Jaco Pastorius raccontato da Peter Erskine

La Resonance pubblica su lp e cd lo storico concerto newyorkese della Word Of Mouth del famoso bassista. Il produttore dell’album Zev Feldman ne parla con Peter Erskine, tra i protagonisti del concerto

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jaco pastorius

Non è stato facile portare a termine la pubblicazione di questo album. Ci sono voluti oltre sei anni per concludere le operazioni, ma noi della Resonance eravamo decisi a farcela. Molte altre etichette, davanti alla complessità di una simile impresa, avrebbero forse gettato la spugna, ma noi eravamo fermamente convinti che questa fantastica registrazione di Jaco Pastorius con la versione newyorkese della Word Of Mouth Big Band, più Toots Thielemans come special guest, fosse un oggetto prezioso. E, come tale, meritasse di essere trattato con la massima attenzione e sensibilità, ma soprattutto con pazienza estrema.

Un fantastico concerto del 1982, con Jaco e la big band in stato di grazia

La storia della pubblicazione di questo album inizia nel 2011, quando il leggendario Michael Cuscuna ci presentò a Tim Owens, produttore del programma della NPR Jazz Alive!, che dal 1977 al 1983 aveva presentato il miglior jazz dell’epoca e ottenuto una grande quantità di riconoscimenti. Una parte del concerto della Word Of Mouth che pubblichiamo in questo disco era già stata trasmessa in una puntata di Jazz Alive! In seguito, un estratto di quella serata finì in maniera illecita su YouTube, ovviamente con una pessima qualità audio, ma il concerto completo – così come lo pubblichiamo oggi – non era mai stato ascoltato da nessuno. Oltre 45 minuti totalmente inediti, mai mandati in onda neanche dalla NPR. Così, grazie a Michael, incontrai per la prima volta Tim Owens a Santa Barbara. Durante il pranzo, Tim mi disse che era stato lui il produttore radiofonico di un concerto newyorkese della Word Of Mouth di Jaco Pastorius , che risaliva al 1982. Da lì è iniziato tutto. È stato un viaggio lungo e incredibile, e se abbiamo portato a casa il risultato è solo grazie agli sforzi di George Klabin, il proprietario della Resonance, e dei co-produttori John Koenig e Zak Shelby-Szyszko, senza dimenticare le brillanti intuizioni grafiche di Burton Yount.

jaco pastorius
La copertina dell’album (distribuito da IRD e disponibile in lp e cd) che pubblica per la prima volta la registrazione integrale del concerto newyorkese della Word Of Mouth.

Ma adesso lasciamo la parola a Peter Erskine, uno dei protagonisti di quella serata.

Come sei finito a suonare con Jaco nei Weather Report?
Uno degli aspetti interessanti di questo disco è che ci suoniamo io, Jaco e il trombettista Ron Tooley. Io e Ron eravamo assieme nella big band di Maynard Ferguson, ed è grazie a lui che ho conosciuto Jaco, che mi ha sentito suonare e mi ha consigliato a Joe Zawinul e Wayne Shorter per i Weather Report. Con l’orchestra di Maynard avevamo un ingaggio in Florida; Ron chiamò a casa di Jaco con l’intenzione di lasciargli un messaggio, ma sorprendentemente Jaco rispose al telefono. Dopo i convenevoli di rito, Ron lo invitò al nostro concerto, ma Jaco rispose chi aveva già sentito la band l’ultima volta che era passata di lì. «Sì, ma abbiamo un nuovo batterista che faresti bene ad ascoltare», disse Ron. E Jaco accettò.

