Lezioni di piano a Vicenza

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Fred Hersch, Drew Gress e Joey Baron - foto di Roberto De Biasio

6 luglio, Parco Querini: Brad Mehldau

7 luglio, Teatro Olimpico: Fred Hersch Trio

Incastonati come due diamanti nel programma di Vicenza Jazz New Conversations, i concerti di Brad Mehldau e Fred Hersch possono essere a buon diritto definiti i vertici di questa XXV edizione, significativamente intitolata Una luce al termine della notte. Musicisti della levatura di Mehldau e Hersch gettano piena luce sulla funzione e sui contenuti del pianismo jazz contemporaneo, e inducono ad accurate riflessioni sull’argomento.

Impegnato in una performance solistica nel verde del Parco Querini, Mehldau ha dimostrato di poter dare un sostanzioso contributo alla ridefinizione del concetto di standard, procedendo ad ampliarne materia e prospettive. Innamorato e rispettoso della melodia, che sa plasmare, trasformare e rimodellare in varie fogge, Mehldau da un lato è padrone del Songbook, dall’altro è ben capace di intervenire sulla forma di canzoni prelevate dal repertorio rock e pop.

Dunque, nelle sue mani la seducente eleganza armonica di Cole Porter viene esplorata con I Concentrate on You e In the Still of the Night. Stupisce il trattamento riservato a The Nearness of You di Hoagy Carmichael, le cui cellule tematiche vengono centellinate e dispensate goccia a goccia con misurati appoggi ritmici. Un tale approccio richiama inevitabilmente l’eredità di Bill Evans. A proposito di pianisti, Mehldau prima rivisita Skippy con robuste linee di sapore bop sottolineate da un incisivo walking, senza però generare i segmenti sghembi tipici di Thelonious Monk. Poi, sviscera l’essenza soul e gospel di Dis Here, che Bobby Timmons aveva introdotto nel repertorio del quintetto di Cannonball Adderley.

Brad Mehldau – foto di Roberto De Biasio

Come accennato in precedenza, Mehldau sa esplorare da par suo aree disparate della popular music, a cominciare dal repertorio dei Beatles. I Am the Walrus e Your Mother Should Know sciorinano un campionario di alcuni tratti distintivi dell’approccio del pianista: la mirabile interdipendenza nell’azione delle due mani, prodighe di linee contrappuntistiche; ingegnose figurazioni ritmiche – in alcuni passaggi ingentilite dall’andamento alternato dello stride – a cui si sovrappongono rapidi saliscendi e rigogliose ornamentazioni; un senso del blues sottile; capienti armonizzazioni; il gusto raffinato di cesellare la melodia in ogni suo risvolto. Caratteristiche tangibili anche in Golden Slumbers, dove peraltro le iterazioni e la pulsazione ritmica venata di gospel richiamano una certa influenza di Keith Jarrett.

La capacità di estrapolare l’essenza di un nucleo tematico per poi scomporlo e interpolarne i frammenti in un’efficace opera di trasformazione si estrinseca tanto in Don’t Think Twice, It’s Allright di Bob Dylan, quanto in Golden Lady di Stevie Wonder e Karma Police dei Radiohead. Linee molteplici e fluenti veicolate da cascate di arpeggi sembrano disperdersi in mille rivoli ma poi si ricongiungono (e in quest’operazione si intravedono perfino tracce di Art Tatum). Quasi paradossalmente l’impronta della formazione classica di Mehldau si esprime più nettamente nel trattamento di Life on Mars di David Bowie. Mantenendosi fedele sia al tema che al refrain, Mehldau valorizza ogni cellula della melodia lavorando sulle dinamiche e, attraverso un crescendo imperioso, ne ricava un’imponente architettura. In conclusione, un’esibizione di rara intensità e concentrazione, in cui lo schivo pianista si è concesso con generosità.

Brad Mehldau – foto di Roberto De Biasio

Il Teatro Olimpico non è solo un capolavoro architettonico frutto del genio di Andrea Palladio. È anche uno scrigno acustico in cui Fred Hersch, Drew Gress e Joey Baron hanno potuto permettersi il raro lusso di suonare senza amplificazione. Una condizione ideale per valorizzare ed esaltare tutte le sottigliezze timbriche e dinamiche che musicisti di tale statura sono in grado di produrre creando un interplay, un dialogo interattivo, fecondo e realmente paritetico basato sulla circolazione costante di segnali e suggerimenti. In altre parole, una sublimazione della concezione del piano trio introdotta nel jazz da Bill Evans insieme a Scott La Faro e Paul Motian.

Se n’è avuta un’immediata dimostrazione grazie alla fine tessitura di U.M.M.G. di Billy Strayhorn, condotta in punta di piedi e sostenuta dal drive discreto e incisivo di Gress e Baron. Ammirevoli il musicalissimo gioco di spazzole del batterista, nonché la leggerezza della sua scansione sul piatto. Blue in Green – sempre attribuita a Miles Davis, ma in realtà opera di Evans – gode di un’intro pianistica delicata, intessuta di preziosismi armonici a cui Gress e Baron aggiungono pennellate di colore. Hersch cesella il fraseggio con certosina cura per le dinamiche. Anch’essa appartenente alla storica seduta di «Kind of Blue», All Blues (questa sì, di Davis!) poggia su uno scavo approfondito dell’impianto modale, sviluppato poi su un up tempo che sfocia in un assolo di Baron ricco di valenze melodiche.

Fred Hersch (piano), Drew Gress (contrabbasso), Joey Baron (batteria) – foto di Roberto De Biasio

Dotato di una conoscenza enciclopedica, Hersch ama ripercorrere varie tappe dell’evoluzione del jazz moderno, offrendone la sua personale visione. In quest’ottica si colloca l’accurata analisi delle armonie aperte e sofisticate di Wayne Shorter nel dittico Miyako/Black Nile. Ne risulta un’attenta e ponderata esplorazione che favorisce un costante flusso di idee suggerite, riprese e rilanciate da ogni singolo componente del trio. L’empatia e la compattezza consentono al trio di affrontare con garbo e misura il calypso gioioso di St. Thomas di Sonny Rollins; di trasporre In Walked Bud di Thelonious Monk su un 4/4 incalzante evitando le deviazioni asimmetriche care all’autore; di estrarre l’essenza blues da Turnaround di Ornette Coleman, brano nel quale spicca un assolo di Gress asciutto e pregno di blues feeling, poi convertito in un gustoso dialogo con Baron.

Unico standard appartenente al repertorio del Songbook, Some Other Time di Sammy Cahn è introdotta dal solo Hersch che cuce la trama cellula per cellula facendo poi letteralmente «cantare» lo strumento nello sviluppo collettivo, ad ennesima conferma del principio a suo tempo sostenuto da Keith Jarrett: «Per suonare bene uno standard devi conoscere le parole della canzone». A proposito del repertorio della popular music americana più recente, ma non meno nobile, il solo Hersch ha offerto come bis una splendida versione di And So It Goes di Billy Joel, mettendone in evidenza mediante sapienti pause il respiro solenne ed evocativo paragonabile a quello di un inno, con tocco cristallino e nel pieno rispetto dell’impianto originario.

Fred Hersch – foto di Roberto De Biasio

Un concerto memorabile, in cui Hersch e i colleghi hanno trasmesso a piene mani la gioia di suonare davanti a un pubblico entusiasta. Quella stessa gioia che il pianista ha apertamente dichiarato di aver provato per la rara opportunità di aver suonato in acustico, circondato da tanta bellezza.

 

Enzo Boddi