Jazz & Wine of Peace, Cormòns e altre località del Collio, 26-30 ottobre

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Gonzalo Rubalcaba Quartet

La XIX edizione di Jazz&Wine ha consolidato i suoi tratti fondanti: un carattere fortemente radicato nel territorio, data la distribuzione dei numerosi eventi in molte località del Collio, Slovenia compresa; una spiccata multiculturalità, in virtù sia della posizione di crocevia della zona, che della massiccia presenza di spettatori austriaci e sloveni.

Come di consueto, il Teatro Comunale di Cormòns ha ospitato gli eventi di maggior richiamo, mentre ville, tenute, aziende e cantine hanno offerto temi e spunti di notevole interesse, non senza alcune piacevoli sorprese.

Teatro Comunale, Cormòns (26-29 ottobre).

Il quartetto di Jan Garbarek

Il quartetto di Jan Garbarek rimane adagiato su clichés consolidati, se non addirittura cristallizzati. La splendida melodia della suite Molde Canticle può suscitare ancora qualche emozione. Allo stesso tempo, si apprezzano certi spunti melodici, purché non finiscano per avvitarsi su se stessi in schemi troppo ripetitivi. I momenti più felici coincidono con frammenti di matrice popolare (come il tema di Gula gula) e alcuni – purtroppo brevi – passaggi improvvisati: un duo tenore-percussioni, con rapide ascese sui sovracuti; un dialogo tra tabla e flauto etnico. La tendenza a spettacolarizzare l’evento si manifesta in alcuni soli totalmente svincolati dal contesto: inutilmente lunghi, narcisistici e sostanzialmente fini a se stessi, nei quali solo Trilok Gurtu emerge per creatività e gamma coloristica. Per contro Yuri Daniel e Rainer Brüninghaus confermano la loro caratura di onesti comprimari, nella circostanza smaniosi di dimostrare la propria preparazione tecnica. Quanto a Garbarek, l’inconfondibile timbro nasale del soprano ricurvo e del tenore, così come il sinuoso fraseggio, rimangono spesso ingabbiati in questa musica confezionata.

Rispetto al recente passato, il quartetto Aziza ha indirizzato la propria cifra su un terreno più sanguigno, viscerale, basato su grooves accattivanti e, in qualche caso, ammiccanti. Il nuovo indirizzo sembra il frutto di una gestione collettiva anche e soprattutto sul piano compositivo. Emergono come sempre il gusto architettonico e l’implacabile precisione di Dave Holland, ma in certi frangenti prevalgono gli orientamenti di Lionel Loueke e Chris Potter. Il primo – dotato di una gamma timbrica e di un fraseggio distintivi – risulta efficace solo quando costruisce i suoi percorsi su schemi poliritmici con sfumature che richiamano a tratti l’arpa kora. Il secondo si adagia un po’ troppo su riferimenti a Michael Brecker, a volte conditi da patterns. In questo contesto anche l’articolato e variegato drumming di Eric Harland finisce per essere limitato in certe gabbie e, in ultima analisi, sacrificato.

Aziza

In seguito alla pubblicazione di «Charlie», Gonzalo Rubalcaba recupera sostanza e spirito di alcune composizioni di Charlie Haden, nonché di alcuni brani altrui rivisitati dal contrabbassista. Il pianista cubano mantiene l’afflato solenne di First Song e Silence, o l’enfasi libertaria di La Pasionaria, tendendo alla sottrazione con efficace uso dello staccato e delle pause, e affidando al contralto di Will Vinson un ruolo di rifinitura. Negli sviluppi improvvisativi del piano emergono fraseggi scattanti e qualche isolata ridondanza, sostenuti da connotazioni afrocubane, come nel caso di Hermitage di Pat Metheny. La sintesi ideale si realizza comunque nell’esecuzione in trio di Blue In Green. Nelle costruzioni asciutte, nel suono corposo e nelle linee nitidamente scolpite Matt Brewer si dimostra degno erede di Haden, dando a Jeff Ballard l’opportunità di sfoggiare un vasto campionario di sottigliezze.

Proseguendo la sua ricognizione nell’ambito della musica popolare americana, con «When You Wish Upon A Star» Bill Frisell è approdato alle colonne sonore, operazione sulla carta rischiosa anche per le modalità esecutive. In trio con Thomas Morgan (cb.) e Rudy Royston (batt.), ma senza la viola di Eyvind Kang, Frisell sfrutta come nel disco la voce di Petra Haden. Lontana anni luce dal linguaggio jazzistico, dotata di una qualità vocale fragile, quasi infantile ma espressiva e penalizzata nella circostanza da un forte raffreddore, la figlia del grande Charlie ha affrontato con una certa efficacia Moon River, The Windmills Of Your Mind e il brano eponimo, apportandovi una componente a metà strada tra canzone e retroterra folk. Il trio crea raffinate e scintillanti dinamiche penetrando nei meandri di Lush Life e To Kill A Mockingbird, e facendo proprio il Morricone di Once Upon A Time In The West. Morgan e Royston predispongono percorsi scorrevoli su cui far fluire il fine lavoro di cesello di Frisell: il primo con intuizioni melodiche e capacità dialettiche, il secondo con figurazioni inventive e dinamiche delicate. Senza sprecare una nota, il chitarrista modella ogni frase con certosina meticolosità e grande pulizia timbrica anche quando ricorre agli effetti. Una piccola lezione di misura e poesia su un repertorio apparentemente scontato.

