Jazz & Wine of Peace, terza parte

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Daniele D'Agaro Ultramarine - Foto Luca A. D'Agostino / Phocus Agency

Varie località del Collio; Nova Gorica, Kulturni Dom

24-27 ottobre

Secondo un sano e consolidato costume, Jazz & Wine of Peace dedica una sostanziosa porzione del proprio programma a varie espressioni del jazz italiano, mettendo spesso in evidenza musicisti meritevoli di maggior visibilità e attingendo non di rado alle proposte provenienti dalla vitale (e culturalmente composita) scena friulana.

Il clarinettista Daniele D’Agaro figura senz’altro tra i musicisti di maggior spicco di quel fertile circuito. Forte di un’esperienza internazionale maturata in passato in Olanda e Germania, D’Agaro è anche membro di vari gruppi diretti dal geniale pianista Franco D’Andrea. Ultramarine è l’ultimo dei suoi progetti, ospite della Cantina Jermann di Ruttars e documentato dal Cd eponimo recentemente pubblicato dall’etichetta slovena Klopotec. Particolarissimo risulta l’assetto strumentale: ai suoi clarinetti (in Si bemolle, Mi bemolle e basso) D’Agaro ha affiancato le chitarre e il banjo di Denis Biason, e la marimba e il balafon di Luigi Vitale. Con un’originale intuizione ha poi aggiunto al trio Camillo Prosdocimo, formidabile imitatore del canto di vari uccelli, il cui inserimento (talvolta discrezionale) in certi punti strategici delle esecuzioni aggiunge colori e musicalità inediti. In questo contesto l’approccio di D’Agaro è molto più «naturalistico» che bucolico; in altre parole, tende al recupero di sonorità scaturite dal contatto fisico con legni e corde. Nonostante la presenza di strumenti di origine africana (a cui in un brano D’Agaro aggiunge la mbira, il piano a pollici), viene accuratamente evitato il rischio di cadere nell’etnicismo di maniera, o peggio nel finto folklore. Scrittura e improvvisazione vanno a braccetto nella progressiva sedimentazione di cellule, frasi e strutture mediante procedimenti che magari hanno più a che fare, almeno a tratti, con un certo camerismo di stampo europeo. In altri frangenti, si predilige un tempo fast, sul quale D’Agaro può esprimere appieno la potenzialità del suo fraseggio, fino al gioioso finale che evoca nettamente il dixieland, altro grande amore del clarinettista.

Daniele D’Agaro e Denis Biason – Foto di Luca A. D’Agostino / Phocus Agency

Friulani, per la precisione bisiachi, sono anche il pianista Giorgio Pacorig e la sassofonista-clarinettista Clarissa Durizzotto, titolari del Locomotive Duo, di scena alla Tenuta di Angoris, nei pressi di Cormòns. Come il nome stesso del duo suggerisce, uno dei riferimenti è Thelonious Monk: sia per l’inclusione in repertorio del brano omonimo e di Blue Monk, che per la tendenza a scavare nella struttura del blues da angolazioni e con procedimenti diversi. Pianista rigoroso e aperto anche all’improvvisazione totale, qui Pacorig è impegnato al Fender Rhodes, che – da vero specialista – tratta non alla stregua di una versione elettrica del piano, ma come uno strumento a sé stante, con una misurata varietà timbrica. Al clarinetto Durizzotto ha come riferimento irrinunciabile Tony Scott – del quale vengono riprese Sweet Pree e Nina’s Dance – per il ruolo innovativo a suo tempo svolto dall’italoamericano nello sviluppo del linguaggio dello strumento e per il marcato blues feeling. Al sax alto esibisce un linguaggio sanguigno, provvisto di un suono vetroso, a tratti tagliente, che le permette di affrontare senza timori reverenziali sia uno standard come Everything Happens To Me, che brani originariamente concepiti per tenore quali Lonnie’s Lament di John Coltrane e Black Narcissus di Joe Henderson. L’interazione tra Fender Rhodes e clarinetto esplora meticolosamente anche temi preziosi e poco rivisitati come Serenade To A Cuckoo di Roland Kirk e Conference Of The Birds di Dave Holland.

Locomotive Duo: Clarissa Durizzotto e Giorgio Pacorig: – Foto di Luciano Rossetti / Phocus Agency

