Jazz & Wine of Peace (seconda parte)

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Javier Girotto & Vince Abbracciante - Foto di Luca d’Agostino / Phocus Agency

Collio, varie sedi; Nova Gorica, Kulturni Dom

20-23 ottobre

Oltre ai concerti serali al Teatro Comunale di Cormòns, la XXV edizione di Jazz & Wine of Peace si è dipanata come di consueto attraverso molteplici eventi distribuiti nel territorio del Collio, senza ignorare la confinante Slovenia. Ennesima conferma della vocazione del festival, radicato profondamente in un’area per sua stessa natura crocevia di popoli e culture.

La Villa Attems di Lucinico ha ospitato un trittico di concerti che documentano tendenze disparate della scena americana attuale. Prodotto del circuito newyorkese, il quartetto Elder Ones – capeggiato dalla vocalist Amirtha Kidambi – fonde elettronica, tracce di musica carnatica riscontrabili nell’uso della voce e dell’armonium, pedali modali, passaggi informali. I testi di Kidambi affrontano temi come pace, movimenti per i diritti civili, proteste sociali, il dilagare dei nuovi fascismi. Tuttavia, i messaggi giungono confusi e affogati in un marasma sonoro reso ancor più caotico da esplosioni free in cui si privilegia troppo il forte e il fortissimo, irrimediabilmente compromesso da precari equilibri sonori. Tant’è vero che in molti frangenti voce, sax soprano (Alfredo Colon) e ritmica (Lester St. Louis al contrabbasso e Jason Nazary alla batteria) sembrano andare per proprio conto senza mai convergere.

Amirtha Kidambi & Elder Ones – Foto di Fabio Gamba / Phocus Agency

Tutt’altra musica è stata offerta dal trio Thumbscrew, formato da Mary Halvorson (chitarra), Michael Formanek (contrabbasso) e Tomas Fujiwara (batteria). La loro proposta si basa su temi molto articolati, a tratti spigolosi, sviluppati per linee parallele e rigorose, senza concessioni alla melodia. Prevalgono la propensione e la predilezione per l’uso di dinamiche sottili, l’asciuttezza del suono, la sintesi e la pregnanza formale. Non a caso, Halvorson possiede una timbrica e un fraseggio che a tratti evocano chitarristi degli albori del jazz moderno come Charlie Christian. Per contro, distorce e sporca il suono solo nei rari casi in cui la dialettica tra Formanek e Fujiwara si intensifica, facendosi sanguigna. Queste modalità vengono applicate anche all’arrangiamento di Orange Was The Colour Of Her Dress di Mingus, che prevede continui cambi metrici fino allo slittamento in una sezione informale, o a una versione di The Peacocks di Jimmy Rowles ricca di tinte tenui e poi gradualmente innervata di dissonanze. Thumbscrew è un trio che possiede una cifra e un’identità definite.

Thumbscrew – Foto di Luciano Rossetti / Phocus Agency

Il quartetto Sexmob è una collaudata formazione con la quale il trombettista Steven Bernstein applica da molti anni la sua poetica sfaccettata e scanzonata, all’insegna di un puro e intelligente divertimento. La dialettica tra la sua slide trumpet e il sax alto di Briggan Krauss, dal timbro aspro e corrosivo, risulta faconda e produttiva. La musica si snoda sul capace alveo ritmico (fonte di un groove implacabile) tracciato da Tony Scherr al contrabbasso, contrafforte potente e roccioso, e da Kenny Wollesen alla batteria, vera e propria miniera di invenzioni e figurazioni. Il quartetto sa creare un caleidoscopio sonoro in cui si succedono swing, funk, echi di New Orleans, Sign Of The Times di Prince, richiami a temi di colonne sonore (Amarcord di Nino Rota, Goldfinger di John Barry).

Steven Bernstein Sexmob – Foto di Luciano Rossetti / Phocus Agency

Il festival ha opportunamente dedicato un ampio spazio a parecchie interessanti proposte scaturite dalla scena jazzistica italiana. A cominciare dall’esibizione del quintetto Totem del contrabbassista Ferdinando Romano presso la cantina Jermann di Dolegna del Collio, evento programmato nella scorsa edizione, ma annullato giustamente all’ultimo momento per l’improvvisa scomparsa del video operatore Paolo Burato. Rispetto al disco eponimo pubblicato due anni fa, la formazione si è ridotta per la fuoriuscita del vibrafonista Nazareno Caputo. Le composizioni di Romano privilegiano costruzioni modulari, temi ad ampio respiro e insiemi ricchi e timbricamente ben assortiti, con impasti e contrappunti tra i sax alto e soprano di Gianluca Zanello (subentrato a Simone Alessandrini) e la tromba e il flicorno di Tommaso Jacoviello. Sulla solida intelaiatura costruita da Romano e dal batterista Giovanni Paolo Liguori il pianista Manuel Magrini – musicista in costante crescita – cuce trame armoniche essenziali e digressioni ricche di dissonanze, disarticolate ad arte, con un sostegno della mano sinistra che evoca Lennie Tristano e Paul Bley.

