Jazz & Wine of Peace 2021, seconda parte

Il festival friulano ha chiuso la XXIV edizione con molte belle sorprese e un bilancio lusinghiero

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Foto © 2021 Luca d’Agostino / Phocus Agency

Cormòns, Teatro Comunale

Collio, varie sedi

Vila Vipolže

24-25 ottobre

Densa di eventi, la seconda parte di Jazz & Wine of Peace ha confermato la vocazione del festival friulano per proposte di alta qualità artistica, unitamente all’attenzione per la scena europea e per le nuove leve italiane, emergenti o addirittura già emerse, ma comunque meritevoli della giusta considerazione.

È il caso del violinista Emanuele Parrini, ospite con il suo quartetto della Villa Codelli di Mossa. Forte delle passate esperienze con l’Instabile Orchestra e i Nexus di Tiziano Tononi e Daniele Cavallanti, Parrini ha maturato una cifra ben definita che, pur nel rispetto di una certa libertà per gli interpreti, non lascia nulla al caso. Le composizioni sono caratterizzate da frequenti cambi d’atmosfera con relative variazioni metriche intervallate da passaggi su tempo libero, contrappunti tra violino e sax baritono o flauto (Beppe Scardino), efficaci impasti tra i suddetti strumenti e il basso con arco di Giovanni Maier, che poi genera solide architetture con il suo poderoso pizzicato. Inoltre, nella struttura di alcuni temi e nello svolgimento di certe asciutte melodie si colgono echi popolari. Parrini non è un virtuoso in senso classico. Piuttosto, ama spingere il violino oltre i suoi limiti timbrici, sporcando il suono ad arte e producendo fraseggi taglienti come lame. Inevitabile sotto questo aspetto risulta – fatte le debite proporzioni –  l’associazione con la poetica di Leroy Jenkins. Solo in Azure di Duke Ellington riemerge il suo antico amore per Stéphane Grappelli. Negli spazi a lui riservati, Scardino è portatore di un afflato melodico scarno e, al tempo stesso, di un elemento viscerale. Il batterista Andrea Melani sottolinea e punteggia il lavoro dei colleghi con elevata capacità di ascolto e abile dosaggio di dinamiche e timbriche.

Il quartetto di Emanuele Parrini – Foto © 2021 Luca d’Agostino / Phocus Agency

La splendida Vila Vipolže è stata teatro della performance solistica dell’81enne Ralph Towner. Ascoltarlo e vederlo dal vivo, e in solitudine, è come assistere all’opera di uno scultore o di un intarsiatore, tanto fine è il lavoro del chitarrista americano. Chino sullo strumento, Towner costruisce delicate sequenze armoniche alternate a fraseggi preziosi come ceselli con un’invidiabile nitidezza di tocco e un suono di purezza cristallina. Autentiche gemme e tratti del resto distintivi di uno stile inconfondibile. In altre parole, una perfetta sintesi di raffinatezza armonica, sagaci spunti melodici, retroterra colto, sensibilità jazzistica, spazi destinati all’improvvisazione e unità formale. Tutti elementi che emergono distintamente sia dalle composizioni originali (Anthem fra tutte) che dal trattamento riservato a un paio di vecchi standards. Make Someone Happy di Jule Styne è letteralmente rivitalizzata grazie a una robusta intelaiatura latina, tanto da indurre un parallelo con Egberto Gismonti. Da Little Old Lady, scritta da Hoagy Carmichael e interpretata nel 1936 dai Mills Brothers, Towner trae il nucleo tematico rivestendolo poi di preziose variazioni. Un maestro indiscusso, la cui brillantezza non è stata minimamente scalfita dall’età.

