«The Round Trip». Intervista a Cesare Pastanella

Si chiama Afrodiaspora il nuovo progetto ed ensemble del percussionista pugliese. Ne parliamo con lui.

4408
Foto di Michele Lusito

Cesare, innanzitutto come nasce l’idea di Afrodiaspora?
Circa nove anni fa, subito dopo aver concluso l’esperienza con un gruppo di rumba e folclore afrocubano, ho sentito l’esigenza di creare una formazione radicalmente differente, dal suono acustico ed essenziale, basata su strumenti a corda, voce e percussioni, che mi facesse confrontare con le armonie e le melodie di alcuni stili afro-sudamericani, a me tanto familiari e cari. Non pensavo a un percorso filologico attraverso queste culture musicali, ma ero attratto dall’idea di esplorare quei generi dai confini ambigui, fatti di mescolanze stilistiche in cui, per esempio, l’elemento armonico di una determinata area geografica si unisse a un ritmo o una linea vocale proveniente da un altro contesto musicale. A questo scenario timbrico, ben definito e chiaro nella mia mente, era inevitabile aggiungere il contrabbasso, completando con la sua avvolgente profondità il suono del gruppo.

Hai percorso una buona parte della storia dell’evoluzione della musica attraverso lo schiavismo, un aspetto piuttosto negletto sia dal punto di vista storico, che musicale. Quanto è importante avere la memoria di questi eventi, anche per i musicisti?
Quanto è successo tra la fine del XVI e il XIX secolo, un periodo di oltre trecento anni in cui milioni di africani sono stati strappati dai loro villaggi, dalle loro usanze e famiglie, per essere venduti, se arrivavano vivi a destinazione, come bestiame alle aste di schiavi in America, alimentando come forza lavoro le ricche colonie di Paesi europei come Spagna, Inghilterra, Portogallo, Francia, Olanda, è un evento di cui l’umanità dovrebbe vergognarsi. Partendo da questo presupposto, tutti noi abbiamo il dovere culturale di conoscere questo indecoroso commercio di umanità, reso possibile perché l’Europa sosteneva che l’uomo nero fosse paragonabile agli animali e, di conseguenza, potesse essere schiavizzato per fini di lucro. Certo, la schiavitù tra gli esseri umani non si è manifestata solo in quel periodo, la storia ne è piena, da migliaia di anni fino ad oggi, ma questi eventi ci toccano da vicino sia temporalmente che geograficamente, in quanto attuati da una visione europea etnocentrica. Per chi si occupa di musica afroamericana, sia come musicista che come ascoltatore, penso sia imprescindibile conoscere quello che è successo, perchè non dovremmo mai dimenticare che tutta quella musica ha avuto origine da questo tragico evento. Alcuni anni fa ho visitato i fortini di Elmina e Cape Coast in Ghana e La Maison des Esclaves sull’isola di Gorée, in Senegal (la mia foto della sua «porta del non ritorno» è diventata la copertina del disco «The Round Trip»). In questi fortini posizionati direttamente sull’Oceano Atlantico, gli schiavi transitavano, venivano imprigionati per alcune settimane e infine imbarcati sulle navi negriere. Ne esistono numerose decine, sparsi sulle coste di tutta l’Africa Occidentale. In ognuna di queste visite ho provato un forte senso di colpa, oscurità e peso interiore.

Afrodiaspora: (da sin. Nando Di Modugno, Cesare Pastanella, Rosanna D’Ecclesiis, Francesco Cinquepalmi) – foto di Gianni Cataldi

A tuo avviso, quanto ha inciso la diaspora africana nell’evoluzione della storia della musica?
Tutte le riflessioni appena fatte, che di certo non inducono a pensieri gradevoli, ci portano ad un’altra importante considerazione, di gran lunga più positiva. L’evento storico di cui abbiamo parlato ha dato origine, inevitabilmente, a un fenomeno di transizione culturale così fondamentale per l’umanità, senza il quale un immenso patrimonio musicale non sarebbe mai esistito, o per lo meno, non nella forma in cui lo conosciamo oggi. Se da oltre un secolo si suonano e cantano tantissimi generi di musica americana, lo si deve prevalentemente alla diaspora africana, con contributi non trascurabili da parte anche della cultura europea e india. Ogni volta che suono un samba de rodabahiano, un funk o un soncubano, durante una prova, in studio di registrazione o in concerto, non posso fare a meno di rivolgere un pensiero all’Africa, al suo popolo, al passaggio forzato della sua cultura e alla nuova società multietnica che l’ha accolta in America, non senza alcuni contrasti iniziali. E’ un argomento che mi ha sempre emozionato tanto e al quale mi dedico con il massimo rispetto.

