Joel Ross: KingMaker

di Nicola Gaeta

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Joel Ross (foto di Lauren Desberg)
Joel Ross (foto di Lauren Desberg)

Ad appena ventitré anni il vibrafonista di Chicago Joel Ross, oggi membro della fertile comunità di giovani musicisti che vive a Brooklyn, si è già imposto come uno dei nomi su cui maggiormente puntare per il futuro del jazz

Il vibrafono è lo strumento ideale per suonare jazz. Perché è uno strumento ritmico, è uno strumento a percussione e nello stesso tempo offre tutte le possibilità melodiche immaginabili. Il motivo per cui non molti lo suonano è la difficoltà nel suo apprendimento e nello sviluppo di un suono che risulti accattivante e in sintonia con le caratteristiche necessarie a confrontarsi con l’idioma afro-americano: lo swing e il groove. Imporsi all’attenzione dei media e dell’esigente pubblico del jazz è pertanto oltremodo difficile. Joel Ross, da Chicago, ci è riuscito: e a soli ventitré anni è oggi «il» vibrafonista di cui tutti parlano, colui che ha ereditato la fluidità dello stile di Milt Jackson, il lirismo di Gary Burton, la capacità improvvisativa di stampo post-bop di Bobby Hutcherson. Qualcuno obietterà che già prima di lui musicisti come Stefon Harris, Steve Nelson, Joe Locke si erano fatti notare per lo stesso motivo, ma il valore aggiunto di Ross è la sua giovanissima età in apparente contrasto con la maturità, non solo strumentale, che gli ha permesso di collaborare al fianco di colleghi illustri dalla fama e dalla maestria consolidata (Herbie Hancock, Louis Hayes, Christian McBride), al fianco delle stelle del panorama contemporaneo (Ambrose Akinmusire, Gerald Clayton) e di incidere il suo disco d’esordio, «KingMaker», un concentrato di modernità e maturità espressiva, per la Blue Note di oggi, quella che deve a Don Was la maggior parte del suo riuscitissimo catalogo. Joel Ross – ha iniziato con la batteria quando aveva tre anni, ha esordito col vibrafono a dieci e suona molto bene anche il pianoforte – ha vinto una serie di premi, tutti prestigiosi, e fa parte di quella genia di giovanissimi e talentuosi musicisti, tutti operanti nell’area di New York, della quale si è scritto nel numero scorso.

Tu sei di Chicago, una delle città più importanti al mondo per quel che riguarda la black music. Raccontami qualcosa di te e della scena dalla quale provieni…
Sono cresciuto in quella città e quindi mi sono lasciato influenzare da tutto quello che vi accade musicalmente. In particolare dal gospel e dalla musica religiosa. Da piccolo andavo spesso in chiesa con la mia famiglia, suonavo con le band che si formavano al suo interno ed è ovvio che questo ha influenzato il mio approccio alla musica e al jazz, che ho cominciato a suonare quando avevo dieci anni. Una delle mie maggiori influenze è stato Milt Jackson. Anche lui era un musicista che aveva imparato a suonare il vibrafono in chiesa. Per me è stato un modello, un punto di riferimento.

foto di Lauren Desberg
Joel Ross (foto di Lauren Desberg)

«KingMaker» è il tuo disco d’esordio da leader. Vi sono coinvolti dei giovanissimi musicisti di grande talento e che suonano egregiamente. Ora come ora il primo nome che mi viene in mente è quello di Immanuel Wilkins al sax alto. Come sei arrivato a questo lavoro?
L’idea era quella di creare una band con i miei compagni del liceo e dell’università. Il primo che ho conosciuto è stato il pianista, Jeremy Corren. Abbiamo vinto insieme un premio nel 2013 allo Young Arts Jazz, grazie al quale andammo a Miami a suonare per una settimana. Poi ho conosciuto Jeremy Dutton, il batterista, che era amico di James Francies, un pianista che, come me, ha registrato il suo disco d’esordio per la Blue Note. Infine è stata la volta del bassista Ben Tiberio, che ha studiato con Vijay Iyer. Tutti insieme ci siamo trasferiti a New York, credo fosse il 2015, dove abbiamo capito che avremmo suonato insieme per un lungo periodo di tempo. Erano i miei migliori amici, a New York siamo diventati come fratelli. In città ho immediatamente stabilito una serie di contatti che ci hanno introdotto nel giro dei club. Suonavamo allo Smalls ogni due settimane, avevo un ottimo rapporto con la Jazz Gallery dove abbiamo anche suonato parecchio, insomma funzionava veramente bene. «KingMaker» è il risultato di tutte queste gigs. La musica l’avevo già scritta quando vivevo in California, dove ho frequentato il Brubeck Institute per un paio d’anni. La musica era già pronta ma non eravamo pronti noi, perché quando siamo arrivati a New York abbiamo dovuto, in un certo senso, imparare a suonare! Alla fine ci siamo riusciti, e «KingMaker» è il risultato di tutto il lavoro e lo sforzo che abbiamo fatto per creare il nostro sound complessivo.

