John De Leo e Fabrizio Puglisi: rimanere mentalmente attivi

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Fabrizio Puglisi
John De Leo e Fabrizio Puglisi - foto Gregorio Adezati

Prima domanda a senso doppio: John, perché hai scelto Fabrizio? Fabrizio, perché hai scelto John?
JDL: Prima di tutto sono un suo fan. Fabrizio Puglisi è il pianista più fantasioso e anticonformista della odierna scena italiana e oltre. Poi perché – al di là delle rispettive peculiarità – abbiamo una comune attitudine performativa e affini necessità: la vertigine dell’improvvisazione quando trascina lontano dal tema, l’utilizzo delle non note e dei rumori, lavorare con lentezza, suonare principalmente per fare Musica; non suoniamo esclusivamente per il plauso del pubblico e questo – come ho già detto in altre occasioni – mi pare il modo più onesto per rispettarlo.
FP: John è una figura unica nello scenario internazionale, la sua voce è un unicum, un mezzo espressivo che può essere utilizzato in infiniti modi. 

Comunque, perché avete scelto la formula del duo?
JDL: Per cambiare. Oltre alle più ovvie e classiche motivazioni musicali della formazione in duo, sia io sia Fabrizio abbiamo altri progetti in ensemble numerosi come JDL Grande Abarasse Orchestra o Guantanamo. Quindi abbiamo scelto questa formula anche per l’esigenza di rimanere mentalmente attivi sulle diverse modalità di fare musica con soli due elementi. Sembrerà ovvio ma vale la pena ricordare che l’alleanza con questo o quel musicista, cambia radicalmente le carte in gioco e la musica che si produce insieme. Fuor di retorica, oltre alle convenzioni del discorso musicale, oltre alla preparazione individuale, inevitabilmente si tratta anche di umanità che si incontrano, universi e vissuti a confronto. Nella formazione in Duo questi elementi sono a distanza ravvicinata. Per questi motivi, da questo punto di vista non credo esistano vere e proprie formule codificabili e in definitiva – anche per rimanere in qualche modo attinenti con il titolo dell’album – per me ogni duo è unico.
FP: Ho sempre trovato il duo una delle mie formazioni preferite, un dialogo intimo in cui ogni dettaglio è importante. La trasparenza del duo mi attira per la libertà che da a ogni protagonista, per la facilità con cui  si può agilmente cambiare direzione. 

A un certo punto, spunta il nome di Gianluca Petrella: un terzo comodo?
JDL: Chiamiamolo così. Oltre alla volontà di inserire un suono diverso da quello mio e di Fabrizio, abbiamo coinvolto una mente pensante, non esclusivamente un solista creativo nonché moderno compositore; Petrella è uno dei modificatori del linguaggio, uno dei pochi musicisti che davvero intende il jazz con uno sguardo ampio e che – nella composizione estemporanea delle congiunture del luogo e del momento – può comprendere ogni genere senza preclusioni. E se lo fa lui anche questo è Jazz. Forse è sempre stato questo; non è certo reato praticare il be-bop (che amo) o rifare uno standard in versione swing o bossanova ma credo che tutto ciò abbia avuto più senso quando questi generi nascevano e si iniziavano queste commistioni. Il discorso non c’entra con la tradizione che rispetto e che dovrei studiare più a fondo. Sono approcci più che legittimi ancora oggi, noi però – a rischio di fraintendimenti – non siamo per il filologico o per il Revival. Lavoro da tanti anni con Gianluca, e sempre in progetti stimolanti. Attualmente con il suo Trio 70’s. 
FP: Con Gianluca ci conosciamo da tanti anni e abbiamo collaborato insieme in vari contesti ma mai in modo continuativo. Nel contesto del duo con John era interessante introdurre un’altra “voce” sia per il suo peso strumentale che per l’uso intelligente che Gianluca fa dell’elettronica.