Ero un fan di Jaco, come tutti quelli che avevano sentito il suo primo album da leader. L’impressione era netta: quel nome così poco comune, l’aspetto, il ritratto in bianco e nero che ti guardava dritto in faccia se tenevi il disco in mano. Tutto quanto aveva un’aria molto europea. Sofisticata. Diciamo che era una sorta di proclama. Di conseguenza, non mi aspettavo certo il Jaco che mi ritrovai davanti nell’incontrarlo di persona. Durante l’intervallo, Ron Tooley si era messo a parlare con qualcuno, e aveva la tromba sottobraccio con il bocchino rivolto all’indietro. Così mi avvicinai di soppiatto e gli soffiai nello strumento, un gesto che non è mai bello fare. Lui rimase un po’ interdetto – lì per lì non sembrava contento – ma poi mi riconobbe. «Ehi, Peter, sei tu! Ecco, questo è Jaco Pastorius». Io alzai lo sguardo e vidi un tipo con una camicia a righe abbottonata fino in cima e con un paio di occhiali assurdi che sembravano quelli che ti danno sotto le armi. Aveva i capelli lunghi e sporchi e un cappellino da baseball dei Philadelphia Phillies. Così, quando Ron mi invitò a salutarlo, io lo guardai e dissi: «’sti cazzi….»

Jaco fu cordiale. Chiacchierammo per un po’ e alla fine mi congedai perché dovevamo iniziare a suonare. Mentre mi allontanavo, Jaco mi disse una cosa che nessuno mi aveva mai detto prima. «Ehi, amico, vedi di spassartela». Non «Buon concerto». No: «Vedi di spassartela». E così andò. Sapevo che Jaco mi stava ascoltando, ma me la spassai lo stesso. Non ero nervoso e neanche a disagio, ed evidentemente lui percepì qualcosa nel mio stile che lo spinse a raccomandarmi per entrare nei Weather Report. Tutto grazie a Ron Tooley.

Quando hai suonato con Jaco per la prima volta? E com’è stato?
Ne parlo nel mio libro, No Beethoven. Leggilo, vale la pena. Comunque, i WR mi avevano pagato un volo per Los Angeles e io già meditavo di riuscire a incontrare Jaco quella sera stessa. Solo che in albergo non c’era modo di trovarlo. Lui mi aveva consigliato di scendere nel suo stesso hotel, ovvero il Sunset Marquis, poco lontano dal Roxy. Difatti in quel momento era proprio al Roxy perché ci stava suonando Billy Cobham: la CBS aveva organizzato una serata di presentazione del nuovo album di Billy, e Jaco era seduto in prima fila con altri artisti dell’etichetta, tra cui Stanley Clarke. Il giorno dopo, nel raccontarmi com’era finito lì, mi disse che durante un assolo di batteria lui e Stanley si erano messi a tirare addosso a Billy acini d’uva, noci e così via, cercando di colpire le bacchette in movimento. Al momento mi era sembrata una gigantesca balla, ma qualche anno fa mi imbattei in Stanley e gli dissi: «Sai, Jaco mi ha raccontato che…» e lui rispose: «Certo che è vero. Gli abbiamo tirato addosso di tutto, a Billy, durante il suo assolo».

Così quella sera non riuscii a incontrare Jaco. La mattina dopo, decisi di raggiungere a piedi la sala prove, che tra una cosa e l’altra era a tre, quattro chilometri di distanza, all’incrocio tra il Santa Monica Boulevard e Vine Street. Certo, sarei arrivato in anticipo, ma avevo una batteria nuova e volevo sistemare tutto al meglio. I tecnici erano già lì e mi presentai. Gente simpatica. Iniziammo a montare la batteria e uno dei responsabili dello studio venne a dirmi: «Hanno appena chiamato quelli della band, ritarderanno un paio d’ore». Trascorse quelle due ore, riappare il tizio e mi fa: «Scusa, ma pare che ce ne vorranno altre due». La prova doveva iniziare tra l’una e le due, e invece alle sette eravamo ancora lì. Io stavo morendo di noia. Alla fine si aprì la porta, ed eccoli tutti e tre. Wayne sorrideva, con aria cordiale. Zawinul, che aveva in bocca una canna spenta da chissà quanto, mi lanciò un’occhiataccia e mi strinse la mano. Non era uno sguardo di approvazione né di disapprovazione, soltanto insospettito. Jaco mi salutò con un cenno, sorrise e filò via. Non avevo la minima idea di cosa stesse succedendo.

