INTERVISTA DOPPIA: GIANNI BARDARO E PIERLUIGI VILLANI I PARTE

140

[youtube width=”590″ height=”360″ video_id=”8-_LEcIZMGg”]

Intervista a due voci con il sassofonista Gianni Bardaro e il batterista Pierluigi Villani in occasione del loro disco «Unfolding Routes» (Emarcy). Di seguito, l’intervista con Gianni Bardaro.

Tu e Villani non abitate proprio vicini: come vi siete conosciuti?

Ci siamo conosciuti al conservatorio di Napoli durante l’ esame d’ammissione per il corso di jazz, credo fosse il 1999. Se ben ricordo, Pierluigi frequentava il corso già da un anno e in occasione di quell’esame, suonava la batteria per la prova pratica degli esaminandi.

A chi è venuto in mente di creare il trio?

È stata un’idea di entrambi. Qualche anno prima avevamo fatto un tentativo per realizzare una collaborazione in quartetto, ma non andò in porto. Personalmente ero entusiasta nel fare esperienza con questo tipo di trio. Avevo sempre lavorato in formazioni come il quartetto o il sestetto e avevo voglia di esplorare e confrontarmi con una formazione più ridotta.

A sentire il disco, di «percorsi» se ne sono aperti tanti. Chi è stato a condurre l’altro su questi meno battuti?

Ambedue. Questo disco è stata decisamente una co-creazione e nel processo creativo ci siamo inspirati a vicenda spingendoci l’un l’altro verso questo o quel percorso.

L’impressione che si avverte all’ascolto è di un disco bello duro. E’ questo l’obiettivo che vi eravate prefissato?

No, non era previsto. Si era parlato di qualcosa che eventualmente ricordasse il suono nordico. Personalmente questa idea non mi entusiasmava molto, considerando la mia lunga residenza in Danimarca e la mia familiarità con quel tipo di suono.

Avete messo nell’angolo il pianoforte: per quale motivo? Avevo escluso il pianoforte a priori, perché volevo esplorare questo tipo di trio e Pierluigi sembrava condividerne l’idea. In precedenza, avevo registrato altri dischi con un’imponente presenza del piano e questa volta invece ho voluto fare a meno del supporto ritmico-armonico di tale strumento.

L’innesto, in due brani a tua firma, delle percussioni cubane di Yohan Ramon è una decisione presa in partenza o nata strada facendo?

Quando avevo completato la scrittura di quei brani mi resi conto che l’aggiunta di un leggero colore avrebbe conferito una maggiore intensità timbrica. Ho scelto Yohan Ramon perché il suo approccio percussivo è diverso da quello tipicamente cubano. Avevamo bisogno di qualcosa che agisse più discretamente e che non alterasse il suono globale del disco.

In qualche episodio non avete fatto a meno della vena melodica tipicamente italiana.

Probabilmente è vero. Non posso negare che in diversi momenti del disco un profondo e inconsapevole liricismo emerga esplicitamente, soprattutto nelle ballads. In ogni caso, non credo che la vena melodica dipenda strettamente da un fattore geografico o culturale. Quello che caratterizza i musicisti italiani è l’abilità naturale di rivelare e proiettare questa qualità.

Poi, in  Boppel fa capolino un po’ di rock…

In effetti è il brano dal quale emerge in maniera evidente una suono del genere. Lo avevo abbozzato proprio durante il corso di jazz a Napoli e, poi, tirato fuori dal cassetto e completato in occasione di questo disco. Boppel è un brano che rappresenta un filo di congiunzione tra il passato e il presente e celebra il nostro rincontro artistico.

Quale storia racconta il vostro disco?

«Unfolding Routes» è la storia di due musicisti e amici che, dopo diversi anni, decidono di rivedersi per raccontarsi in una conversazione musicale e condividere le prospettive artistiche emerse attraverso i diversi percorsi compiuti fino ad allora.

Tutti brani originali, due dei quali firmati a quattro mani: come avete agito in questa fase?

Volevamo due brani per celebrare questa collaborazione e l’idea di registrarli in duo ci ispirava molto, così come l’idea di registrarli in estemporanea. Gateway, per esempio, è il secondo di questi due brani ed è stato registrato in un unico take. L’idea essenziale era quella di trovare rapidamente un punto d’incontro piuttosto che il confronto nello sviluppo dei soli, non importa quanto distanti fossimo all’inizio della registrazione del brano. L’impulso è stato certamente reciproco ed estemporaneo.

Se «Unfolding Routes» fosse una colonna sonora, quale tipo di film musicherebbe?

Un film-documentario. Questo tipo di film in genere non ha uno script e prova a documentare una storia reale. Mi sembra proprio che il nostro disco si adatti a questo genere.

Come valuti «Unfolding Routes» rispetto alla tua precedente produzione?

Questo disco ha un carattere completamente opposto al mio album precedente «Soul Blueprint», sia per  quanto riguarda l’approccio artistico, sia per il suono, gli arrangiamenti, la concezione armonica e così via. Questi due ultimi lavori, anche se opposti, rappresentano i due principali aspetti della mia identità artistica e proprio «Unfolding Routes» mi ha dato l’opportunità di integrarli: è un disco che ha chiuso un ciclo e ne ha appena aperto uno nuovo.

In genere chi è il tuo sassofonista di riferimento?   E in questo disco chi ti ha fatto da musa ispiratrice?

Ho spesso avuto difficoltà a trovare il mio sassofonista di riferimento. Ci sono stati sassofonisti che mi hanno ispirato e influenzato moltissimo in diverse tappe del mio percorso artistico, cito Cannonball Adderley, Charlie Parker, Jackie McLean, Sonny Stitt. Allo stesso tempo ho realizzato che un riferimento più autentico l’avrei potuto incontrare dentro di me, piuttosto che al di fuori. Indubbiamente il mio inconscio ha avuto la funzione di musa ispiratrice in questo disco.

C’è qualcuno in particolare a cui vorreste dedicare questo disco?

A tutte quelle persone che in questo momento «dischiudono sentieri» di ogni sorta. A Paola per il suo continuo sostegno e per la sua preziosa collaborazione nei miei progetti, alla mia famiglia e a tutte quelli che ci hanno supportato nella realizzazione di questo disco.

Ora cosa prevede la tua agenda?

Un tour in America Latina dove tra l’altro nei prossimi mesi inizierò una ricerca che riguarda la terapia del suono, di cui mi occupo da qualche anno. Lì ho pianificato registrare il mio nuovo disco per l’anno prossimo. In primavera sarò in tournée nei Balcani con il mio progetto A Soundworker Evolution.

A Ayroldi