Hai già detto che Milt Jackson ha avuto una grande influenza su di te. Quali sono state le altre? Come vibrafonista e, più in generale, come musicista…
Ho cominciato il mio rapporto con la musica con la batteria. Ho un fratello gemello: tutti e due abbiamo iniziato con la batteria ma lui aveva un talento naturale per quello strumento, ben superiore al mio. Per cui ho deciso di lasciar perdere e di provare altri strumenti a percussioni. È così che ho iniziato a suonare il vibrafono. In realtà io non volevo, è stato mio padre a suggerirmelo. Quando io e mio fratello abbiamo iniziato a suonare, in casa si ascoltava spesso Milt Jackson, così giocoforza mi sono avvicinato al suo stile sul blues, al suo modo di suonare le ballads e a come adattare lo strumento alla prassi del bop. Sono certo di aver preso molto da lui, ma credo che le mie maggiori influenze siano state Thelonious Monk e Miles Davis. John Coltrane e Hancock sono arrivati dopo: Herbie è in assoluto il mio musicista preferito. Ma per non fartela troppo lunga ti dirò che ad avermi influenzato maggiormente è stato il modo in cui Trane, Miles e Monk dirigevano i loro gruppi. Tra tutti, questo è l’aspetto che mi ha colpito di più. Quindi la mia formazione di musicista non s’impernia tanto sullo strumento che suono quanto sulle modalità che i grandi che ti ho citato adoperavano nei loro gruppi. Insomma non penso alla musica da vibrafonista ma la vedo nella sua totalità. Mi sento un musicista che ama la musica a tutto tondo e infatti mi esercito molto alla batteria e al piano, e paradossalmente mi piace suonare questi strumenti più del vibrafono, anche se quest’ultimo è il mezzo sul quale riesco più facilmente ad esprimermi. Quindi, per riassumere: Miles per come dirigeva la sua band, Monk per l’impianto ritmico non convenzionale e per la maniera in cui suonava il piano, Trane per la passione e l’emozione che è impossibile non avvertire quando lo ascolti suonare. Da lì ho cercato di capire come anch’io potessi fare altrettanto suonando il vibrafono, e ancora non ci sono arrivato! Devo dire che, da questo punto di vista, un musicista come Hancock ha saputo sintetizzare tutto questo traducendolo nella maniera più moderna e armonica possibile e influenzando tutti quelli che sono venuti dopo di lui.

Joel Ross «KingMaker»
Joel Ross «KingMaker»

Dove vivi in questo periodo?
A Brooklyn.

Mi sembra che in questo momento New York viva un periodo di particolare fermento jazzistico. Penso a Giveton Gelin, a Kyle Benford, a te stesso. È una scena di musicisti molto giovani anagraficamente ma già molto maturi dal punto di vista musicale. Qual è la tua opinione?
Ho conosciuto molti di questi musicisti già ai tempi del liceo. Oggi le scuole in cui si insegna il jazz sono molte e assai ben attrezzate, e penso che la nostra generazione risenta di questo – chiamiamolo così – eccesso di educazione! Anche se, va detto, non siamo la prima generazione cui è stato insegnato il jazz a scuola. È vero, c’è una scena di musicisti molto preparati che vengono fuori dalle scuole, colleghi come James Francies, Matt Brewer e tantissimi altri di cui potrei farti il nome. E come ti dicevo, è tutta gente che ho conosciuto al liceo e che mi ha presentato altri miei coetanei, per cui quando sono arrivato a New York li conoscevo già tutti. È come essere una grande famiglia, anche se stilisticamente non suoniamo le stesse cose. È un bellissimo ambiente, molto coeso che ha creato un forte senso di comunità cittadina.