fabrizio puglisi
La copertina termosensibile dell’album

Parlando del titolo, «Sento doppio» può avere molti significati. Qual è il vostro? 
JDL: Il nostro senso è personale. Comunque sia, principalmente si tratta di un gioco di parole a Doppio Sento, cioè Senso (volevo dire). Poi forse perché l’interplay – quindi una certa disponibilità reciproca – è tale da compenetrarsi in un unico duplice sentire. Oppure perché quando si suona bisogna tenere le orecchie spalancate. Poi perché – per deformazione professionale – l’occhio con cui guardiamo il mondo è anche l’orecchio. Sento Doppio come stato di alterazione quale vedo doppio. Sentire doppio, inteso come avvertire, percepire, provare sensazioni raddoppiate. A proposito: la copertina dell’album è stampata con un particolare inchiostro termosensibile per cui è necessario il senso del tatto o infondere calore per conquistare la vista delle immagini sottostanti. 
FP: Mi piacerebbe lasciare aperta l’interpretazione del titolo: ha tanti significati difficili da sintetizzare. Per me è più interessante sentire come lo interpretano gli altri…. La realtà si apre a più significazioni e anche il nostro sguardo sulle cose muta nel tempo e a seconda del contesto. Sento Doppio è anche un’ipersensibilità verso le cose che ci circondano.

C’è qualche riferimento storico-musicale a cui vi siete ispirati?
JDL: Ce ne sono molti. Regolarmente li usiamo per allontanarcene. Per esempio, il riferimento a cui si pensa immediatamente in un progetto per voce e piano lo esplicitiamo subito all’inizio del disco. Fatte le debite proporzioni, la nostra versione di Big Stuff (medley con Naima) si rifà direttamente al suono mirabolante del duo Bennet/Evans ma è fuorviante. Si tratta semplicemente di uno spunto – comunque molto rispettoso – dal quale partiamo per poi esplorare altrove. Inoltre siamo entrambi – anzi tutti e tre contemplando anche Petrella – fan di Ornette Coleman; oltre per essere stato uno dei padri del free, personalmente amo Coleman anche per quei suoi temi quasi consonanti, sempre contaminati da qualche spigolosità, (ovviamente) anche perché caratterizzati da quel suo timbro unico, così stridente eppure al contempo perfetto nella sua narrazione musicale. Ma anche Other Shapes (searching for) – dichiarato richiamo al titolo dell’album di Coleman – dirotta in altri mondi, e l’ascoltatore convinto di indovinare le sorti del brano nella sua interezza già dalle prime note, potrebbe cadere in errore. In 02:16,5 invece abbiamo osato giocare con alcuni concetti propri della musica contemporanea, formulati nello specifico da John Cage. In materia, il profondo conoscitore resta il mio socio Puglisi, il quale non ne avrà parlato per quel suo stimabile pudore e per onestà intellettuale. Il nostro brano non varrà la metà di 4’33” ma dal canto mio, mi sono molto divertito nel concentrarmi in un approccio originale e conservo il bellissimo ricordo di nostre sconfinate divagazioni filosofiche. Una volta empi di concetto, nella pratica non abbiamo fatto altro che registrare – in sedi separate e senza sapere cosa avesse fatto l’altro – una traccia lunga circa due minuti e 16 secondi. Poi le abbiamo sovrapposte. 
FP: In realtà abbiamo semplicemente cercato di produrre una musica diversa da quello che già conoscevamo. Come dice John, quando venivano fuori dei riferimenti a cose già note cercavamo di deviare il percorso in modo da non risultare prevedibili.

Le musiche e i testi sono tutti a firma di entrambi?
JDL: Questa la tracklist nel cd fisico (nel vinile ci sono alcune alternate takes):

  1. BIG STUFF / NAIMA [L. Bernstein / J. Coltrane]
  2. ARITMIA [M. De Leonardis – F. Puglisi]
  3. MOON [F. Puglisi]
  4. OTHER SHAPES (Searching for) [M. De Leonardis – F. Puglisi]
  5. CREPUSCULE WITH NELLIE [T. Monk]
  6. ESCARGOTS CRIS [M. De Leonardis – F. Puglisi]
  7. 02:16,5 (Episode II) [M. De Leonardis – F. Puglisi]
  8. VAGO SVANENDO [M. De Leonardis / M. De Leonardis – C. Ravaglioli]

FP: A parte Crepuscule with Nellie di Monk, Big Stuff di Leonard Bernstein e Naima di Coltrane i brani sono scritti insieme, eccetto Moon che è stato scritto da me più di dieci anni fa per l’ensemble Curva Minore per la sonorizzazione live del film di Murnau Tabù. Nel cd c’è anche un brano extra con Gianluca Petrella, Escargot Cris e due take differenti rispetto al vinile di Crepuscule e 02:16,5.

