Jazz & Wine of Peace, prima parte

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Jazz & Wine of Peace
Bill Frisell Harmony, foto Luca A. d'Agostino / Phocus Agency

Cormòns, Teatro Comunale; Gorizia, Teatro Verdi

23-27 ottobre

La XXII edizione di Jazz & Wine of Peace ha pienamente confermato la triplice vocazione del festival friulano: manifestazione multiculturale per collocazione geografica e retroterra storico; aperta a molte nuove proposte, con un occhio di riguardo anche per la ricerca; profondamente radicata nella bellezza paesaggistica del territorio del Collio (su ambo i versanti, friulano e sloveno) e legata ai prodotti enogastronomici locali. Questa edizione ha fatto registrare un ulteriore incremento di pubblico, con ampia rappresentanza di spettatori austriaci, sloveni, tedeschi e croati. Un pubblico attento e competente, in cui anno dopo anno si individua uno zoccolo duro di appassionati e fedeli frequentatori. I ventuno eventi in cartellone – alcuni dei quali volutamente programmati in concomitanza anche per offrire opzioni alternative – erano come sempre distribuiti fra i concerti serali al Teatro Comunale di Cormòns e quelli mattutini e pomeridiani presso cantine di aziende vinicole e ville prestigiose. Ovviamente gli eventi di maggior richiamo sono stati ospitati al Teatro Comunale di Cormòns e in un caso – il concerto di Dianne Reeves – al Teatro Verdi di Gorizia.

Jazz & Wine of Peace - Bill Frisell Harmony, foto di Luca A. D'Agostino / Phocus Agency
Bill Frisell Harmony, foto di Luca A. D’Agostino / Phocus Agency

Il progetto Harmony di Bill Frisell presuppone, appunto, armonia. L’introduzione con preziose armonizzazioni vocali e dinamiche rarefatte lasciava ben sperare in tal senso. Il problema è che l’operazione si appiattisce ben presto a causa del frequente ricorso a spunti desunti dalle radici del folk americano tanto care a Frisell, con richiami – è il caso di The End Of The World – addirittura a «Nashville». L’esile ed educata voce di Petra Haden, di estrazione country e popular, ben si adatta ad un disegno dal corto respiro che presto finisce per mostrare inevitabilmente la corda. Bravissimo nelle armonizzazioni vocali (dove è anche capace di riprodurre la parte del basso), Hank Roberts fornisce un apporto troppo limitato al violoncello, cui riserva solo rare impennate. Frisell è come sempre abilissimo nel dosare le timbriche, nel cesellare frasi essenziali e nel produrre capienti impianti armonici. Alla chitarra baritono Luke Bergman apporta un contributo essenzialmente ritmico, oltre ad arricchire con controcanti le armonizzazioni vocali. In una narrazione discontinua, ricca di echi country & western alla lunga un po’ stucchevoli, emergono alcune eccezioni. Prima la ripresa di Lonesome, da «Lookout For Hope», dove Petra Haden innesta vocalizzi all’unisono con la linea tematica. Quindi, un’intensa versione di Lush Life per sole voce e chitarra, distante da certi luoghi comuni jazzistici. Infine, un’inutile riproposizione di Space Oddity di David Bowie, del tutto fuori contesto. La conclusiva We Shall Overcome, con coinvolgimento canoro del pubblico, suona come un rito un po’ anacronistico, stantio, sostanzialmente utopistico. È auspicabile che Frisell e compagni approfondiscano questo lavoro sulle «recondite armonie» varando un repertorio più dinamico ed organico, magari arricchito da nuove composizioni originali.

Jazz & Wine of Peace - John McLaughlin ed Etienne M'Bappé, foto di Luca A. D'Agostino / Phocus Agency
John McLaughlin ed Etienne M’Bappé, foto di Luca A. D’Agostino / Phocus Agency

Da un chitarrista a un altro, da un’icona a un’altra. Con il consolidato quartetto 4th Dimension John McLaughlin si sforza di mettere a punto un non facile equilibrio tra composizioni storiche, addirittura risalenti alla gloriosa stagione della Mahavishnu Orchestra, e un repertorio recente costruito all’insegna di un jazz elettrico – o jazz rock che dir si voglia – robusto, dinamico ma giocoforza incasellato all’interno di determinati schemi e formule. Certamente non si colgono segnali della volontà di innovare, o quantomeno rielaborare, nelle versioni di brani del periodo Mahavishnu: Trilogy, da «Between Nothingness And Eternity», basata su un arpeggio ipnotico ma priva di quel gioco di chiamata e risposta modellato sulla tradizione indiana; Earth Ship, da «Visions Of The Emerald Beyond»; You Know, You Know, da «The Inner Mounting Flame», con il suo incedere felpato, dilatato, e i suoi strappi improvvisi. I pregi di 4th Dimension risiedono nella compattezza del collettivo, nell’implacabile precisione ritmica integrata dall’essenziale contributo di Gary Husband alle tastiere, alimentata dalle instancabili e fluide linee del bassista Etienne M’Bappé e resa fin troppo effervescente dall’impatto incisivo del batterista Ranjit Barot, che però agisce su una gamma dinamica limitata, spesso divertendosi a riprodurre figurazioni ritmiche precedentemente scandite dalla voce alla maniera dei tablisti indiani. Per parte sua McLaughlin scava negli impianti ritmico-armonici con il consueto fraseggio aguzzo, articolato e ricco di sfaccettature microtonali. Un set ben confezionato ed eseguito impeccabilmente, tuttavia lontano dalle emozioni e dagli spunti innovativi che un tempo la musica di McLaughlin suggeriva.