Il concerto del sabato mattina, che come tutti gli anni si è svolto alla Kulturni Dom di Nova Gorica, ha visto la presenza dell’Area Open Project del pianista Patrizio Fariselli, membro originario degli Area. Per chi ha vissuto quella stagione esaltante è lecito porsi l’interrogativo se a distanza di quarant’anni sia opportuno riproporre quel nome e buona parte di quel repertorio. Tuttavia, quanto la musica di quel gruppo fosse innovativa e avanzata rispetto ai tempi (per la combinazione tra jazz rock, elettronica, tempi dispari di derivazione balcanica e vocalità sperimentale di matrice contemporanea), lo dimostra anche l’ascolto dell’Open Project. In questo contesto, a fronte dell’ampio uso del sintetizzatore, emerge a tratti l’anima più jazzistica del Fariselli pianista. Ad esempio, in alcune improvvisazioni condotte sul fluido swing della ritmica formata da Marco Micheli (basso elettrico) e Walter Paoli (batteria) all’interno di Giro girotondo; nella medley Elefante bianco/Gerontocrazia; o ancora nel break per solo piano incastonato in Luglio, agosto, settembre nero. Micheli e Paoli sostengono efficacemente gli indiavolati tempi dispari e pluricomposti, come nel caso di Cometa rossa. Inserire una voce in questo contesto comporta un inevitabile e scomodissimo parallelo con l’inarrivabile Demetrio Stratos. Cantante di formazione jazzistica, Claudia Tellini supera l’ostacolo riversando nei brani tutta la sua personalità, con autentico coinvolgimento emotivo e grande capacità narrativa: da brividi, ricca di pathos, la sua interpretazione del testo greco di Cometa rossa; evocativa l’intro vocale di Luglio, agosto, settembre nero; incisivo il recitativo sul funk di La mela di Odessa; abile e indolore l’approdo dal blues di And The Wind Cries Mary di Hendrix a Gioia e rivoluzione. Il messaggio politico dei vecchi Area si è probabilmente perso, ma la ricchezza e l’attualità dei contenuti musicali rimangono.

Area Open Project – Foto di Luca A. D’Agostino / Phocus Agency

All’Azienda Magnás di Cormòns si è esibito l’originale trio Malaika, capeggiato dal sassofonista Filippo Orefice e completato da Fabrizio Puglisi al piano e Marco D’Orlando alla batteria. All’inizio si assiste a una fase informale caratterizzata da soffiato, interventi sulla cordiera del piano, uso di oggettistica (giocattoli compresi, che Puglisi ama utilizzare per preparare il piano) e piccole percussioni. Questa aggregazione di cellule finisce per confluire in un impianto modale. Ben presto Puglisi amplia il discorso facendo trapelare radici monkiane per la capacità di segmentare e disarticolare il fraseggio, nonché elementi riconducibili a Cecil Taylor per il ricorso a clusters. E Monk appare, non a caso, più tardi in una versione di Criss Cross. Nelle proprie composizioni, così come nel fraseggio al tenore, Orefice reca alcune tracce di Ornette Coleman e una netta impronta di Dewey Redman, dal cui repertorio recupera opportunamente Mushi Mushi. Al clarinetto possiede quel timbro leggermente sporcato e denso di blues caratteristico di Tony Scott e Jimmy Giuffre. Sorprendente per gusto e creatività l’apporto del 25enne D’Orlando, abile nel disarticolare le figurazioni, nel dosare le dinamiche e nell’aggiungere colori. Il trio conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, la vitalità che contraddistingue certe frange del jazz italiano.

Filippo Orefice Malaika Trio – Foto di Luciano Rossetti / Phocus Agency

Alla Villa Codelli di Mossa il chitarrista Francesco Diodati ha riproposto il suo quintetto Yellow Squeeds, già documentato dall’etichetta Auand con «Flow, Home» e «Never The Same». Il quintetto è completato da giovani e brillanti musicisti: Francesco Lento (tromba), Glauco Benedetti (tuba), Enrico Zanisi (Fender Rhodes e sintetizzatore) ed Enrico Morello (batteria). Tanto nei temi, concisi e scattanti, quanto nelle esecuzioni prevale una concezione del collettivo che favorisce efficaci intrecci strumentali ed impasti timbrici, limitando all’essenziale gli spazi per gli assolo. Alcune composizioni sembrano risentire dell’influenza di Tim Berne (pur non possedendone il carattere corrosivo) per la configurazione geometrica dei temi e l’articolazione segmentata dell’impianto ritmico. In effetti, Diodati esibisce un fraseggio spigoloso, a tratti tagliente, dimostrando di essersi svincolato da certi modelli di riferimento e di saper usare all’occorrenza anche timbri «sporchi». Gli fa da degno contraltare Lento con pronuncia nitida e asciutto lirismo, mentre Zanisi con il Fender Rhodes e un sint analogico ha più che altro una funzione di raccordo e di arricchimento della gamma coloristica. Con la sua azione incessante Benedetti sostiene con precisione l’impianto ritmico, che Morello – tra i migliori batteristi in assoluto della nuova generazione – punteggia e integra con un ampio ventaglio di soluzioni.

Francesco Diodati – Foto di Luca A. D’Agostino / Phocus Agency

Ferma restando la crescente e appassionata partecipazione di un pubblico internazionale, già sottolineata nella prima parte di questo contributo, vale la pena di rimarcare che anche per questa XXII edizione di Jazz & Wine of Peace il Circolo Culturale Controtempo di Cormòns, organizzatore e animatore della manifestazione, ha centrato l’obiettivo, conducendo un’operazione culturale di diffusione non solo delle varie tendenze che animano il composito panorama jazzistico odierno, ma anche del ricco patrimonio del territorio del Collio.

Enzo Boddi