John De Leo
John De Leo – foto Gregorio Adezati

Seconda domanda a senso doppio (o quasi). John, perché dedicarsi al jazz? Fabrizio, perché continuare con il jazz?
JDL: Mi interessa(no) il suo linguaggio, i suoi codici, le sue molteplici funzionalità trasformatesi nei decenni. É vero anche che mi dedico al jazz quanto ad altri generi musicali, e non potrei fare a meno di nessuno. Detto ciò non sto asserendo di conoscerli e non mi basterà la vita per studiarne a fondo uno. Questo è anche un altro dei motivi per cui lavoro con Fabrizio. Ci si può dedicare al jazz in modo completo solo praticandolo insieme ad altri musicisti. Ma: Dedicarsi. Ci si può dedicare al jazz? Ci si dedica allo studio – indubbiamente necessario – ma dedicare forse non lo penso come il termine esatto. Prima di complicarmi la vita in definizioni già perfettamente indefinite dai pilastri storici di questo genere musicale, nel Jazz forse si cade, si capitombola, si scende con la consapevolezza che da quel momento non potrai fare altro che abitarlo, nella condanna perpetua a cercarne le uscite di servizio. In ogni caso il jazz, se non altro nella sua funzione originaria del ballo e dell’intrattenimento, fa parte del mio imprinting. Tra i dischi di mio padre -quelli che si ascoltavano in casa quando ero bambino- oltre a Presley, Beatles, Platters e pochi altri cantanti italiani, la song americana era piuttosto gettonata: Frank Sinatra, Ella Fitzgerald, Nat King Cole, e poi Count Basie. Tutti questi primi ascolti, volenti o nolenti, fanno parte di me.
FP: Non saprei definire il jazz se non un approccio alla musica aperto al continuo cambiamento in cui i brani non prendono mai una forma definitiva ma restano sempre opere aperte. Questo è uno dei grandi contributi del jazz all’arte del XX secolo, prima che questo concetto diventasse comune anche alla musica colta o alle arti visive e performative. In questo senso si aprono territori da esplorare che fanno confinare il jazz con altre musiche e altri linguaggi artistici. Si può anche dire che il jazz sia una musica che ha una sua specificità nel suo originale e complesso approccio al ritmo, un modo di stare sul tempo unico e differente dalle altre musiche. E, beninteso, questo modo di stare sul tempo non è necessariamente legato ad una pulsazione regolare, come ci hanno insegnato gli ultimi cinquanta anni di storia. La pulsazione del jazz è viva, respira come un organismo, letteralmente pulsa. Altrimenti jazz rischia di diventare una sigla che definisce una musica del passato, una gabbia, per questo non era una parola amata da grandi come Mingus, Ellington, Ahmad Jamal e molti altri. Oppure ognuno può segmentare il pezzettino della storia del Jazz che più gli piace e dire che quello sia il vero jazz ma non è il mio caso. Il jazz per me è sempre in fieri.

A proposito, pensate che «Sento doppio» sia un album da classificare come jazz?
JDL: Personalmente lo classifico come Musica. Di certo non è un disco per puristi di alcun genere specifico. Non è sicuramente un disco per gli amanti della delle scale, non è un disco di canzoni, non è vocalese, non è corretto né intonato. Pur anelando nel riuscire in tutto ciò, in questo lavoro discografico ci ostinavamo a perpetrare il contrario nel miraggio di trovare un linguaggio personale.
FP: Se intendiamo per jazz un repertorio di brani che la tradizione ci consegna «Sento doppio» può essere considerato un disco di jazz perché c’è un brano di Monk, uno di Coltrane o uno standard come Big Stuff di cui esiste una bellissima versione di Gil Evans con solista Steve Lacy. Non mi piace però considerare il jazz solo un repertorio consolidato come nella musica barocca o nella musica classica. Esteriormente potremmo dire che se si suona All the Things You Are si fa del jazz, ciò non garantisce una qualità ma rassicura sul genere. Dato che abbiamo anche bisogno di certezze, per alcuni il repertorio jazzistico di per sé è discriminante tra ciò che è bello o brutto o tra ciò che è giusto o sbagliato. Per alcuni compositori contemporanei se una cosa rientra nel repertorio jazzistico è paccottiglia emotiva. Non sto scherzando.

Ci sono anche ampi riferimenti alla musica classica contemporanea, come in Aritmia, dove utilizzate i vostri rispettivi strumenti esplorando vie sperimentali, o anche in Crepuscule With Nellie.
FP: La musica contemporanea fa parte del nostro background di ascolti; i confini tra i generi non interessano i musicisti creativi. Gyorgy Ligeti nello scrivere i suoi Etudes per pianoforte si ispirava a Monk, Bill Evans e alle musiche africane.