Villa Attems, Lucinico (27/10). Il trio Emile Parisien-Michele Rabbia-Roberto Negro palesa una poetica beneficamente influenzata dalla musica contemporanea del Novecento, evidente tanto nella profonda analisi e rielaborazione di Cantabile di Ligeti, quanto in certi procedimenti di matrice postweberniana che prevedono il graduale accumulo di cellule generate dalle preparazioni e dalla cordiera percossa del piano, dai suoni parassiti del soprano e da impulsi elettronici. Peraltro si riscontrano anche tracce di Satie nel procedere pianistico in staccato. La componente jazzistica emerge da alcuni richiami a Paul Bley e soprattutto dal processo improvvisativo, che si sviluppa attraverso dissonanze, sconfinamenti atonali, poliritmi prodotti dall’interazione tra il tocco percussivo di Negro e l’approccio fisico, “corporale” e assolutamente non convenzionale di Rabbia al suo set. Su questo impianto si innestano le esplorazioni oblique di Parisien, condotte con timbro aspro e impeto liberatorio. Ne scaturiscono contrasti timbrici fortissimi e alcuni ribollenti passaggi free, che ripropongono la contraddizione, e il conflitto, tra linguaggi storicizzati e la loro potenziale attualità.

Matinier – Ambrosini

Abbazia di Rosazzo (28/10). Jean-Louis Matinier e Marco Ambrosini dimostrano come praticare una forma di improvvisazione svincolata da matrici definite attraverso strumenti appartenenti alla tradizione popolare. Il primo è uno dei più raffinati solisti di fisarmonica; il secondo – provvisto di una formazione di violinista classico – è specialista di nyckelharpa, strumento ancora diffuso in Scandinavia, affine alla ghironda e dotato di corde melodiche e di risonanza. La loro interazione prende vita dalla pagina scritta, ma si sviluppa attraverso percorsi improvvisati su bordoni alimentati dal mantice, dall’arco o dal pizzicato, che riecheggiano la tradizione popolare, la musica antica, Gesualdo e Monteverdi. Il duo si colloca dunque in un’area frequentata da Michel Godard, Renaud Garcia-Fons e Michael Riessler, con i quali Matinier ha collaborato.

Tenuta di Angoris (28/10). Sulla scorta di un lavoro pubblicato sulla piattaforma nusica.org, Andrea Massaria e Bruce Ditmas affrontano alcune composizioni di Carla Bley secondo criteri ben distinti. I temi di Vashkar, And Now The Queen, Batterie vengono destrutturati e quasi nascosti all’interno di lunghe esplorazioni condotte dalla chitarra timbricamente distorta sul tappeto poliritmico della batteria. Per contro, la linea melodica di Ida Lupino viene parafrasata e scomposta mediante delicate dinamiche. Analogo procedimento viene applicato, con maggior fedeltà al dettato originale, ad Olhos de gato. Infine, Utviklingssang gode di un’atmosfera rarefatta, con note tenute, accordi sospesi e ampio uso del delay.

Villa di Toppo Florio, Buttrio (28/10). Il giovane e intraprendente quintetto Living Being di Vincent Peirani elabora spunti disparati con freschezza di idee, sulla base di pedali modali di ispirazione davisiana generati da una vitale ritmica: Tony Paeleman (Fender Rhodes), Julien Herné (b. el.) e Yoann Serra (batt.). Alle gustose composizioni originali si affiancano la creativa rivisitazione di frammenti di We See e Played Twice in Some Monk, l’up tempo vertiginoso di Mutinerie di Michel Portal e il crescendo di tensione lirica in Dream Brother di Jeff Buckley. Peirani mette in secondo piano le doti di virtuoso a favore del collettivo, intrecciando dense linee e producendo interessanti impasti timbrici con il soprano di Emile Parisien, protagonista di impetuosi assolo che scavano nel tessuto armonico evocando a tratti la poetica di David Liebman.