Parliamo di «The Round Trip». Qual è il materiale sul quale hai lavorato?
All’inizio dell’attività di Afrodiaspora, collaborando con gli altri componenti del gruppo, ho scelto il repertorio seguendo un criterio basato esclusivamente sui nostri gusti personali, una sorta di ‘playlist’ di brani preferiti che volevamo suonare dal vivo. È stato subito chiaro come il filo conduttore di questo repertorio, apparentemente così eterogeneo, fosse l’elemento comune dell’origine culturale africana. Da qui è nato il nome del progetto. Quando poi ho deciso di trasferirlo su disco, abbiamo fatto una selezione di quelli che ritenevamo essere i brani più rappresentativi, lasciandone fuori altri, che invece continuiamo a suonare durante i nostri concerti. Le composizioni presenti nella tracklist sono di autori alquanto famosi nell’ambito della world music, come la maliana Rokia Traoré, l’ivoriana Dobet Gnahoré, il grande Antonio Carlos Jobim o il cubano Mongo Santamaria, ma anche meno conosciuti alla maggior parte del pubblico, come nel caso del capoverdiano Vasco Martins, la peruviana Chabuca Granda (autrice di un vals molto famoso come Fina estampa), il cubano Eliseo Grenet e l’andaluso Javier Ruibal, autore di Reina de Africa, il brano che musicalmente sembra meno legato alla diaspora africana, che è presente invece in modo evidente nella sua parte testuale. E da studioso della cultura ritmica afrocubana, non potevo omettere di inserire un mio tributo ai rituali di origine yoruba, con un ritmo e canto dedicati a Obatalà, divinità molto importante nella Regla de Ocha cubana. Infine, pochi mesi prima di entrare in studio di registrazione, ho scritto due brani su questo tema e ne ho scelto un terzo, composto dieci anni fa, il cui testo, in modo del tutto casuale, si adattava benissimo all’argomento dell’album che stava per nascere. Ritengo che per un musicista sia importante lasciare un’impronta personale, anche piccola.

Perché la tua attenzione si è localizzata sul Centro-Sud America?
Come accennavo, nel corso della mia vita musicale da percussionista, ho approfondito prevalentemente gli studi della tradizione afrocubana, senza tralasciare di dedicarmi anche a quella afrobrasiliana ed esplorare altri codici ritmici di chiara matrice africana presenti in Sudamerica. Di conseguenza, sento la musica di quest’area geografica molto vicina e familiare. In ogni caso, credo che la scelta di dare un pò più di spazio all’America Latina sia inconsapevole o casuale, legata ad esigenze riguardanti l’armonia e la melodia dei brani presenti nell’album, due aspetti per me importantissimi quando faccio musica.

Vorrei che parlassimo anche delle tue composizioni presenti nell’album. Da cosa traggono ispirazione?
Cimarròn racconta le vicende di una schiava in una piantagione di canna da zucchero cubana al tempo del colonialismo. Una vita molto dura, fatta di continue umiliazioni e punizioni corporali. La protagonista riesce però a fuggire, il titolo del brano infatti indica come venivano chiamati gli schiavi fuggiaschi nella colonia di Cuba. La storia però è a lieto fine, perché come a volte accadeva, dopo anni di latitanza gli schiavi con un pò di fortuna riuscivano a «emanciparsi», ossia diventare liberi ed introdursi nella società, non senza difficoltà di adattamento. Ho scritto il testo di questo brano direttamente in spagnolo, ispirandomi ad un saggio che ho letto circa vent’anni fa, Los negros esclavos, scritto nel 1916 dal celebre etnomusicologo e antropologo cubano Fernando Ortiz. Nonostante la vicenda si svolga a Cuba e tratti un argomento piuttosto cupo, ho scelto di metterla in musica attraverso una solare e saltellante cumbia colombiana. Il bello di comporre e arrangiare un brano originale è che si ha la libertà di creare qualsiasi commistione si desideri. «Into The New World», invece, è un brano che si presenta in dichiarato stile mandingues, la musica dell’Africa Occidentale appartenente alla cultura del popolo Mandés, a cui sono molto legato per gran parte dei miei ascolti musicali e in seguito al mio primo viaggio in Africa, in Burkina Faso, durante il quale ho assorbito per settimane le affascinanti e ipnotiche scale pentatoniche, tipiche di questa cultura. Racconta la storia surreale di un uomo africano che si sveglia improvvisamente in un nuovo mondo, in cui riconosce molti dei tratti culturali da cui proviene. Cercando di capire l’origine di questa affinità, scopre che è stata generata da un evento indegno e tragico come la tratta degli schiavi. Nel mio piccolo, ho cercato di immaginare quello che poteva provare un ex schiavo appena diventato libero, che tentava di inserirsi in una nuova società, per certi versi familiare, per altri alquanto ostile. L’album si conclude con View From The Top, il brano più personale e intimo tra quelli di mia composizione, in cui ho voluto descrivere una sensazione che diverse volte ho provato in passato, durante l’ascolto di musica che mi emozionava particolarmente: volare sopra la Terra e osservare dall’alto tutta l’umanità e gli esseri viventi, senza distinzioni e pregiudizi, un punto di vista possibile solo da questa prospettiva ultraterrena. Ho voluto creare una veste strumentale scarna, in cui oltre all’arpeggio portante della chitarra classica e alle profonde note poggiate dal contrabbasso, l’unica presenza ritmica è affidata a una parte ripetitiva di balafon mandingues in sottofondo, in modo da dare spazio ad un’orchestra d’archi affidata al grande Leo Gadaleta, che ha svolto un eccellente lavoro di arrangiamento ed esecuzione, dando una nuova luce ad un brano per me molto importante.