Se Zawinul, Shorter e Jaco si fossero fatti vivi nel primo pomeriggio, avrei aspettato che mi chiedessero loro di cominciare a suonare. Ma era tutto il giorno che aspettavo. Zawinul mi ignorava visibilmente e si era messo a provare le tastiere e a parlare con il tecnico. Wayne aveva tolto il sassofono dalla custodia. Così io mi sedetti alla batteria e attaccai a suonare, come se volessi lanciare un guanto di sfida. Zawinul fu preso in contropiede, e si mise a suonare a sua volta. Wayne fece altrettanto. A un certo punto, mentre suonavamo noi tre, entrò Jaco con una confezione da sei di birra, alzò gli occhi e sorrise, come per dire: «Speravo proprio che andasse a finire così». Poi mise la birra in frigo, ci raggiunse e, neanche avesse programmato tutto in anticipo, qualcuno gli lanciò il basso elettrico e lui lo prese al volo, infilò il cavo e si unì a noi. Per quel che mi ricordo, improvvisammo una quarantina di minuti su tutta una serie di brani dei WR.

Il risultato mi sembrava notevole. Sapevo di giocarmi il tutto per tutto, ma ero proprio contento. A un certo punto mi voltai, e scorsi Tom Scott, il sassofonista. Ero un suo fan, come tutti d’altronde. E lui se ne stava lì a bocca aperta, come per dire: «Santo cielo!» Stavamo suonando Gibraltar, che ha un vamp sul quale puoi andare avanti in eterno. Joe alzò una mano per segnalarci di concludere. Era come se non avessimo mai fatto altro che suonare assieme. La raccomandazione di Jaco sembrava aver avuto buon esito. Poi vidi quei tre che si davano il cinque e lo presi come un buon segno.

Peter Erskine con Jaco Pastorius - foto Don Hunstein
Peter Erskine con Jaco Pastorius – foto Don Hunstein

Il mattino dopo, tornammo in sala prove. Non per suonare ancora ma per farci scattare delle foto. E anche questo mi pareva un buon segno. Jaco guardò com’ero vestito e disse: «Dobbiamo proprio procurarti dei vestiti più fighi» Così mi portò in un negozio di abbigliamento su Santa Monica Boulevard. E non per mettere in dubbio la sua buona fede, ma sono ancora oggi convinto che mi abbia accompagnato lì per fregarsi tre o quattro magliette! Sceglieva questo o quel capo e ne indossava uno sopra l’altro… Alla fine io pagai i miei vestiti, lui sgraffignò alcuni dei suoi e tornammo alla sala prove per le foto. Ci mettemmo in posa, e io chiesi a Joe: «Senti, posso dire ai miei amici che sono entrato nella band?» E lui, dopo un po’, risponde: «Quel che puoi dire è che stai andando in Giappone». Alla fine di quel tour, Zawinul mi dette il benvenuto ufficiale nel gruppo. Fu così che ebbe inizio una lunga collaborazione.

Quand’è che Jaco iniziò a parlare del progetto della Word Of Mouth? E cosa ne pensasti tu all’epoca?
Jaco doveva e voleva dare un seguito al suo primo album, e si era messo a scrivere nuovi brani. Iniziammo a lavorarci sopra in Florida, al Sunrise Theater, dove lui suonava come membro dell’orchestra di Peter Graves, che accompagnava entertainers come Bob Hope e Phyllis Diller. Abbozzammo versioni di pezzi come Liberty City e Three Views Of A Secret, roba del genere, e pian piano il nuovo album iniziò a prendere forma. L’idea era quella di mettere in luce soprattutto le sue composizioni. La prima volta ci ritrovammo a suonare in formazione ridotta e del tutto improvvisata: il che, trattandosi di Jaco, non è necessariamente una valutazione negativa. Facemmo le prove a casa di Joni Mitchell, che all’epoca aveva una relazione con Don Alias.  E Jaco e Don si conoscevano da un bel pezzo. Forse provammo perché Jaco voleva fare una serata al Seventh Avenue South, che peraltro era stata fissata, credo, il giorno stesso della prova o subito dopo, chissà. Di solito, quando accetti un ingaggio, ti preoccupi di dare al pubblico il massimo preavviso: ma Jaco era convinto che avremmo fatto comunque il tutto esaurito. Perché? Grazie al passaparola. Fu in quell’occasione che gli venne in mente di chiamare la band Word Of Mouth, passaparola appunto. E alla fine ebbe ragione lui, il club era pieno zeppo. C’erano Michael Brecker e Bob Mintzer, e io ero contentissimo che ci fosse Bob perché ci conoscevamo dal 1969, dai tempi del liceo.