Ferdinando Romano Totem – Foto di Fabio Gamba / Phocus Agency

Al Castello di Spessa, presso Capriva del Friuli, Pericopes+1 (Alessandro Sgobbio, tastiere; Emiliano Vernizzi, sax tenore; Ruben Bellavia, batteria) ha confermato di essere una formazione del tutto in linea con i tempi, che nella propria cifra espressiva ha fatto confluire elementi ritmici e colori desunti anche da musiche altre, incluse quelle di consumo. La caratterizzano temi ben congegnati melodicamente, a tratti accattivanti, una certa qual segmentazione ritmica, foriera di efficaci incastri, l’apporto calibrato dell’elettronica, l’intelligente arrangiamento di Sultans Of Swing dei Dire Straits. La musica del trio potrebbe essere definita prodotto di una cultura post-industriale e della globalizzazione. Comunque sia, ne risultano esiti freschi e complessivamente piacevoli.

Pericopes+1- Foto di Luca d’Agostino / Phocus Agency

L’abbazia di Rosazzo ha ospitato nella sua splendida cornice architettonica ed acustica il duo Javier Girotto-Vince Abbracciante, recentemente protagonisti del bellissimo «Santuario», inciso per la Dodicilune. Titolo quanto mai consono all’occasione. I due hanno infatti eretto un vero e proprio santuario sonoro, fatto di spirali e volute disegnate dal soprano, dallo swing genuino e dalle sfumature prodotti dalla fisarmonica, nonché da sagaci linee contrappuntistiche. Dotato di un fraseggio e di un timbro ormai inconfondibili, che si inaspriscono e si strozzano sugli acuti, Girotto esprime un canto dolente e accorato, del tutto connaturato alle sue radici argentine. Per parte sua, Abbracciante si rivela interlocutore prolifico di intuizioni e solista creativo, tanto attento alle sue origini pugliesi quanto consapevole del linguaggio jazzistico.

Javier Girotto & Vince Abbracciante – Foto di Luciano Rossetti / Phocus Agency

Villa Codelli a Mossa è stata teatro dell’incontro tra il polistrumentista Gabriele Mitelli e gli inglesi John Edwards (contrabbasso) e Mark Sanders (batteria), recentemente documentato su «Three Tsuru Origami», inciso per la We Insist!. Accantonata momentaneamente l’elettronica. Mitelli si è immerso a briglia sciolta nel magmatico, tellurico flusso ritmico creato dai due colleghi inglesi, campioni dell’improvvisazione radicale. Ciò lo ha spronato a elaborare spericolati fraseggi alla tromba e alla pocket trumpet (memore di Don Cherry), grovigli ispidi e abrasivi al soprano ricurvo, con evidenti richiami a Roscoe Mitchell. Quando monta il bocchino del soprano sull’imboccatura della tromba, ne ottiene un suono simile a un clarinetto basso. L’aggiunta, nel brano finale, dell’ospite Daniele D’Agaro al soprano ha alimentato ulteriori scenari infuocati. Un set che, a dispetto dei rischi del già sentito, è apparso più che altro liberatorio.

Gabriele Mitelli – John Edwards – Mark Sanders – Daniele D’Agaro – Foto di Luca d’Agostino / Phocus Agency

Tra gli eventi di punta del festival, il concerto di Guantanamo alla Kulturni Dom di Nova Gorica ha confermato la lungimiranza e l’acume poliedrico di Fabrizio Puglisi. Con questa formazione il pianista catanese applica poliritmi, timbri e colori di matrice afrocubana a una vasta gamma di materiali, sia propri che altrui. Risulta felice la scelta di abbinare vibrafono (Pasquale Mirra) e marimba (Luca Valenza), il primo anche in chiave solistica, il secondo solo in funzione ritmica. Sfrondato da luoghi comuni e autocompiacimenti, l’impianto è completato da conga e percussioni (Danilo Mineo), batteria (Gaetano Alfonsi) e contrabbasso (Davide Lanzarini). Anche nel suo pianismo, di estrazione monkiana, Puglisi riversa un approccio fortemente ritmico, arricchito da block chords e fraseggi dalle linee spezzate. Nelle composizioni e negli arrangiamenti si fa anche un uso abbondante di dissonanze, con qualche traccia vagamente zappiana, di stratificazioni sulla base dell’ostinato e di timbriche variegate. Caratteristiche, queste, che conferiscono una nuova veste a Ezz-thetic di George Russell, Directions di Joe Zawinul e Un poco loco di Bud Powell.