Parliamo dei tuoi compagni di viaggio?
Certamente, con grandissimo piacere. Hai usato a ragion veduta il termine ‘compagni di viaggio’, perchè sia la realizzazione del disco che ogni concerto che facciamo, sono paragonabili ad un percorso, un’avventura in cui lo spirito e l’attitudine dei compagni sono fondamentali. Non è stata una scelta casuale, ma a prescindere dalla loro preparazione e versatilità musicale, è stata fatta pensando soprattutto alla stima reciproca e alla possibilità di stare bene insieme. Perché l’armonia tra le persone è la base essenziale per fare buona musica e, in genere, per vivere in armonia con il mondo. La mia passione per gli strumenti a corda, in particolare la chitarra, in tutte le sue forme, non poteva che spingermi a coinvolgere Nando Di Modugno, chitarrista classico e musicista eclettico, dotato di grande versatilità stilistica, a suo agio con il linguaggio improvvisativo e con un’ampia varietà timbrica a disposizione, espressa attraverso l’uso di chitarre acustiche, elettriche, 12-corde e synth. Il compagno di ritmica è il contrabbassista e bassista elettrico Francesco Cinquepalmi, elemento portante della pulsazione ritmica di Afrodiaspora, capace di sostenere il groove con estrema precisione, in modo essenziale e senza sbavature. Caratteristiche ideali per accompagnare musica vocale in cui le chitarre, le voci e le percussioni hanno il ruolo prevalente di creare movimento all’interno delle strutture. E poi c’è Rosanna D’Ecclesiis, l’anima del disco «The Round Trip», che con la sua voce è capace di passare da momenti di pura energia a emozionanti sussurri morbidi e intimi. Provienente dal canto soul, jazz, pop e funk, forse è grazie alla varietà degli stili che ha interpretato che ha potuto ben adattarsi a questo progetto. La sua versatilità e la capacità di confrontarsi con il canto in differenti lingue, alcune delle quali con fonemi piuttosto complessi, come il bambara, il malinké e il creolo, le hanno permesso di affrontare con disinvoltura e grande spirito di adattamento le diverse anime di questo disco. Quando suono con loro sto bene e questo è essenziale per me.

Quali sono state le maggiori difficoltà che hai/avete incontrato nella realizzazione del disco?
Non mi vengono in mente particolari difficoltà. Abbiamo registrato il reperterio dopo anni di maturazione in concerto, quindi l’esecuzione delle strutture in quartetto è stata alquanto agevole e spontanea. Prima di entrare in studio abbiamo pensato a un adattamento degli arrangiamenti che desse spazio a sovraincisioni di cori, chitarre, percussioni e qualche suono di synth, ma è stato un processo divertente e creativo. Rosanna è stata particolarmente impegnata nel ricercare i fonemi dei brani cantati in lingue africane. Le sessioni di registrazione e il missaggio sono stati piuttosto faticosi e ci hanno impegnati per diversi giorni, vista la quantità di materiale registrato, ma si è trattato di inevitabili sforzi dovuti alla realizzazione di un disco dal suono ricco e complesso. La vera difficoltà è stata invece di natura finanziaria, dato che per mia scelta ho voluto produrre questo album con le mie sole forze, ma col senno di poi, penso che ne sia valsa decisamente la pena.