Così come c’è un inusuale uso del groove in Escargot Cris. Vi piace destrutturare il passato?
JDL: Destrutturare è eccessivo. Viva la musica bella del Passato! Diciamo che sentiamo la necessità di usarlo e di mescolarlo. 
FP: Non mi sono mai posto il problema di fare qualcosa di nuovo, piuttosto ho sempre cercato di fare qualcosa di bello. La conoscenza della tradizione è sempre la base per la ricerca della propria identità: in una prospettiva più ampia si può dire che se non si conosce la storia (in generale) non c’è un vero progresso.

I testi sono pochi e rarefatti: lasciano la scena alla voce come strumento. John, qual è la ricerca che stai effettuando e, nel caso, ti sei prefisso un obiettivo?
JDL: In un progetto come questo, gli obiettivi individuali si confondono, si fondono. La mia ricerca inevitabilmente diviene una ricerca doppia, comune: la nostra. Altro dai miei intenti personali. Personalmente, e da sempre, non mi interessa il mero studio della voce; il pensiero piuttosto è sul contesto musicale, come e dove inscrivere lo strumento voce tra gli strumenti. Nei miei progetti molte volte è l’ultimo dei tasselli a cui mi dedico. Il mio strumento può eseguire il tema principale, come asservire al contrappunto o a supporto ritmico: la voce per me è uno degli strumenti a servizio della composizione. In sintesi, mi interessa una musica nella sua interezza. A ogni modo, la personale ricerca sulla voce insegue la Rappresentazione, la rappresentabilità. In maniera più o meno naturale mi trovo – nel destino dell’uso del mio strumento voce – a cercare forme ulteriori, ad adoperarmi per amplificare sensi e significati attraverso i suoni.  Sensi delle parole, nel caso in cui canti parole ma, alla parola cantata, ancora prediligo la musica: è mia convinzione che i suoni e le sue combinazioni raccontino molte più parole di quante se ne possano esprimere. 

Fabrizio Puglisi e John De Leo - foto Gregorio Adezati
Fabrizio Puglisi e John De Leo – foto Gregorio Adezati

Fabrizio, qual è la tua ricerca in ambito musicale e quale è il tuo obiettivo?
FP: Per rispondere con semplicità direi che provo sempre a suonare qualcosa che non ho suonato prima. Rischiando molto, ovviamente, ma la cosa fondamentale per me è evitare la routine. Inoltre devo dire che sono molto interessato all’antico, in musica e in ambito culturale in genere, alle domande che l’uomo si pone da sempre; spesso cambiano le risposte a seconda delle epoche ma le domande e le esigenze di base sono sempre le stesse. Anche in musica. Uno dei ruoli del musicista è riscoprire degli archetipi che sono stati dimenticati o messi da parte per riportarli alla luce. Riscoprire il mito e reinterpretarlo con la sensibilità dell’oggi.

Terza domanda a senso doppio. Quando si parla di coppie del mondo della musica, dello spettacolo, si pensa anche al «buono e cattivo». John, secondo te chi da più fastidio dei due?
Io faccio quello buono. Un esercizio quotidiano estenuante.  In concerto, quando ci si da fastidio è per stimolo: un fastidio costruttivo. Se poi intendessimo infastidire il pubblico andiamo d’accordissimo e da questo punto di vista c’è un interplay ineguagliabile. A ogni modo cedo alla provocazione nella domanda e direi si riesca a darci fastidio vicendevolmente in modo equo. 

Fabrizio, secondo te chi da più fastidio dei due?
Non c’è dubbio che John sia il più fastidioso! Da questo punto di vista è un tradizionalissimo cantante autoreferenziale sebbene cerchi di nasconderlo. Comunque sia, preferisco fare la spalla alla Peppino De Filippo o il regista arretrato, quello che fa giocare la squadra e qualche volta l’ultimo passaggio per far segnare il goleador.

