John Scofield: «L’improvvisazione è il sistema giusto per tenere in vita la musica»

di Alceste Ayroldi - foto di Nick Suttle

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Gerald Clayton, Bill Stewart, John Scofield e Vicente Archer
Da sinistra: Gerald Clayton, Bill Stewart, John Scofield e Vicente Archer

John Scofield, l’instancabile chitarrista di Dayton, non perde un colpo, ed è sempre pronto a tornare in scena con un nuovo disco e un nuovo gruppo. In attesa di vederlo presto in Italia, ci siamo fatti raccontare il come e il perché della sua nuova avventura.

John, partiamo dal titolo del tuo album: «Combo 66». Immaginiamo che si riferisca alla tua età ma, a ogni buon conto, perché hai scelto questo titolo?
Ricordi la canzone Route 66? A me quel titolo è sembrato sempre molto cool, forse perché ero un ragazzino. Mi sembrava particolarmente calzante con la band che avevo messo insieme e con la musica che avevo scritto un paio di mesi prima del mio compleanno, che cade a dicembre.

Quindi, 66 è il numero più cool del jazz. Perché?
Primo perché suona bene! Poi perché stimola la nostalgia per tutti gli album degli anni Sessanta: che so, «Brasil 66» di Sérgio Mendes. Non ci sono molti altri motivi, ma è il suono che mi sembra quello giusto.

Bill Stewart a parte, i tuoi compagni sono cambiati.
Penso che Bill sia il più grande batterista jazz al momento: credo che sia davvero incredibile! In realtà gli altri ragazzi, Vicente Archer e Gerard Clayton, mi sono stati consigliati proprio da Bill, che aveva già suonato con loro: mi ha detto che erano proprio quelli di cui avevo bisogno. E quando ho suonato la prima volta con loro mi sono accorto che Bill aveva ragione. Vicente è un bassista incredibile con un gran senso dello swing e un forte accento ritmico, sia quando pizzica le corde con un solo dito o con due. Ha una tecnica, per così dire, old style, che io adoro. Secondo me è il bassista ideale per sostenere la chitarra. Gerald Clayton, invece, lo conoscevo da quando era piccolo, perché sono amico di suo padre John. Mia moglie Susan aveva frequentato lo stesso college di John e quando la conobbi, erano già amici. Quando ascoltai per la prima volta Gerald, suonava il pianoforte in una band della sua high school e mi colpì subito. Quindi lo conoscevo già molto bene, ma non sapevo che potesse diventare il mio tastierista perfetto. Me l’aveva detto, Bill, che Gerald era veramente eccezionale. Ho suonato con tanti grandi pianisti ma penso che per un chitarrista il pianoforte sia il più pericoloso degli strumenti, perché armonicamente può renderti la vita difficile. Invece Gerald sa esattamente qual è il miglior modo per suonare I tuoi brani, interpretando alla perfezione il tuo pensiero. Nei suoi assolo Gerald è capace di ispirarmi e spingermi sempre più avanti.

John Scofield
John Scofield

Sono queste le ragioni per cui preferisci essere accompagnato dall’organo, anziché dal pianoforte?
Sì, penso che l’organo esalti le qualità della chitarra e Gerald sa il fatto suo.

Questo disco sembra attraversare tutto il tuo universo musicale. Era questo l’obiettivo di pertenza?
No, non lo era. Francamente non saprei dire se questo album rappresenti una sintesi del mio percorso artistico. Lo ritengo comunque un fatto inevitabile, perché in tutte le nostre azioni ci sono sempre le tracce del passato.

Cosa rappresenta per te il blues?
Da adolescente ascoltavo blues e mi piaceva moltissimo. Negli anni Sessanta noi ragazzini bianchi ascoltavamo questa incredibile musica e ci piaceva a tutti, così come il soul. Il blues è la musica da cui ho iniziato quando ho preso il mano la mia prima chitarra. C’è del blues in ogni brano jazz, indipendentemente se sia bebop, free, tradizionale. È la base di tutta la musica.