In questo disco quanto spazio è dedicato all’improvvisazione?
L’improvvisazione è presente, ma non in modo prevalente e l’abbiamo riservata a circa metà del repertorio, in quei brani che più si prestavano a dei soli, non esclusivamente di chitarra come è naturale che fosse in una formazione del genere, ma anche lasciando la voce libera di farlo. Nonostante normalmente mi trovi perfettamente a mio agio nell’espressione solistica, in questo disco ho volutamente deciso di non esprimermi con questo linguaggio e di concentrarmi sull’accompagnamento e l’arrangiamento, ad eccezione di un brano in cui eseguo un solo di tama, un tamburo parlante senegalese.

Cesare, parliamo di te. Quando è nata la tua passione per le percussioni?
All’età di nove anni ho inziato a suonare la batteria e intorno ai venti, per entrare nel gruppo di world music Tavernanova, in cui era già presente un batterista, ho trovato spazio nel ruolo di percussionista, confrontandomi per la prima volta con questi strani strumenti dalle varie forme e tecniche, che ugualmente producevano ritmo, ma in maniera differente rispetto alla batteria che conoscevo dall’infanzia e avevo studiato per tanti anni. Il mio approccio, quindi, è stato del tutto casuale. Da quel momento in poi sono stato letteralmente rapito dal fascino di tamburi e percussioni etniche provenienti da tutti gli angoli del mondo, interessandomi in particolare a quelle arabe e mediorientali, cubane, brasiliane e dell’Africa Occidentale.

Cesare Pastanella

Qual è il tuo background culturale?
Sono una persona curiosa, a cui piace molto viaggiare al di fuori dei percorsi turistici, conoscere approfonditamente le abitudini dei popoli e mischiarmi alla loro vita quotidiana. Sono molto attratto dalla lettura, la fotografia, il cinema, l’antropologia e mi interessa molto il rapporto tra musica e immagini. La mia esplorazione delle musiche del mondo va di pari passo con queste passioni che mi seguono dall’infanzia e l’essermi dedicato alle percussioni etniche è in totale sintonia con queste mie attitudini. Per i primi tempi le ho suonate da autodidatta, cercando di imparare tutto quello che potevo dall’analisi e l’ascolto approfondito dei dischi, soprattutto il loro ruolo in generi musicali come la world music, la fusion e l’etno-jazz. Quando finalmente ho capito, come una sorta di richiamo inevitabile, che dietro questi strumenti c’era un vero e proprio linguaggio, fatto di antichi codici ritmici tramandati di generazione in generazione, ho iniziato lo studio approfondito della tecnica dei tamburi e dei ritmi tradizionali afrocubani, sia profani che rituali. Dapprima qui in Italia e in seguito, frequentando periodicamente per lunghi periodi Cuba e New York, continuando poi la ricerca sulla diaspora africana in diversi Paesi africani come Burkina Faso, Ghana, Senegal, Etiopia. Durante questo lungo percorso, sono riuscito a inglobare in modo naturale e spontaneo, entrambi i ruoli di percussionista e batterista, specializzandomi in uno stile che mi fa utilizzare metà degli arti su una specie di batteria stilizzata e l’altra metà su congas, bongò e altri tamburi africani o arabi. Questo è il set che suono con Afrodiaspora e in altre formazioni, quando non è presente il batterista. Mi fa sentire completo e in connessione con tutto il mio percorso di vita nella musica.

A quali altri progetti stai lavorando?
In questo delicato momento, a causa dell’emergenza coronavirus, sono praticamente fermo, come tutti i miei colleghi musicisti. Ma questa permanenza in casa mi sta dando la possibilità di riprendere a comporre, seguendo i miei tempi e la giusta ispirazione, cosa che per tanti motivi non riuscivo a fare da diverso tempo. Per il futuro, inoltre, sto coltivando l’idea di raccogliere, riadattare e pubblicare una serie di musiche che ho composto negli anni passati per degli spettacoli teatrali, un lavoro che mi vedrà impegnato prevalentemente nell’arrangiamento e il coinvolgimento di altri amici musicisti.

L’attuale situazione del mondo dell’arte, in questo particolare e doloroso momento causato dal coronavirus, è sicuramente tra le peggiori. Quali sono le tue riflessioni al riguardo?
C’è bisogno quanto prima di tornare a svolgere spettacoli, per tutti. Noi artisti per l’essenziale confronto con il pubblico e per lavorare, perché apparteniamo a una categoria poco organizzata e tutelata, che in questo momento critico non vede garantita la propria sopravvivenza. E ne ha tanto bisogno anche il pubblico, perché l’arte è molto importante per una società: è curativa, è condivisione, passione, vita. Nel totale rispetto delle norme per eliminare questo virus, auguriamoci tutti di poterlo fare al più presto.
Alceste Ayroldi