Kulturni Dom, Nova Gorica (29/10). Nel quartetto Made To Break Ken Vandermark convoglia e riprocessa molti elementi della natia Chicago: l’eredità dell’AACM, il rhythm’n’blues, l’avant rock. Ne risulta un impianto vitale, composito ma unitario, caratterizzato da lunghe esecuzioni senza soluzione di continuità animate da una carica ritmica impetuosa ma sempre controllata, con pochissimi riferimenti al free storico. In tale contesto, funzionalmente integrato dall’elettronica di Christof Kurzmann, l’improvvisazione sconfina raramente in aree aleatorie; piuttosto, si configura come composizione estemporanea. Al clarinetto Vandermark esibisce un totale controllo delle dinamiche anche nei passaggi più liberi, mentre il timbro infuocato e il fraseggio articolato del tenore producono un impatto paragonabile alla potenza di Albert Ayler e Pharoah Sanders. Sulla propulsione ritmica incalzante di Tim Daisy, il suo principale interlocutore è il basso elettrico di Jasper Stadhouders (un vecchio Rickenbacker), protagonista di dialoghi serrati con linee secche, icastiche e timbri grassi, sporcati.

Il duo Groove & Move – Pasquale Mirra e Gabriele Mitelli

Azienda Agricola Borgo San Daniele, Cormòns (29/10). Il duo Groove & Move – Pasquale Mirra (vib., perc.) e Gabriele Mitelli (tr., pocket trumpet, flic. sop., perc.) – opera con grande tensione creativa, secondo criteri di estemporaneità guidati da riferimenti ben precisi. Si colgono vaghe influenze di Leo Smith nel rapporto con spazio e silenzio, ma spesso il duo ripropone in versione europea (e contemporanea) la fertile interazione tra il Don Cherry e il Karl Berger di «Symphony For Improvisers» o «Eternal Rhythm». Il dialogo si dipana attraverso bordoni scaturiti dalla pocket trumpet o da una tromba preparata (con timbro affine a un didjeridoo), i colori ottenuti mediante un grande assortimento di piccole percussioni e la disposizione di vari materiali sulle lamine del vibrafono, fugaci citazioni di frammenti monkiani (Epistrophy e I Mean You). Nel caso di Mingus (Orange Was The Colour Of Her Dress) e del nume tutelare Cherry (Art Deco e Brown Rice) le allusioni si traducono in solidi appigli e punti di approdo di una feconda dialettica.

Vila Vipolže (29/10). Acclamato come nuovo talento della chitarra, Nir Felder si dimostra consapevole delle lezioni di tutti i grandi dello strumento, da Jim Hall a Kurt Rosenwinkel. Le sue composizioni evidenziano un deciso gusto melodico e rivelano anche un retroterra rock, soprattutto in virtù di una certa schematicità armonica. Gli assolo sono infarciti di stilemi e palesano procedimenti piuttosto monocordi, denunciando una standardizzazione stilistica di marca Berklee. Né aggiungono nulla alla piatta esibizione Orlando le Fleming (b. el.) e Jimmy MacBride (batt.).

Tenuta Villanova, Farra d’Isonzo (30/10). Forti della recente incisione di «Amiira» per la piattaforma Arjunamusic, Klaus Gesing (sop., cl. b.), Björn Meyer (b. el.) e Samuel Rohrer (batt.) compongono, tessera per tessera, raffinati mosaici mediante pedali sospesi su tempo libero e dinamiche variegate. Del resto, Rohrer evidenzia un approccio più tipico di un percussionista, in virtù delle molteplici opzioni coloristiche. Meyer trae una vasta gamma di timbri dallo strumento a sei corde attraverso pedali, arpeggi, note stoppate, effetti, tocchi percussivi sulle corde e sulla cassa armonica. Inoltre, le sue linee essenziali hanno una funzione equilibratrice nell’interplay del trio. Gesing privilegia una costruzione melodica per lento accumulo, recuperando a tratti suggestioni popolari, il che in qualche misura accomuna il suo lavoro alla poetica di John Surman.

Cantina Renato Keber, Zegla (30/10). All’inizio e per alcuni tratti della propria esibizione, São Paulo Underground sembrava voler officiare una sorta di rito sciamanico, con sonagli e nenie ripetitive, quasi per evocare certi spiriti o fenomeni di trance. Un procedimento del resto già applicato negli anni Sessanta e Settanta, con simboli e scopi ben precisi, dalla Sun Ra Arkestra e dall’Art Ensemble Of Chicago. Il trio non ha rinunciato a sviluppare le sue proverbiali, furibonde progressioni animate dai pulsanti bassi prodotti dai sintetizzatori analogici di Guilherme Granado e dalla batteria “tribale” di Mauricio Takara. Su queste tracce Rob Mazurek innesta le sue crepitanti sequenze di cornetta. Nella sua poetica risiedono lo spirito di Don Cherry, per il disegno melodico, e l’eredità di Lester Bowie, per certi graffianti timbri. Oltre agli ossessivi inserti vocali, la scansione degli eventi è contrassegnata da passaggi elettronici piuttosto pionieristici, se non addirittura ingenui. Più che un concerto, una rappresentazione svincolata, nel bene o nel male, da ogni cliché.

Enzo Boddi

Sao Paulo Underground: Mauricio Takara – Rob Mazurek – Guilherme Granado