Ti va di dirci qualcosa sulle singole composizioni di questo album?
Ma certo, la cosa mi diverte!

Bene, iniziamo. Combo Theme. Sarebbe una colonna sonora perfetta!
È un film! O meglio, l’ho composta per il gruppo come se fosse un tema da film, ed è scritta a tempo medio tenendo a mente il grande Henry Mancini.

Icons At The Fair…
È un titolo buffo. Quando suonai con Herbie Hancock nel disco «The New Standard», lui volle assolutamente inserire Scarborough Fair di Simon & Garfunkel. Poi vi apportò alcune modifiche, che mi ricordavano certe cose che faceva Miles. Per me Hancock e Davis sono delle icone, e in Icons At The Fair ho quasi voluto inscenare una sorta di incontro tra Herbie e Miles da una parte e Simon & Garfunkel dall’altra: e questo è il risultato.

Willa Jean e Uncle Southern hanno dei riferimenti personali?
Sì! Willa Jean è mia nipote, che ha due anni e questo è un brano allegro, da ballare. Mentre Uncle Southern è dedicata ai miei zii che vivono nel sud degli Stati Uniti, in Louisiana: zio Will e zio Ralph e anche a zio Julius, anche se di fatto è lo zio di mia madre. Non sono cresciuto con loro, ma mia madre mi ha sempre parlato molto di loro e io ho voluto ricordarli in questo brano.

John Scofield
John Scofield

King Of Belgium probabilmente non è dedicata al re Filippo…
Assolutamente no! Neanche ad Alberto II! Ma al grande Toots Thielemans: è lui il re del Belgio, per me. Ho avuto il piacere di suonare con Toots e di scoprire che era una persona meravigliosa, molto simpatica e con un profondo senso dell’umorismo. Quando suonavo in Belgio, lui veniva sempre ai miei concerti. Ogni anno mi chiamava per farmi gli auguri di Natale. Poteva suonare ogni cosa rendendola unica.

Can’t Dance è dedicata a qualcuno?
Senza dubbio: a me! Perché amo la danza ma non so danzare. È un brano carico di groove, che si potrebbe ballare e, visto che io non so ballare, ho pensato di dedicarlo a me stesso.

Vediamo gli ultimi tre brani rimasti: Dang Swing.
L’ho chiamato così perché la melodia è molto Country & Western che si china verso il blues e lo swing; ecco così Dang Swing!

New Waltzo.
È un brano molto personale. Mio figlio è morto cinque anni fa ed era molto giovane, aveva ventisei anni. Quando era al liceo, aveva una piccola band e tutti insieme avevano scritto un pezzo che si chiamava Waltzo, su un tempo di 3/4. Un giorno stavo pensando particolarmente a lui e scrissi questo brano e l’ho dedicato a lui.

I’m Sleeping In.
È solo una ballad. Chiesi a mia moglie Susan: «Come posso chiamarla? È solo una ballad». E lei mi rispose: «I’m Sleeping In! Mi ricorda che è l’ora di andare a letto»

Parliamo della tua Ibanez AS 200. Cosa rappresenta per te?
È una gioia per me suonare la chitarra. Quando mi sveglio, bevo un caffè, che mi da una scossa e poi vado a suonare la mia chitarra, così mi diverto. Sto pensando, per il prossimo anno, di fare dei concerti da solo, cosa che non ho mai fatto prima e che un po’ mi spaventa.

Quanto tempo trascorri a esercitarti sulla chitarra?
Non moltissimo. Quando sono a casa, diciamo un paio di ore al giorno. Quando sono in tour, mi esercito quando posso. Non sono un maniaco: mi piace fare anche altre cose nella vita.

Hai mai pensato di inserire dei testi nelle tue composizioni?
No, perché penso che si debba partire dalle parole per comporre un brano che abbia un testo, e su questo imbastire la melodia. Almeno penso sia così, ma non saprei dire. Alcuni giovani cantanti jazz hanno messo dei testi sui miei brani, ma non è un’impresa semplice, perché la melodia potrebbe non seguire il tempo delle parole. Ma io non lo farei mai, perché sono un musicista strumentale e non penso alle parole quando compongo.