Ma credo sia indicativo il fatto che la band non aveva un tastierista. Jaco voleva disfarsi di questo vincolo. Nei WR, Zawinul era la figura dominante, e la musica era sempre più organizzata. Certo, parti scritte c’erano sempre state, ma Joe aveva preso l’abitudine di raddoppiare quasi costantemente, con la mano sinistra, le linee di basso di Jaco, che viveva ormai questa formula come una restrizione.

Questo disco è la perfetta dimostrazione di ciò che Jaco aveva in mente per la big band

Hai qualche ricordo della serata in cui sono stati registrati i brani del nuovo cd?
La Word Of Mouth in versione piccolo gruppo aveva iniziato ad andare in tour. Quando arrivammo a New York, facemmo delle prove in formato big band e suonammo così in qualche occasione. Ci eravamo già esibiti con la big band in Florida, al concerto per il compleanno di Jaco, e anche al Savoy Ballroom di New York. Ma al Kool Jazz Festival la big band fece letteralmente paura. Tutti quanti erano diventati amici di Jaco. Questo, prima del disastroso tour giapponese di fine 1982.

Un paio di giorni prima del concerto alla Avery Fisher Hall, registrai a New York il mio primo album da leader per la Contemporary di John Koenig. Ero stato in tour con gli Steps per parecchio tempo, prima che cambiassero il nome in Steps Ahead. Avevo un sacco di impegni. Giravo con gli Steps e anche con Jaco. E in quella circostanza, da un punto di vista strumentale, Jaco era al massimo della forma. Dirigeva la band in maniera fantastica, plasmava la musica in mille modi diversi. Eppure, col passare del tempo, iniziò ad avere grossi problemi comportamentali. Soltanto poche settimane dopo, quando arrivammo in Giappone, le cose avevano già iniziato ad andare alla rovescia. E subito dopo il concerto di questo disco, quando suonammo a Montreal, ci furono le prime avvisaglie di una situazione balorda.

Comunque, per tornare al concerto di New York, si respirava un’energia fantastica. Quando l’ho ascoltato, mi sono venuti i brividi. Incredibile! Apprezzo l’assolo di batteria, ma soprattutto il modo in cui si trasforma in Twins, ovvero una gigantesca improvvisazione collettiva. Non ho mai sentito niente del genere. Quando si pensa alla big band di Jaco, quasi sempre è per The Chicken o Fannie Mae, forse Liberty City. Ma quel concerto fece chiaramente capire in quale direzione si stessero muovendo le idee di Jaco. Secondo me, c’era il meglio delle intuizioni di Gil Evans ma anche qualcos’altro. Non credo esistano termini di riferimento, e per quanto mi riguarda il concerto di New York è la massima espressione di quell’orchestra: suona sicuramente meglio di tutte le nostre altre esibizioni. Randy Brecker e Bob Mintzer e tutti quanti, nessuno escluso, ci fanno un figurone.

Jaco Pastorius
Jaco Pastorius – foto Don Hunstein © Sony Music Entertainement

Qualche brano preferito? Che ne dici dei 14 minuti di basso e batteria verso la fine del concerto?
L’assolo di batteria non dura così tanto, è soprattutto quello di basso. Ma è venuto davvero bene. Come ho detto, sono contento di come ha confluito in Twins assieme ai timpani. E quel che segue funziona davvero bene, senza l’auto-compiacimento di tanti assolo di basso e batteria. L’album inizia con Invitation: una meraviglia. The Chicken fa impressione. I brani con Toots Thielemans sono una rivelazione. Jaco e Toots sono entrambi al massimo della forma. Come tutti gli altri, del resto. La concentrazione di ciascuno era al massimo. Mi aspettavo di ascoltare qualche momento meno riuscito, qualche problema, ma non ce ne sono. Anzi, avevamo suonato tutti benissimo. A mio avviso questa registrazione, più di ogni altra, sintetizza ciò che intendeva fare Jaco con la Word Of Mouth, e non credo che esistano testimonianze più accurate delle prospettive musicali di Pastorius di quelle offerte da questo specifico concerto.

