Jazz & Wine of Peace, seconda parte

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Simone Zanchini. Antonello Salis: e il terzo incomodo, Foto Luca d'Agostino / Phocus Agency

Collio, varie sedi

23-24 ottobre

Un pregio, anzi, un vero e proprio valore aggiunto del festival Jazz & Wine of Peace è sempre stato il radicamento nel territorio del Collio attraverso la distribuzione degli eventi in auditorium e spazi ricavati all’interno di ville, edifici storici e aziende vinicole. Per questa XXIII edizione le rigorose misure adottate per contrastare la diffusione del Covid hanno drasticamente limitato, ma non impedito, la fruizione della musica in quei luoghi suggestivi.

Già utilizzata in precedenti edizioni, l’abbazia di Rosazzo – risalente all’XI secolo – è uno spazio che per sua stessa natura valorizza l’interazione tra strumenti e volumi architettonici. Nella circostanza l’abbazia ha ospitato il Duo Discantus, formato una ventina d’anni fa dal sassofonista e clarinettista Daniele D’Agaro e dall’organista Mauro Costantini. Il duo trae nome e ispirazione dal discanto, linea vocale a moto contrario tipica dei canti sacri polifonici medievali e anticipatrice del contrappunto. Il progetto prevede l’impiego di un organo a canne. Nella fattispecie, D’Agaro e Costantini hanno desunto materiali e spunti dai Discanti Aquileiesi del XIII secolo per costruirvi una serie di variazioni e improvvisazioni che rivelano un potenziale inaspettato. Lo documenta anche la recente pubblicazione per l’etichetta Controtempo di «Submersus jacet Pharao». Il piccolo organo a canne dell’abbazia possiede solo tre registri ed è pressoché privo di bassi. Tuttavia, Costantini ne ha sfruttato al massimo le risorse, spingendosi perfino oltre, percuotendone pareti e pedaliera, e facendolo swingare. Infatti, due delle variazioni sono significativamente intitolate If Cole Porter Had Been Born In Aquileia e Almost Gershwin. Al tenore D’Agaro esibisce un suono corposo e un soffiato radicati nell’eredità di Coleman Hawkins e Ben Webster, mentre al clarinetto basso e a quello in Mi bemolle conduce l’improvvisazione verso territori ora più impervi, ora impregnati di valenze etniche (impressione altrove rafforzata anche dall’uso di ocarina, kalimba, flautini e richiami).

Discantus: Daniele D’Agaro e Mauro Costantini, Foto Luca d’Agostino / Phocus Agency

L’auditorium collocato all’interno della splendida Villa Attems di Lucinico ha ospitato ben tre concerti in duo, il primo dei quali era quello formato dal violinista Théo Ceccaldi e dal pianista Roberto Negro, che purtroppo non possiamo documentare. Forti di una consolidata collaborazione, Gianluca Petrella e Pasquale Mirra seguono un percorso costellato di suggestioni etniche e richiami al minimalismo. Il disegno è anche riconducibile per sommi capi al Don Cherry di «Relativity Suite», «Organic Music Society» e «Brown Rice», ed è giustificato dalla stratificazione di sequenze iterative – costruite anche con l’ausilio dell’elettronica – che finiscono per costituire una solida base per l’improvvisazione. In particolare Mirra utilizza una Mallet Station, un dispositivo configurato – in dimensione ridotta – come uno strumento a lamine, capace di riprodurre il suono di marimba, xilofono, balafon e glockenspiel. In tal modo, il vibrafonista può far interagire il proprio strumento con questo supporto in modo da creare interessanti combinazioni timbriche. Per parte sua, Petrella esibisce come sempre un vocabolario ampio e sfaccettato, che spazia da Kid Ory e Jack Teagarden agli ellingtoniani, da J.J. Johnson a Roswell Rudd. Una gamma che i marchingegni elettronici non arricchiscono più di tanto. Anche in virtù di queste considerazioni, sarebbe interessante poter ascoltare questi due grandi musicisti impegnati esclusivamente sui propri strumenti.

Gianluca Petrella e Pasquale Mirra, Foto Luca d’Agostino / Phocus Agency

Una carica esplosiva di energia, il piacere autentico di far musica e una feconda interazione scaturiscono dal duo Simone Zanchini-Antonello Salis. La loro inarrestabile vena creativa dimostra come uno strumento di estrazione essenzialmente popolare quale la fisarmonica può assumere una veste squisitamente jazzistica e divenire un veicolo efficace di torrenziali improvvisazioni. Qualsiasi tipo di materiale venga trattato, diventa automaticamente un utile pretesto per gustose invenzioni che spontaneamente conducono in altre direzioni, indipendentemente dal fatto che i due prendano spunto da frammenti tematici di noti standards (Caravan, Sweet Georgia Brown, Someday My Prince Will Come), affrontino temi di Morricone o attingano alla musica popolare. Un valore aggiunto è dato dall’ambivalenza di Salis che, quando siede al piano, spariglia spesso le carte con il suo approccio percussivo, con il suo modo assolutamente personale di «maltrattare» la tastiera con clusters e rapide scorribande, con il repertorio di catene, giocattoli e altri oggetti che ogni tanto colloca sulla cordiera dello strumento per snaturarne il suono. Niente di gratuito o fumosamente sperimentale. Piuttosto, una giocosa divagazione, parte integrante di un set eseguito senza soluzione di continuità all’insegna del puro godimento.


