Jethro Tull a Firenze

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Jethro Tull, foto di Marco Borrelli

Teatro Verdi, Firenze

5 novembre 2019

Inserito nella stagione musicale del Teatro Verdi, il concerto di Jethro Tull faceva parte di un tour organizzato in occasione del 50° anniversario della fondazione del gruppo, in realtà risalente al 1968. Soprattutto per tutti coloro che avevano seguito il gruppo -come chi scrive – fin dai primi anni Settanta era dunque lecito aspettarsi un intento (auto)celebrativo, come del resto lo svolgimento dell’evento ha puntualmente confermato. Almeno limitatamente alla prima parte la scaletta era stata infatti concepita secondo un criterio pressoché cronologico con il supporto di immagini d’epoca che scorrevano sull’enorme schermo installato dietro al palco. A queste si aggiungevano – a mo’ di presentazione dei vari brani – dei brevi interventi di amici musicisti, tra i quali alcuni membri storici della band come il primo chitarrista Mick Abrahams, il bassista Jeffrey Hammond-Hammond e il tastierista John Evan.

È comunque evidente, e non da ora, che quello attuale – pur avendo mantenuto il nome originario – è più che mai il gruppo di Ian Anderson. Il 72enne flautista e polistrumentista conserva ancora gran parte della sua carismatica presenza scenica e un’assoluta padronanza del suo strumento principe. Tuttavia, sorgono inevitabilmente una considerazione e un interrogativo. Fermi restando il buon livello dei membri del gruppo e il magistero dello stesso Anderson, l’impeccabile confezione dello show appare più che altro il frutto di un consolidato mestiere e di una professionalità tecnicamente ineccepibile. Dunque, cosa rimane della musica dei Jethro Tull di un tempo? Cioè, di quell’originale sintesi tra elementi ritmici e timbrici del rock, il sostrato del folklore britannico, le radici del blues, echi classicheggianti e sporadiche influenze jazzistiche che tra il 1968 e il 1972 aveva proiettato il gruppo ai vertici della considerazione di pubblico e critica?

Ian Anderson, foto di Marco Borrelli

Quello a cui si assiste oggi è un repertorio codificato, a tratti perfino cristallizzato, ormai privo di quello spirito genuino e innovativo di un tempo. Né si riscontra alcun tentativo di rielaborare vecchi materiali, alcuni dei quali sarebbero senz’altro provvisti di contenuti potenzialmente ancora esplorabili e suscettibili di arrangiamento. Da «This Was», l’album d’esordio, vengono recuperate la strumentale Dharma For One, con il suo up tempo impetuoso, selvaggio; la melodia fresca, dalle tinte folk, di Song For Jeffrey; il country blues di Some Day The Sun Won’t Shine For You, per sole armonica e chitarra. Il blues, armonica compresa, riaffiora nell’impianto di A New Day Yesterday, ripresa da «Stand Up» al pari di For A Thousand Mothers e la celebre Bourée tratta dalla Suite n. 1 in Mi minore BWV 996 per liuto di Bach. Qui il contrappunto tra flauto e basso risulta stilizzato. La ritmica (David Goodier al basso e Scott Hammond alla batteria) non esprime un grammo dello swing che nella versione originale scaturiva dalla dialettica tra Glenn Cornick e Clive Bunker. La stessa improvvisazione al flauto è basata più o meno sugli stessi licks e patterns (leggi: frasi e formule). Vale la pena di ricordare che, come sempre ammesso dall’interessato, Anderson aveva forgiato il suo stile sul modello di Rahsaan Roland Kirk (geniale polistrumentista e innovatore del flauto jazz) dal quale aveva mutuato la tecnica dell’ultrasoffio, che prevede l’impiego di vocalizzi, mormorii e gemiti.

David Goodier e Ian Anderson, foto di Marco Borrelli

Estratta dallo storico «Aqualung», My God è compromessa nella resa finale da un suono impastato che ne pregiudica i delicati equilibri elettroacustici. Non si capisce poi l’inserimento in scaletta della coda della suite Thick As A Brick, letteralmente tirata via. Nettamente più apprezzabili si rivelano invece le ampie porzioni strumentali che caratterizzano un estratto dalla (a suo tempo) vituperata «Passion Play»; i rimandi e i giochi di botta e risposta di Songs From The Wood; i ceselli rinascimentali di Pastime With Good Company, madrigale composto da Enrico VIII e presente in «Stormwatch» con il titolo King Henry’s Madrigal; i sentori celtici e l’atmosfera epica della strumentale Warm Sporran, anch’essa proveniente da «Stormwatch». In questi frangenti, si valorizzano l’efficacia del collettivo, i giochi ad incastro del tessuto ritmico con conseguenti cambiamenti metrici, i colori aggiunti dal tastierista John O’Hara nel suo lavoro di raccordo e i concisi interventi del chitarrista tedesco Florian Opahle, che cerca il più possibile di allontanare ogni riferimento a Martin Barre (a proposito, mai menzionato da Anderson nelle sue presentazioni: perché?).

Ian Anderson, foto di Marco Borrelli

La decisione di chiudere il concerto con versioni generose, ma prive di sorprese, di Aqualung e Locomotive Breath appare del tutto prevedibile, quasi scontata. Una concessione al pubblico dei nostalgici, ma le emozioni latitano e – invece dei brividi lungo la schiena – si avverte solo un filo di rimpianto per una gloriosa stagione creativa ormai alle nostre spalle.

Enzo Boddi