Ralph Towner – Foto © 2021 Luca d’Agostino / Phocus Agency

A proposito di vecchi leoni, il batterista Daniel Humair (classe 1938) si è presentato alla Villa Attems di Lucinico insieme ai connazionali Heiri Känzig (contrabbasso) e Samuel Blaser (trombone), con i quali forma il trio Helveticus. Humair non si riposa certo sugli allori di una pluridecorata carriera. Anzi, sprizza energia e creatività da tutti i pori dall’alto di un magistero affermato già negli anni Sessanta. Questo trio paritetico veicola e attualizza un approccio all’improvvisazione di impronta nettamente europea, svincolato dall’adesione alla matrice afroamericana. Questo dato è tangibile tanto nei passaggi informali contraddistinti da tempi liberi, glissando di trombone e archettato del contrabbasso (sequenze che si tramutano in un viatico per la costruzione di una dialettica interna), quanto nella rielaborazione di temi desunti dalla tradizione di New Orleans, ma sottoposti a un trattamento degno della miglior scena olandese. Willem Breuker, Han Bennink e Misha Mengelberg avrebbero probabilmente apprezzato l’interpretazione di High Society e Dixieland Jass Band One-Step: disinibita, libera da gabbie ritmiche, innervata di connotati cabarettistici alla Kurt Weill. A dimostrazione, se fosse necessario, del legame non casuale tra New Orleans e free: area nella quale il trio ama avventurarsi, seppur in punta di piedi. Basti pensare alla gioiosa improvvisazione scaturita dall’ironica esposizione dell’inno nazionale svizzero; ai poderosi pedali di Känzig, protagonista di un assolo di impressionante potenza; all’ampia gamma di soluzioni timbriche messe a punto da Blaser, che sembra aver ripreso e sviluppato le miglior intuizioni di Albert Mangelsdorff e Ray Anderson.

Il trio Helveticus – Foto © 2021 Luca d’Agostino / Phocus Agency

Altra formazione svizzera, il quartetto Ronin del pianista e tastierista Nik Bärtsch gode di una consolidata reputazione, soprattutto dopo essere entrato negli ultimi quindici anni nell’orbita della prestigiosa ECM. Zen Funk e Ritual Groove Music sono le fumose etichette attribuite alla musica di questo gruppo. Fumose come le profumate nuvolette che ne avvolgono l’esibizione, suscitando subito qualche perplessità. Le lunghe esecuzioni, talvolta senza soluzione di continuità, sono contraddistinte dalla stratificazione di figure ritmiche e frasi iterative, per le quali non è comunque il caso di scomodare paralleli con il minimalismo di Philip Glass o Steve Reich. Infatti, salvo rari e brevi passaggi più rarefatti e timbricamente vari, si ha la netta impressione (per non dire la certezza) di essere al cospetto di un prodotto ben confezionato. Il bassista Jeremias Keller e il batterista Kaspar Rast sono spesso confinati in gabbie ritmiche claustrofobiche, mentre Sha (pseudonimo di Stefan Haslebacher) ripete al clarinetto basso o al sax alto sempre le solite, scarne frasi fatte di note lunghe. Senza un sussulto, senza un’invenzione, senza mai rompere gli schemi. In altre parole, un pop sofisticato (nella peggiore accezione del termine) e solipsistico. Con tutto il dovuto rispetto per l’enorme contributo dato dalla ECM al jazz e alla musica europea in senso lato, qui sorge il fiero dubbio che il produttore Manfred Eicher abbia preso un grosso granchio.

Nik Bärtsch & Ronin – Foto © 2021 Luca d’Agostino / Phocus Agency

Quanto invece siano prolifiche e creative le scene friulana e slovena lo hanno dimostrato due gruppi apprezzati nella giornata conclusiva. Presso la Tenuta Villanova di Farra d’Isonzo il Dalaitrioo ha presentato un progetto ideato dal batterista Emanuel Donadelli e dedicato al noir nella letteratura e nel cinema. L’assetto del gruppo – comprendente Mirko Cisilino (trombone e tromba) e Marzio Tomada (contrabbasso) – è abbastanza insolito e ricalca quello di BassDrumBone, memorabile trio americano formato da Ray Anderson, Mark Helias e Gerry Hemingway. Il parallelo non è campato in aria, dato il rigore con cui i tre friulani affrontano il compito. Ai lunghi e possenti pedali e agli ostinato di Tomada Donadelli contrappone figurazioni variegate con un buon controllo delle dinamiche. Altrove i due si avventurano con profitto in sezioni su tempo libero. Cisilino si cimenta al trombone (suo secondo strumento) con un fraseggio riccamente articolato e un’apprezzabile gamma timbrica ed espressiva, che mette anche al servizio di densi unisoni e impasti con il contrabbasso. Quando passa alla tromba, da una parte ricerca l’essenzialità e la capacità dialettica già messe brillantemente in mostra nel trio New Things di Franco D’Andrea; dall’altra, compie progressioni brucianti e impennate vigorose, confermando una piena e proficua crescita.