C’è qualche assolo che ti sembra spiccare sopra gli altri? 
È tutto entusiasmante. Gli assolo di Mintzer sono fantastici, e lo stesso vale per quelli di Randy Brecker. Per non parlare di Toots. Ho ascoltato il tutto appena ieri. Nel corso degli anni mi era capitato di sentire dei frammenti della registrazione in cassetta, ma quello che mi ha veramente colpito è il materiale inedito. Peter Gordon, David Bargeron, le incredibili uscite trombettistiche di Lew Soloff e Jon Faddis. Poi, ovviamente, Alan Rubin, Kenny Faulk e Ron Tooley: una sezione trombe fantastica. Gli assolo sono magnifici, ma ciò che brilla è la capacità di scrittura e di arrangiamento di Jaco, senza contare le sue parti solistiche. Prendi Invitation: senti come entra la band e come, poi, sparisce di nuovo… Che meraviglia!

Weather Report con jaco Pastorius
I Weather Report con da sinistra: Shorter, Erskine, Zawinul e Pastorius

Com’era suonare in questa band, ovvero un Who’s Who della scena jazzistica di New York? 
Ogni volta che attaccavo Liberty City era come se mi dicessi: «Dove potrei stare meglio di così?» Ero contentissimo di farne parte. Ma in certe date del tour Jaco fu costretto a utilizzare musicisti locali, con i quali la big band non suonava così bene come il piccolo gruppo. Quei rimpiazzi ci pesavano parecchio. Però la versione newyorkese dell’orchestra metteva i brividi, perché si trattava dei migliori musicisti della città. Leggi chi c’era dentro: il meglio del meglio. Jaco li apprezzava moltissimo ed era felice che fossero i migliori a suonare nella sua band. E, a loro volta, i musicisti erano gasatissimi. Insomma, era una vera storia d’amore: nessuno era costretto a fingere.

Cosa ti piacerebbe che restasse a chi ascolterà questo album? Ricordiamo che, tra l’altro, si tratta del concerto intero, dalla prima all’ultima nota. 
In primo luogo la scrittura. Le composizioni, la prospettiva. L’immaginazione. La speranza di poter mostrare, da parte di Jaco, il suo amore per la big band della tradizione. Ne era un cultore. Amava Thad Jones e Mel Lewis, così come le big band che incidevano i temi degli show televisivi con i quali era cresciuto. E amava i dischi di Frank Sinatra. Quindi il suo legame con il mondo delle big band era solido. Ma anche con quello di un cantante bianco di soul come Wayne Cochran, i cui C.C. Riders erano una specie di big band. La Word Of Mouth era il mezzo attraverso il quale Jaco intendeva mettere sotto lo stesso tetto tutte le sue passioni musicali, e il tetto in questione fu proprio quello della Avery Fisher Hall in quella serata del giugno 1982. Questo disco è senza ombra di dubbio la migliore documentazione di ciò che Jaco aveva in mente di fare. Di conseguenza il risultato finale è questa fantastica combinazione di jazz «tradizionale», di R&B e di musica di ogni parte del mondo: Giappone, Cina, Caraibi, Africa, Europa, America. Il risultato è un ottimo campionario di Jaco, che peraltro suona davvero alla grande. Anzi, in maniera intelligente. L’ho sentito fare certe cose… C’è un passaggio, in Invitation, che ancora mi lascia a bocca aperta.

In sintesi, credo che gli ascoltatori di questo disco potranno capire perché questa musica vivrà in eterno. E la cosa mi conforta. Altrimenti sarebbe impossibile venire a patti col dolore che si prova alla perdita di un personaggio come Jaco. Il lato confortante di tutto ciò è l’esistenza di questa musica. E la musica non mente.

Zev Feldman