JUNIOR MANCE

«Vivo per la musica e la voglio trasmettere»

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Junior Mance fotografia di Roberto Polillo.

Junior Mance, lei è una leggenda vivente del jazz, tanto da essere entrato a far parte – con settantacinque anni di attività alle spalle – dell’International Jazz Hall Of Fame. Come si sente?

Molto bene! Il jazz è la mia vita: perciò sono davvero felice di aver raggiunto questo traguardo e di essere ancora qui, di continuare a fare musica. Sono molto contento di essere stato invitato a Milano per Aperitivo in concerto, anche se mi sento meglio quando suono verso mezzanotte che verso mezzogiorno!

 

Come ha iniziato a suonare jazz?

Avevo più o meno cinque anni e il mio primo insegnante fu mio padre, pianista dilettante che suonava a orecchio. Dove sono cresciuto, a Evanston, Illinois, avevamo un pianoforte in casa, come gran parte delle famiglie dell’epoca, e ascoltavamo molta musica, dal blues alle big band. Quando mio padre tornava a casa dal lavoro mi guardava di nascosto: io ero sempre al pianoforte e così, quando avevo più o meno otto anni, decise di farmi prendere qualche lezione. A dieci anni diedi il mio primo concerto con il mio vicino di casa: avevo imparato boogie-woogie e stride. Proseguii gli studi musicali al liceo della mia città, dove suonavo nella big band: fu una bellissima esperienza. Sai, a me non piaceva giocare a baseball: preferivo il pianoforte!

 

E come intraprese poi la carriera da professionista?

Il mio primo ingaggio professionale fu con Gene Ammons, che era di Chicago e venne ospite dell’orchestra della scuola: mi sentì suonare e mi offrì un lavoro, cosicché registrai con lui il mio primo disco. Infine mi iscrissi alla Roosevelt School Of Music di Chicago ma l’abbandonai quasi subito: l’insegnante odiava il jazz e a quei tempi era vietato suonare jazz al conservatorio. Così cominciai la mia carriera da professionista.

 

Una carriera lunghissima nel corso della quale ha suonato con artisti leggendari. Possiamo ricordarne qualcuno? Per esempio Lester Young…

Ero molto giovane quando suonai con lui, che era una persona molto cordiale, ma io ero in soggezione. Mi insegnò molto, all’epoca. Si andava in studio senza prove; lui mi diede consigli e lezioni anche sul pianoforte. Fu comprensivo e gentile con me.

 

Cannonball Adderley?

Suonai per molto tempo con Julian. L’avevo conosciuto sotto le armi, quand’ero stato arruolato per la guerra di Corea, e mi aveva salvato la vita. Non ero stato ammesso nella banda dell’esercito perché non ero in grado di suonare uno strumento a fiato. Ma grazie a lui entrai comunque a farne parte: fece in modo che fossi assunto come impiegato, permettendomi così di restare nel Kentucky per tutto il servizio militare. Non ero un gran soldato e, se fossi partito, sarei morto di sicuro. È grazie a lui che sono ancora qui oggi: gli devo tantissimo. Abbiamo suonato per tanto tempo assieme e siamo poi rimasti amici per tutta la vita.

 

Dizzy Gillespie?

Fu il mio mentore, il mio maestro; credo di aver imparato molto più da lui che al college e sicuramente più che da qualsiasi altra persona, dal punto di vista sia musicale sia del business. Ci divertivamo moltissimo assieme: fu un periodo eccezionale, davvero incredibile.

 

Charlie Parker?

L’accompagnai nel periodo in cui facevo parte della ritmica fissa del club BeeHive di Chicago dove lui, come molti altri, venne a suonare. Era un individualista e un solitario; stava molto per conto suo ma aveva una musicalità e una personalità fuori dal comune.

 

Vuole ricordare lei qualcuno in particolare?

Sì: Dinah Washington…

 

Le piace lavorare con i cantanti?

Sì, molto. A me piace suonare con tutti, per la verità… Credo che ognuno abbia qualcosa di interessante da dire in campo musicale. Nella storia ci sono stati tanti musicisti che avevano il proprio stile e che purtroppo, dopo un disco o certi concerti eccezionali, sono stati dimenticati o si sono persi.

Junior Mance aperitivo in concerto teatro Manzoni Milano 2013 © Roberto Cifarelli

Qual è stato il musicista che più ha influenzato il suo stile pianistico?

Be’, ce ne sono stati moltissimi, anche se nessuno è stato grande come Art Tatum, per lo swing, il modo di armonizzare… Insomma, è stato davvero il più grande.

 

Nella scena jazz odierna c’è qualche musicista che apprezza in modo particolare?

Diciamo che mi piacciono tutti: ognuno ha il suo stile, come io ho il mio. Sono nell’ambiente da così tanto tempo che, se guardo bene tutti i musicisti con cui ho suonato, ciascuno di loro mi ha trasmesso qualcosa di interessante. E penso che sia stato reciproco.

 

Cosa consiglierebbe ai giovani che desiderano diventare jazzisti?

Di ascoltare tutti. È quello che ho fatto io. Magari non ti piacciono tutti i musicisti ma da ognuno di loro c’è qualcosa da imparare. Il mio primo insegnante non era un grande pianista ma conosceva la tastiera, il che mi bastò. Durante la guerra mio padre fu arruolato e non mi poté seguire, e mia madre lavorava per mantenere la famiglia; per me in quel momento il mio insegnante era perfetto per quel che mi serviva.

 

Lei ha vissuto e continua a vivere una vita nel jazz; quali sono oggi i suoi progetti?

Ho avuto la grande fortuna di arrivare fin qui e voglio continuare a fare quel che ho sempre fatto: il jazzista! Suono con uno dei gruppi migliori che abbia mai avuto: il trio con Hide Tanaka al contrabbasso e Michi Fuji, una violinista eccezionale.

 

È una formazione abbastanza singolare…

A me piace suonare con qualsiasi formazione; in questo caso è stata Michi a scegliere me. Mi piaceva molto il suo stile e anche quello di Hide ma Michi è davvero un fenomeno; è stata mia allieva ed era tra le migliori.

 

Come vive oggi la sua esperienza di insegnante?

Mi dedico all’insegnamento da diverso tempo, e ho avuto anche allievi che poi hanno fatto strada. Non mi pare di essere un bravo insegnante però molti studenti mi scelgono! La musica è quanto ho di più grande; le ho dedicato la vita e mi piace trasmettere agli altri quello che ho imparato nel corso di un’intera esistenza.

(Rosarita Crisafi Musica Jazz, maggio 2014)