Dalaitrioo – Foto © 2021 Luca d’Agostino / Phocus Agency

Il clima cooperativo e i continui scambi tra Italia e Slovenia, del resto inevitabili e auspicabili in un territorio di confine, sono stati ben esemplificati dall’esibizione alla Villa Codelli di Mossa del quintetto There Be Monsters, composto da Boštian Simon (sax tenore), Mirko Cisilino (tromba), Luigi Vitale (vibrafono e balafon), Goran Krmac (tuba) e Bojan Krhlanko (batteria). La musica del quintetto scaturisce da articolate costruzioni e stratificazioni ritmiche che si dipanano attraverso una varietà di metri, rivelando palesi influenze africane ancor più evidenti laddove Vitale – molto efficace nelle sue aperture e digressioni al vibrafono – opera al balafon. La dialettica tra tenore e tromba è incisiva e proficua tanto negli unisoni e nei contrappunti, quanto in certi scambi serrati. Simon possiede un eloquio ben congegnato e scorrevole, e una voce che a tratti può evocare ora Joe Henderson, ora Archie Shepp. Cisilino esibisce una nitidezza di fraseggio e un fuoco creativo che sembrano richiamare riferimenti autorevoli: da una parte Freddie Hubbard, dall’altra Woody Shaw. Krmac gioca un ruolo fondamentale sia nell’allestimento dell’impianto ritmico che nella creazione di bordoni e combinazioni timbriche.

Il quintetto There Be Monsters – Foto © 2021 Luca d’Agostino / Phocus Agency

Il concerto conclusivo al Comunale di Cormòns è stato affidato al trio scandinavo Rymden, formato dal norvegese Bugge Wesseltoft (piano, Fender Rhodes, sintetizzatore) e dagli svedesi Dan Berglund (contrabbasso) e Magnus Öström (batteria). Il trio vive dell’equilibrio tra il pianismo a tratti impressionistico e l’inclinazione per l’elettronica di Wesseltoft, da una parte, e la coesione e la simbiosi tra Berglund e Öström (favorite dai lunghi anni trascorsi col compianto pianista Esbjörn Svensson nel trio E.S.T.), dall’altra. Le lunghe esecuzioni prendono spesso l’abbrivio da atmosfere rarefatte e si sviluppano attraverso groove costruiti con gradualità. Oppure, sono animate da progressioni torrenziali, a tratti ossessive, specialmente quando sono sostenute da scansioni più affini al rock. In particolare in questi frangenti emerge la capacità di Wesseltoft di valorizzare le risorse timbriche del Fender Rhodes con un piglio sperimentale (un po’ alla maniera dello Herbie Hancock di «Mwandishi» e «Crossings») e di sfruttare al meglio l’elettronica con scorribande frenetiche al sintetizzatore, evitando orpelli ed effetti pacchiani. In definitiva, nell’azione del trio prevalgono la varietà espressiva e la ricerca timbrica. Berglund rafforza di tanto in tanto la sua profonda cavata con gli effetti ottenuti tramite una pedaliera e produce linee avvolgenti con l’arco. Öström trae timbri inconsueti anche dalle superfici recondite del suo set, aggiungendovi piccole percussioni. In conclusione, non è fuori luogo considerare questo trio come la logica evoluzione di «New Conceptions of Jazz» di Wesseltoft e di «Leucocyte», l’ultimo album di E.S.T..

RYMDEN – Bugge Wesseltoft: piano, tastiere; Dan Berglund: contrabbasso; Magnus Öström: batteria – Foto © 2021 Luca d’Agostino / Phocus Agency

La XXIV edizione di Jazz & Wine of Peace ha dunque offerto molti elementi di riflessione grazie ai trenta eventi in programma e ha fatto registrare un ritorno pressoché totale alla normalità, almeno in termini di presenze: 5000 spettatori, dei quali una buona metà erano austriaci. Anche sotto questo aspetto il festival friulano ha pienamente confermato la natura e la vocazione di manifestazione di frontiera.

In chiusura, bisogna doverosamente soffermarsi su una nota triste. Il 22 ottobre, durante lo svolgimento del festival, è purtroppo scomparso a soli 65 anni, stroncato da un arresto cardiaco, il videomaker veneziano Paolo Burato. Professionista appassionato e competente, Paolo seguiva da molti anni il festival. Chi scrive lo ha conosciuto come persona sempre gentile, discreta e affabile. Ci mancherà.

 

Enzo Boddi