John Scofield «Combo 66»
John Scofield «Combo 66»

Parliamo di «Hudson»: una band di stelle.
La prima volta che suonammo insieme fu a un jazz festival a Woodstock. Uno degli organizzatori era il batterista Ben Perowsky che ci disse: «Ragazzi, perché non venite tutti qui al festival, così facciamo anche una jam?». Così andammo e Jack DeJohnette, che aveva in mente un progetto per festeggiare il suo settantacinquesimo compleanno, disse che avebbe voluto farlo con noi e chiamammo la band Hudson, perché ci trovavamo nell’Hudson Valley. È così che è nata.

Cosa ti attrae dell’improvvisazione?
Da ragazzo suonavo rock in una band e quando facevo gli assolo improvvisavo. È qualcosa che mi è venuto spontaneamente fin da subito. Poi ho imparato tutto il resto ascoltando il jazz. Ho capito che l’improvvisazione era il sistema giusto per tenere in vita la musica, che così è diversa ogni volta. La ritengo il miglior modo per esprimere sé stessi in un determinato momento. Sono un fan del jazz e ho imparato tanto sia ascoltando Bill Evans sia Horace Silver. Amo il jazz perché favorisce l’espressione personale.

Gerry Mulligan, Chet Baker, George Duke, Charles Mingus, Miles Davis. Probabilmente ognuno di questi grandi jazzisti ha influenzato il tuo modo di pensare la musica. Chi ha contribuito in maggior misura?
Tutti i musicisti con cui ho suonato hanno contribuito, in qualche modo, alla mia musica. Di alcuni di loro, come Miles, ho amato lo stile e ho imparato a riprodurre alla chitarra alcune sue frasi. Lo stesso vale per Gerry Mulligan. Lo conobbi in occasione della registrazione di un suo disco. Un altro grande da cui ho imparato tanto e con il quale condivido tanto è Steve Swallow, che è un grande amico oltre che un bassista senza pari; il suo modo di pensare mi ha sempre ispirato. Così anche il mio amico Joe Lovano: quando lo sentii la prima volta mi dissi: «Wow, questo è il vero jazz!». E Joe ha soltanto un anno meno di me! Penso che tutti costoro siano veramente dei grandi musicisti e delle splendide persone, come anche Bill Stewart. Io non posso immaginare la mia vita musicale senza questi musicisti e amici.

Sei anche un didatta. Pensi che oggi sia cambiato il jazz rispetto al passato?
Sì, senza dubbio. Ormai ho sessantasei anni e, quindi, sono cresciuto con la musica di parecchio tempo fa. Quando incontro dei giovani musicisti, scopro che alcuni di loro non conoscono il jazz del passato. A vent’anni presti attenzione a ciò che accade nel contemporaneo e non molto a quel che è accaduto nel passato. E forse questa mancanza di legame ha fatto sì che il jazz oggi sia differente rispetto ad altre epoche.

Che musica ascolti di questi tempi?
Non moltissima, ora come ora, ma soprattutto roba vecchiotta e musica classica.

Chi sono, attualmente, i musicisti più interessanti?
Come chitarristi, attualmente, ce ne sono di incredibili come Peter Bernstein e Julian Lage o Adam Rogers. Ce ne sono tantissimi, come anche Mike Moreno. Mi piacciono molto, ma non li studio né li approfondisco: studio per la mia crescita come compositore e chitarrista. Di recente ho ascoltato il trio di Brad Mehldau e penso che Brad sia veramente straordinario.

Stai lavorando a qualche nuovo progetto?
Non ancora, e non ci ho proprio pensato!

Un’ultima domanda, se mi è concessa. Cosa ne pensi della politica governativa di Donald Trump?
Tutto il peggio. E il solo pensarci mi deprime. Penso che quanto sta succedendo anche in Europa, con il ritorno del razzismo e del nazionalismo, sia la morte del futuro. È una situazione terribile.

Alceste Ayroldi

[da Musica Jazz, settembre 2018]