Da qualche tempo ti vedo sempre più coinvolto in progetti assai diversi. La musica d’oggi mescola senza problemi esperienze e stili di ogni genere. C’è qualcosa che ha segnato in particolare la tua carriera di musicista?
Questa è una domanda interessante. Posso dire che, suonando il vibrafono, finisco per ritrovarmi in situazioni molto diverse tra loro. Quelle che mi hanno formato di più sono state la partecipazione alla band del trombettista Marquis Hill, che ha vinto la Monk Competition tre anni fa. Ho lavorato con Marquis per circa tre anni, è stato il primo gruppo di cui ho fatto parte. Ed è stata per me un’esperienza estremamente formativa. E poi ho avuto l’opportunità di suonare – in uno dei miei primi ingaggi – con Gerald Clayton, che avevo conosciuto durante il mio ultimo anno di liceo. Lui, insieme ad Ambrose Akinmusire e Robert Glasper, ha rappresentato la mia introduzione a quello che la gente chiama modern jazz. Gerald è, in assoluto, uno dei miei preferiti tra i moderni. Mi ha aiutato ad imparare quello che mi piace fare come bandleader, ho imparato da lui soltanto guardandolo suonare. Ho lavorato anche con Melissa Aldana, la sassofonista: lei è una delle mie preferite anche dal punto di vista compositivo, mi piace molto suonarci assieme. Un’esperienza che ritengo importante, quantomeno inconsueta per me, è stata quella con il trombettista Peter Evans, che in teoria suona avanguardia, anche se non mi piace etichettarlo in quella maniera. È stata una situazione molto diversa per me, abbiamo appena finito di registrare un album proprio ieri. Sai, pur venendo da Chicago non avevo mai fatto un’esperienza di questo genere alle scuole superiori, era qualcosa che non conoscevo. Suonare con Peter è stato molto importante perché sono stato introdotto in un mondo completamente sconosciuto che mi ha insegnato a restare aperto a molte e diverse situazioni musicali.

Immagino tu conosca o abbia sentito parlare di Nicholas Payton…
Non lo conosco molto bene, voglio dire di persona, ma ovviamente so chi è.

Joel Ross
Joel Ross

Cosa pensi della sua idea di chiamare la musica afro-americana non più jazz ma BAM?
Ovviamente il jazz è Black American Music perché viene dal blues. Si tratta di un albero, tutto quanto viene da quell’albero e quell’albero è la Black American Music. Però non ho un particolare interesse per le definizioni. Jazz, bebop eccetera sono tutti nomi che hanno stabilito i critici. Alla mia generazione è stato insegnato che questa musica si chiama jazz ma a me non importa proprio nulla della parola in sé, non mi interessano le etichette e non voglio essere etichettato in nessuna maniera. A me interessa la musica. Milt Jackson suonava in un gruppo chiamato Modern Jazz Quartet, uno dei gruppi più longevi nella storia del jazz. E posso essere d’accordo con chi sostiene che quella è Black American Music che proviene dall’esperienza nero-americana, quindi non ho niente in contrario se qualcuno usa questo acronimo. Ma tutto sommato è una questione irrilevante. Quello che mi importa è che ci ci ascolta sappia di cosa si tratta e che cosa significa.

Tu sei molto giovane e ovviamente l’hip-hop, più che il jazz, è la musica della tua generazione. Da parecchio tempo Quincy Jones sostiene che l’hip-hop rappresenta per i giovani afro-americani di oggi ciò che il bop ha rappresentato per quelli degli anni Quaranta e Cinquanta. Cosa pensi di questa affermazione?
Sono d’accordo con lui. Io in realtà non sono cresciuto ascoltando molto hip-hop, perchè andavo in chiesa, ma oggi sto colmando questa lacuna perché sto ascoltando l’hip-hop del passato, la cosiddetta Old School, e nello stesso tempo quello dei nostri giorni, che è così popolare esattamente come il bebop e il jazz erano popolari in passato. Credo che Quincy abbia fatto una considerazione molto importante. Anzi: uno dei miei obiettivi musicali è mettere assieme hip-hop, gospel e jazz in un suono, il più organico possibile. Sotto questo aspetto Robert Glasper sta svolgendo un lavoro eccellente. Con la sua musica ha portato molti fan dell’hip-hop verso il jazz e viceversa. Secondo me è questa la strada da seguire.

Nicola Gaeta

[da Musica Jazz di giugno 2019]