«Ci chiamiamo Portico per colpa dell’Italia e della pioggia»: intervista a Jack Wyllie

Il quartetto britannico sarà in scena per la rassegna JazzMi sabato 10 novembre al Santeria Social Club.

336
Portico Quartet perform live, headlining In The Round 2018, at the Roundhouse. Chalk Farm, Camden, London, United Kingdom. 3 February 2018 PH: John Williams

Dove vivete?
La nostra base operativa è Londra.

Perché avete scelto questo nome per la vostra band?
E’ stata colpa dell’Italia e della pioggia! Suonavamo in un festival a Bologna e iniziò a piovere, quindi ci rifugiammo, con tutto il pubblico sotto un portico. All’epoca eravamo ancora in fase di costituzione, suonavamo praticamente per strada, e non avevamo un nome. Il pubblico, poiché avevamo scelto come rifugio il portico, incominciò a chiamarci così e, quindi, abbiamo deciso che quel nome andava bene anche per noi e lo abbiamo mantenuto.

Quando vi siete conosciuti e perché avete deciso di suonare insieme?
Eravamo in università ed eravamo artisti di strada: era il nostro passatempo, ci divertivamo moltissimo. Così come ci divertiamo molto anche ora

Della vostra musica si sprecano definizioni: jazz, electro jazz, ambient, minimal, chamber jazz, post-jazz e molte altre. Probabilmente a voi non interessa nulla di tutto ciò, però ci sarà un punto dal quale siete partiti.
Siamo partiti con la voglia di fare musica e, in particolare, con un contrabbasso, hang drum e sassofono, senza avere un’idea ben delineata di quale genere musicale impostare. Ciò che ascoltavamo con maggiore frequenza in quel periodo era la musica elettronica, ma come buskers era difficile poter inserire l’elettronica anche nelle nostre performance. Possiamo dire che il punto di partenza sia stato proprio quello dell’elettronica, almeno come idea. Poi, le cose sono venute suonando. Mentre completavamo i nostri studi universitari, suonavamo diverse volte a settimana e, con il tempo, il ritmo dei concerti cresceva e, piano piano, si formava la nostra idea musicale che, tutt’ora, è in corso di formazione.

Nella vostra musica sembrano confluire le idee di Steve Reich, Terry Riley, LaMonte Young, Philip Glass, forse anche Brian Eno. Sono stati per voi fonte di ispirazione?
Posso dire che un po’ tutti questi che menzioni sono stati – e sono tutt’ora – fonte di ispirazione per noi, anche Brian Eno. Amiamo la musica black tanto quanto quella araba, ma anche l’house music. Penso che sia più utile come musicista provare e ascoltare musica diversa da quella che produci e filtrarla in un modo interessante. A ogni buon conto, Reich ha sicuramente influenzato la nostra musica, ma anche Brad Mehldau e John Coltrane.

PQ 4way credit Duncan Bellamy

La vostra musica è stata manipolata e remixata da alcuni dei migliori deejay ed è molto seguita anche nei club di Londra. A tuo avviso, questo può essere un modo per avvicinare i giovani al jazz?
Sì, potrebbe essere così, anche se in Gran Bretagna i giovani seguono il jazz. Certo, il fatto che vi sia anche attenzione verso il jazz, verso la nostra musica da parte dei deejay consente sicuramente di ampliare la nostra visibilità nei confronti di un pubblico più giovane. A Londra molti giovani seguono i concerti jazz, anche al di sotto dei vent’anni. Mi rendo conto che, rispetto ad altri paesi, siamo fortunati.

Oltre al progetto Portico svolgete attività da solisti?
Personalmente, suono anche in un gruppo che, in qualche modo, fa improvvisazione. Comunque, anche gli altri componenti prendono parte ad altri progetti. Penso che questo ci consenta di essere più aperti mentalmente.

A novembre suonerete a Milano per il JazzMi festival. Presenterete il vostro ultimo lavoro discografico?
Siamo molto contenti di poter suonare in questo prestigioso festival. Sì, presenteremo «Art In The Age Of Automation», che è il nostro ultimo album in studio. Poi, suoneremo alcuni brani dei nostri precedenti lavori discografici.

E’ da tempo che non suonate in Italia?
No, l’ultima, che io ricordi, un paio di anni fa.

A proposito del vostro nuovo disco «Art In The Age Of Automation», quali sono i nuovi elementi rispetto al vostro precedente lavoro?
Sicuramente l’uso del computer che muove il suono verso una direzione differente rispetto ai nostri precedenti lavori. Il computer fa un po’ da colonna fondante di questo lavoro. Ed è particolare e stimolante l’effetto che il computer determina dialogando con gli strumenti acustici, determinando uno sviluppo del suono che ci ha particolarmente soddisfatti.

Pensi che la tecnologia influenzi le arti?
Penso che la tecnologia abbia cambiato il modo di vivere e di pensare della gente; così come ha influenzato la musica per via delle tecnologie applicate agli strumenti. Ma penso anche che ci siano tante altre vie, anche oltre la tecnologia, per creare nuova musica. Penso che ci debba essere il giusto bilanciamento tra il sentimento umano e quanto i processi tecnologici, l’apporto dei computer possano dare alla musica in particolare, e all’arte in generale. Le tecnologie dovrebbero solo essere d’aiuto nella creazione di un nuovo suono, ma non possono sostituire il fattore umano. Le tecnologie sono un valido aiuto, specialmente in fase di registrazione al fine di ottenere una migliore qualità del suono. Oggi, rispetto al passato, si possono fare delle cose incredibili. Ma la musica deve basarsi su elementi umani.

Probabilmente la scena europea, al momento, sta producendo musica molto più interessante rispetto a quella statunitense e, in particolare, quella britannica. Cosa ne pensi in proposito?
Sicuramente in Europa ci sono dei gruppi entusiasmanti, ma credo che anche negli Stati Uniti ci siano cose altrettanto interessanti. Penso che quello che sia successo è che il jazz sia tornato nuovamente a essere impegnato dal punto di vista politico e che stia prestando particolare attenzione a ciò che sta succedendo attualmente negli Stati Uniti. Ci sono ottimi gruppi che appartengono all’underground e, quindi, non sono ancora molto popolari, così come ci sono artisti che hanno acquisito una maggiore fama di recente, come Kamasi Washington: quando ha suonato al Barbicane di New York c’erano molti giovani neri ad ascoltarlo. Così accade anche ai concerti di Shabaka Hutchings, che ha dato una direzione politico-sociale-culturale al suo messaggio musicale.

Se i Portico Quartet decidessero di diventare un quintetto, quale strumento si andrebbe ad aggiungere?
Dico con sicurezza una tromba! Penso che andrebbe benissimo con il nostro sound.

Quali sono i vostri prossimi impegni?
Terminare il tour che, a parte a Milano, ci porterà anche in Germania, Francia, Belgio e altre date in Gran Bretagna. Poi, scrivere il nostro nuovo album!
Alceste Ayroldi