FABRIZIO PUGLISI “GUANTANAMO”- Foto di Luca d’Agostino / Phocus Agency

Ospiti della Tenuta Villanova di Farra d’Isonzo, Camilla Battaglia e Rosa Brunello ricercano equilibri delicati, ma anche precari, tra voce e contrabbasso (o basso elettrico) da una parte; tra rivisitazione della forma canzone e sperimentazione, dall’altro. Può essere interessante e anche apprezzabile giocare sulla melodia o ricercare chiavi lettura angolate per canzoni di Fiona Apple, Tom Waits (Take Me Home, nella versione di Crystal Gayle), perfino Renato Zero (I migliori anni della nostra vita). Alla lunga, però, il procedimento risulta ripetitivo, l’effetto monocorde e si rimane a metà del guado.

Camilla Battaglia – Rosa Brunello – Foto di Luca d’Agostino / Phocus Agency

Molte aspettative erano state riposte nel progetto Fire!Italian Defeat, in programma al Nuovo Teatro Comunale di Gradisca d’Isonzo. Promosso dal Centro D’Arte di Padova e Area Sismica di Forlì, si proponeva come estensione del trio Fire! del sassofonista Mats Gustafsson, con Johan Bertling al basso elettrico e Andreas Werliin alla batteria, più un nutrito stuolo di musicisti svedesi e italiani: Goran Kajfeš (tromba), Mats Äleklint e Sebi Tramontana (tromboni), Zoe Pia (clarinetto e launeddas), Sara Ardizzoni (chitarra) e Fabrizio Puglisi (Fender Rhodes). Progetto più presunto che altro, data la clamorosa povertà di contenuti. Si è assistito a collettivi approssimativi, privi di sviluppi, confusi e balbettanti. Un retaggio ormai frusto del free, alimentato (si fa per dire) da ostinato ipnotici ed elementari figure iterative. Emergevano di tanto in tanto Gustafsson, con stilettate di flauto e roboanti squarci di sax baritono, Kajfeš con qualche ornamentazione, Pia con discutibili effetti applicati agli strumenti, qualche rara uscita dei trombonisti. Peccato vedere un esponente di spicco della musica improvvisata europea come Tramontana confinato, quasi emarginato, in un bailamme del genere. Musica senza identità, rimasticazione e rigurgito di abbozzi di idee.


Fire! Italian Defeat- Foto di Luciano Rossetti / Phocus Agency

In trio con Christopher Hoffman al violoncello elettrico e Max Jaffe alla batteria, James Brandon Lewis – protagonista del secondo concerto sloveno a Vila Vipolže – ha ribadito di possedere una cifra distinta, ben radicata nella tradizione del tenorismo moderno. Sonny Rollins per la potenza sonora, John Coltrane per il ricorso a pedali modali, tracce di Albert Ayler, Archie Shepp e Pharoah Sanders nei tratti più aspri del fraseggio, alcuni palesi richiami a David Murray nelle timbriche. Hoffman non agisce solo in funzione ritmica, ma si pone nella posizione di interlocutore del sassofonista. Jaffe interagisce contrastando e commentando senza invadere il campo. Come moderno interprete e continuatore della tradizione afroamericana, Brandon Lewis ha assorbito il soul, il funk, rende omaggio a Donny Hathaway. Compie poi una rapidissima ricognizione in solo citando frammenti di Body And Soul, My One And Only Love, Take The A Train, Over The Rainbow, Now’s The Time. Paga poi tributo doveroso a Ornette Coleman, sviscerando Broken Shadows, e traspone su un funky dilatato uno spiritual come Sometimes I Feel Like A Motherless Child. Sicuramente siamo al cospetto di uno dei giovani musicisti afroamericani più interessanti e problematici.

JAMES BRANDON LEWIS TRIO – Foto di Luca d’Agostino / Phocus Agency

Come negli ultimi anni Jazz & Wine of Peace ha proposto anche eventi collaterali nella rassegna Jazz & Taste, curata dal chitarrista Eduardo Contizanetti, che prevedeva brevi concerti accompagnati da degustazioni di vini e prodotti locali in alcune prestigiose cantine della zona. Un modo efficace per conciliare il diletto con il piacere e per favorire l’incontro tra persone di diverse nazionalità. Raggiunto il traguardo del quarto di secolo di vita, Jazz & Wine of Peace si colloca ormai tra i festival internazionali di maggior richiamo a livello europeo.

 

Enzo Boddi