Simone Zanchini: e Antonello Salis:, foto Luca d’Agostino / Phocus Agency © 2020

Ospite dell’Azienda Agricola Magnás di Cormòns, Gabriele Mitelli ha presentato il suo ultimo lavoro «The World Behind The Skin», registrato per l’etichetta We Insist!. Il polistrumentista bresciano è senz’altro tra i musicisti più intraprendenti e creativi della scena nazionale. A 32 anni ha già all’attivo alcuni propri progetti, così come importanti collaborazioni internazionali come quella con il trombettista Rob Mazurek. Tuttavia, nella circostanza la sua esibizione in solo ha destato qualche perplessità, producendo anche la sensazione del già sentito. In altre parole, Mitelli si è fin troppo concentrato sul suo armamentario elettronico per creare lunghe sequenze ipnotiche e loops, o filtrare la voce e delle piccole percussioni come le campane tibetane. Tant’è vero che a tratti gli interventi di pocket trumpet, con evidenti riferimenti a Don Cherry, al soprano ricurvo (i cui tratti spigolosi richiamavano Roscoe Mitchell e Anthony Braxton) e al flicorno contralto finivano quasi per figurare come un riempitivo – più che un contraltare – di quel magma sonoro.

Gabriele Mitelli “The world behind the skin”, Foto Luca d’Agostino / Phocus Agency

La villa Nachini Cabassi di Corno di Rosazzo è stata teatro dell’esibizione del quartetto Young Shouts guidato da Silvia Bolognesi. Nel gruppo la contrabbassista ha riunito tre giovani talenti da lei coltivati nell’ambito dei seminari di Siena Jazz: Emanuele Marsico (tromba e voce), Attilio Sepe (sax alto) e Sergio Bolognesi (batteria). Gran parte del repertorio eseguito per l’occasione era tratto da «aLive Shouts», edito dall’etichetta Fonterossa gestita dalla stessa Bolognesi. Il Cd contiene rielaborazioni di brani desunti dal repertorio della folksinger afroamericana Bessie Jones, che l’etnomusicologo Alan Lomax era riuscito a documentare nelle sue registrazioni. Brani originariamente a cappella, su cui Bolognesi ha costruito un tessuto denso di blues e di quella pulsione nera che appartiene tanto al suo approccio allo strumento, quanto al circuito di Chicago da lei frequentato. Un’esperienza che l’ha portata a divenire membro della recente edizione dell’Art Ensemble diretta da Roscoe Mitchell. Le esecuzioni del quartetto poggiano su strutture modali scarne ma potenti al tempo stesso, che costituiscono l’intelaiatura di temi concisi enunciati da alto e tromba con sagaci linee contrappuntistiche, e che prevedono brevi ma pregnanti inserti vocali affidati a Marsico, in possesso di una dizione nitida e di un portato espressivo sorprendente. Lo si potrebbe definire «nero dentro», tanto da risultare credibile perfino nell’esecuzione di un rap. Bolognesi palesa una stupefacente energia nel guidare il quartetto mediante linee fluide, avvolgenti, dotate di uno swing possente e di un suono scuro, corposo: il vero motore delle esecuzioni. Tutte queste caratteristiche si riscontrano puntualmente anche nei brani di nuova creazione: grande musica afroamericana composta, arrangiata ed eseguita da una senese, un pisano e due campani. Quanto al magistero di Bolognesi, basti segnalare l’introduzione in solo di Dyani, dedicato al contrabbassista Johnny Dyani, uno dei grandi musicisti sudafricani espatriati in Inghilterra durante l’apartheid e scomparso prematuramente nel 1986 a 41 anni: un’esecuzione da brividi, in una simbiosi fisica con lo strumento.

Silvia Bolognesi Young Shouts, Foto Luca d’Agostino / Phocus Agency

La XXIII edizione di Jazz & Wine of Peace si è conclusa il 25 ottobre, paradossalmente (e fortunatamente) a poche ore dall’entrata in vigore del decreto governativo che ha immotivatamente imposto la chiusura di teatri e cinema. I membri del Circolo Culturale Controtempo, responsabile dell’organizzazione, possono ben dirsi soddisfatti e anche orgogliosi di essere riusciti ad allestire un programma di elevato livello nel pieno rispetto delle regole e dei protocolli. Solo in questo modo, anche in tempi così grami, si promuove la cultura e si combatte la paura.

Thermo Scanners in azione, Foto Luca d’Agostino / Phocus Agency

Enzo Boddi