The Comet Is Coming, foto di Luciano Rossetti/Phocus Agency
The Comet Is Coming, foto di Luciano Rossetti/Phocus Agency

Il trio inglese The Comet Is Coming sembra essere diventato quasi un fenomeno di costume, viatico per veri e propri happening. Secondo un approccio – o filosofia che dir si voglia – onnicomprensivo, volto a cogliere e fagocitare espressioni delle musiche popolari del nostro tempo, il trio fa confluire in un calderone ribollente ed eterogeneo techno, house, dub, rock, r&b, drum’n’bass. Al che, qui cade completamente il presupposto – del tutto legittimo – che storicamente definisce il ruolo del jazz come musica capace di recepire e assorbire elementi e stimoli derivanti da altre forme. Perché? Semplicemente perché qui del jazz non c’è traccia. Noto per le collaborazioni con Alexander Hawkins e Louis Moholo-Moholo, il sassofonista Shabaka Hutchings sputa attraverso il suo tenore frasi ripetitive, ossessive, con timbriche espanse mediante l’elettronica. Il tastierista Dan Leavers produce un muro massiccio di suoni sintetizzati, mentre il batterista Max Hallett scandisce e macina ritmi monolitici, martellanti. Una concezione agonistica, muscolare del fare musica, un potenziale specchio per allodole. Se questi sono i contenuti del «nuovo jazz», e in particolare della nuova ondata del cosiddetto British Jazz, c’è poco da stare allegri.

Jazz & Wine of Peace - Dianne Reeves e Peter Martin, foto di Luca A. D'Agostino / Phocus Agency
Dianne Reeves e Peter Martin, foto di Luca A. D’Agostino / Phocus Agency

Ospite del Teatro Verdi di Gorizia in un insolito evento tardo pomeridiano, Dianne Reeves ha ribadito il suo magistero vocale, che la colloca tra le massime esponenti viventi del canto jazz. Alla testa di un consolidato quartetto – Romero Lubambo (chitarre), Peter Martin (piano, tastiera), Reginald Veal (contrabbasso, basso elettrico), Terreon Gully (batteria) – la cantante ha offerto un vasto repertorio comprendente standards, influenze afro-latine e popular, brani originali composti da Lubambo. La profonda conoscenza del Real Book, la capacità di produrre sfumature e dosare dinamiche, l’abilità narrativa si estrinsecano nelle versioni di Stella By Starlight e My Foolish Heart, enunciate su un tempo slow dilatato accarezzando, modulando e sussurrando sillabe o anche singoli fonemi. La naturale predisposizione a raccontare una storia si evidenzia anche in un’interpretazione tutt’altro che pedissequa di Susannah di Leonard Cohen. La vecchia passione per la musica latina, e brasiliana in particolare, si traduce in varie forme: gli impianti afrocubani degli arrangiamenti scritti da Lubambo e Martin; la resa vocale del tema di Minuano di Pat Metheny, dove emerge netta l’influenza di Milton Nascimento; la frizzante interazione con Lubambo su Aguas de março e – sempre rimanendo ancorati a Jobim – una splendida rielaborazione di Insensatez che prende vita da una lunga sequenza scandita da un ostinato del basso con arco. A proposito, oltre alla squisita musicalità di Lubambo, è proprio Veal a spiccare: non solo per la misura e la plasticità delle sue linee, ma anche per la rara capacità di utilizzare il basso elettrico con una discrezione tale da farlo assomigliare a un contrabbasso. Nel complesso, una lezione di stile e professionalità, accompagnata da un gusto raffinato.

Dave Holland, foto di Luca A. D'Agostino / Phocus Agency
Dave Holland, foto di Luca A. D’Agostino / Phocus Agency

Dopo gli eccellenti concerti italiani del 2018 e sulla scorta della recente pubblicazione di «Good Hope», il trio CrossCurrents si configura come un progetto ormai consolidato grazie a un invidiabile affiatamento e alimentato dalle molteplici e multiformi figurazioni ritmiche impostate dalle tabla di Zakir Hussain. Il percussionista imbastisce dei veri e propri impianti, dettando e suggerendo stimoli e segnali, e imprimendo cambi di direzione. Da un lato, questo favorisce la costruzione di plastiche architetture (ritmiche e melodiche) da parte di Dave Holland. Dall’altro, induce Chris Potter a disciplinare e rifinire ulteriormente il proprio fraseggio anche nei passaggi improvvisati. Come sempre Holland sciorina la sua maestria nell’articolare linee compiute, fondate su concatenazioni di una logica stringente, ineccepibile, con una cavata avvolgente e un suono nitido. Al tenore Potter evidenzia solide radici che affondano nell’humus della tradizione jazzistica, mentre al soprano sa esprimere inflessioni e sfumature timbriche che avvicinano lo strumento ad ance delle tradizioni indiana e mediorientale. Ormai CrossCurrents ha raggiunto una perfetta sintesi tra differenti modalità improvvisative riconducibili alle matrici jazzistica e classica indiana. Così facendo, il trio non corre il rischio di cadere nell’oleografico, nel folklorico, né tantomeno nella trappola di certa world music.

Enzo Boddi

(continua)