A disco fatto, vista la crisi del mercato discografico, ha senso produrre un disco? 
JDL: Per noi ha senso. E proprio in virtù della crisi. Al di là di una certa forma di resistenza, il problema è piuttosto contorto e paludoso: per rientrare a far parte del mercato l’artista oggi è costretto a prediligere le formule più ammiccanti e banali (e questo accade in tutti i settori della musica e dell’Arte in generale). Ora, noi non crediamo nel mercato. Al contempo è il Mercato a decidere cos’è bello, cos’è artistico. Nonché a farci campare come musicisti. Finché ci saremo dentro lo faremo con più responsabilità ed etica possibile. Nell’intento principe – senza nessuna presunzione di riuscirvi – di rispettare la musica e l’ascoltatore. Infine, saremo forse romantici ma ha ancora senso anche perché siamo entrambi appassionati collezionisti di dischi.
FP: Purtroppo si da ormai per scontato che la gente non acquisti più dischi e prenda tutto gratuitamente dalla rete. Io penso che questo sia un disastro dal punto di vista culturale. La salute dell’industria discografica mi interessa relativamente, mi interessa molto di più la salute del pensiero. Rassegnarsi all’mp3 come supporto privilegiato dell’ascolto per me è una vera tragedia che svela l’ipocrisia del cosiddetto progresso tecnologico. Negli anni Ottanta qualunque adolescente senza un interesse specifico per la musica ascoltava il pop su un impianto stereo a un livello di fedeltà e qualità audio che adesso ci sogniamo: la barbarie dell’mp3 di adesso si esprime liofilizzando le orecchie dei consumatori dalle casse del computer o dagli orrendi (e dannosi) auricolari degli smartphone.

Avete pubblicato l’album anche in vinile. La prima domanda è: il vinile è il futuro del mercato discografico?
JDL: Non credo: si tratta dell’ennesimo make-up del mercato che incipria sé stesso visto che in gioventù aveva fatto colpo. 
FP: Non so quanto durerà questa moda del vinile, ma almeno la qualità dell’audio è migliore dell’mp3! Io non ho mai smesso di ascoltare i vinili (preferisco ancora la parola dischi) e non ho mai smesso di acquistarli nei mercatini dell’usato; anzi la moda del vinile mi dispiace un po’ perché ha alzato i prezzi dei dischi usati; adesso invece sto comprando molti cd che trovo in svendita da tutte le parti, di recente alcuni di Yusef Lateef che non troverai mai su Youtube o Spotify.

Seconda domanda a tal proposito. Rispetto al cd, il vinile contiene un brano in meno, Escargot Cris: perché proprio questo?
JDL: Per fare un dispetto a Petrella. Scherzi a parte, per quanto mi riguarda il vero album è la scaletta del vinile, dove la durata possibile del supporto, a malincuore costringe a dover rinunciare a qualcosa, a sintetizzare.
FP: Avevamo tanto materiale buono registrato in studio e il vinile ha dei limiti di durata anche se secondo me la durata del vinile è quella giusta, non mi piacciono i cd con 79 minuti di musica infatti il nostro cd dura poco più del disco.

In chiusura, domanda a senso doppio numero quattro: John, quali sono i tre pianisti che preferisci?
Solo tre? Chopin, Monk, Lee Lewis. D’accordo Jerry mettiamolo al quarto, allora Satie al terzo posto. E Pieranunzi e D’Andrea. E Puglisi. A pari merito.

Fabrizio, quali sono i tre cantanti (maschili) che preferisci?
Nel jazz adoro Andy Bey, nel rock Robert Wyatt. Da qualche tempo ho scoperto un grande cantante della tradizione afrocubana, Lazaro Ros, una voce antica che fa viaggiare nel tempo.

Ora, pubblicato il disco, quali saranno i vostri impegni, sia in comune che separatamente?
JDL: In comune il tour di Sento Doppio, al quale saltuariamente parteciperà anche Gianluca. Spero poi potrò dedicarmi nuovamente alla Grande Abarasse Orchestra, una delle mie formazioni più riuscite il cui ventaglio di possibilità compositive, timbriche, nonché solistiche, credo ancora non completamente espresse.
FP: Oltre ai concerti per presentare Sento doppio, andrò ad Addis Abeba per due settimane a suonare con musicisti etiopi nel gruppo Atse Tewodros continuando ad approfondire la pratica di alcune musiche africane che da sempre sono al centro della mia attenzione anche in altri due progetti: uno è Fawda, un gruppo con cui abbiamo registrato in Marocco il vinile «Road to Essaouira» con i musicisti Gnawa e i producers inglesi Swami Million, l’altro è il mio settetto Guantanamo che prende ispirazione dalla musica afrocubana per mescolarla trasversalmente al jazz, all’improvvisazione, alla composizione e alle musiche d’oggi.

Alceste Ayroldi

Fabrizio Puglisi
Gianluca Petrella con John De Leo e Fabrizio Puglisi – foto Gregorio Adezati