non ci sono regole, né si può fare richiesta. Si viene chiamati dagli altri componenti. Sono i musicisti stessi che decidono chi può entrare a far parte dell’associazione. Di solito accade dopo che si è suonato assieme. Quando ci piace quel che un musicista fa, lo coINvolgiamo. Né tantomeno si discutono le idee musicali reciproche. Come le ho detto prima, l’AACM è un’idea che accoglie in sé individui che perseguono uno scopo creativo e comunque non c’è uno stile predominante dal punto di vista artistico. Quel che conta è lo spirito in totale e il metodo individuale nel produrre o eseguire musica.

E lei come ha iniziato la sua carriera di musicista? Come ha deciso che voleva suonare uno strumento?
Ho semplicemente iniziato a suonare. Un giorno ho deciso che era quello che volevo fare e ho seguito la mia strada. Nessuno in famiglia faceva il musicista. Nei miei dintorni, a Chicago, dove sono nato e cresciuto, c’erano principalmente tre tipi di musica: il blues, il jazz e il rhythm’n’blues. Questa era la musica che mi circondava. Ho deciso di suonare il pianoforte senza una ragione specifica. Ho ascoltato gente come Art Tatum, ho imparato da solo, senza che nessuno mi insegnasse alcunché. Poi ho iniziato a suonare in giro fino a lavorare con Dexter Gordon, Eddie Harris e anche Kenny Dorham, con il quale ho inciso un disco perché Joe Seagal, il noto promoter di Chicago, mi aveva chiamato per un omaggio a Charlie Parker.

Non si può imparare bene a suonare il jazz se non si conosce il blues 

 

Il blues era, ed è anche oggi, la musica dominante a Chicago. Lei ha suonato con dei bluesmen, come a volte succede ai jazzisti, ma avviene raramente il contrario. Come mai?
Perché i musicisti di blues rimangono nel loro ambiente. Sono, come dire, dentro il blues. Non imparano dei modi per uscire fuori da certi schemi. Noi, che veniamo dal jazz, incorporiamo invece altri elementi nella nostra musica, compreso il blues, ovviamente, perché il blues fa parte di noi. Non si può imparare bene a suonare il jazz se non si conosce il blues. Vede, a Chicago i jazzisti crescono suonando in ambienti diversi e con diversi stili. Il blues è essenziale.
Anche, e soprattutto, il ritmo nella sua musica. Ancor più dell’armonia o della melodia. Non è così? Viene dalle sue esperienze nel blues e nel rhythm’n’blues? Si possono sentire cose diverse nella mia musica in situazioni e tempi differenti. Tutto vi è incluso, e quindi un elemento può emergere in uno specifico momento invece di un altro.

Proprio ieri è venuto a mancare un altro personaggio importante della scena jazzistica di Chicago: Fred Anderson. E lei gli ha dedicato il concerto al Vision in pianoforte solo. Che ricordo ha di Anderson?
Fred era uno di noi. Una persona meravigliosa e un musicista meraviglioso. Dovevo fare quel piano solo e quindi l’ho dedicato a lui: si deve comunque andare avanti. È stato un onore per me dedicargli il concerto.

Lei segue quel che succede nel mondo del jazz oggi? È in contatto con tanti altri musicisti?
Sì, abbastanza. Ma non è come una volta, come ai tempi in cui è venuto fuori il bebop. Ascoltavo di più gli altri, allora. Oggi mi capita quando mi danno dei Cd. Ma ha perfettamente ragione se pensa che a quei tempi nella comunità dei musicisti c’era più vicinanza, più contatto. È vero. C’erano più opportunità di comunanza spirituale, ma credo sia dovuto agli ambienti, ai luoghi, più che ai musicisti. Oggi la scena è cambiata: tutto qui. Molti dei vecchi se ne sono andati. Forse è un effetto naturale del tempo o forse l’atmosfera di oggi è diversa, non so. Mi ricordo di loro in modo vivido, come se fossero qui davanti a me. Me li ricordo da vivi, come esseri umani e per ciò che hanno fatto. Se metto su un disco di Charlie Parker o Art Tatum ricevo tuttora grande ispirazione per la mia musica.

Muhal Richard Abrams
Muhal Richard Abrams

Perché, verso la metà degli anni Settanta, ha deciso di venire a vivere a New York?
Perché era venuto il tempo di andar via, di muoversi. Non ha niente a che vedere con una mia presunta insoddisfazione verso Chicago. Volevo andare a New York per stare più vicino al grande mescolio che c’è in questa città. Qui c’è una maggiore concentrazione di musicisti, che provengono da tutto il mondo. Questo per me fa la differenza, ed è una bella sfida. Una sfida nell’esprimere il proprio personale approccio verso la musica. Il concetto di sfida è molto importante nella mia vita. Mi sento stimolato quando sono circondato da musicisti di valore che sono vicini a me come mentalità.

È un discorso interessante per un uomo di ottant’anni. Di solito a quest’età si pensa in termini meno battaglieri.
Può darsi che io non abbia ottant’anni! Sono nato nel 1930 ma non mi sento ottantenne nello spirito. Non penso come un anziano.

E qual è, dunque, la sua prossima sfida?
Quella di sempre: continuare. Continuare a creare, anche come pittore. Sa che io dipingo praticamente da sempre? Tutti i miei dischi pubblicati a suo tempo in Italia dalla Black Saint – e sono davvero tanti, grazie a Giovanni Bonandrini – hanno dei miei dipinti in copertina. Vedo i colori nella mia musica. Sono colori che mi vengono incontro e che devo mescolare. Le note sono come i colori e come personaggi in un’opera teatrale: vanno e vengono. Agiscono… L’arte è decisamente importante nella mia vita e la mia è una risposta all’asprezza del mondo.

Enzo Capua