Antonio Onorato: «Vorrei meno scuole di jazz e più musica dal vivo»

Il popolare chitarrista campano, con oltre trenta dischi all'attivo, ci parla delle sue numerose esperienze, da Toninho Horta a Franco Cerri.

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Antonio, ultimamente ti stai appassionando ai chitarristi: dopo Toninho Horta anche Franco Cerri. Ti affascina la competizione?
Mi è sempre piaciuto confrontarmi con altri chitarristi, perché non sono mai stato in competizione con qualcuno. Per me suonare con altri musicisti, e quindi anche con altri chitarristi, rappresenta essenzialmente uno scambio di idee, un continuo arricchimento interiore per la mia evoluzione come musicista e come essere umano e non è una gara. Non si vince nessuna medaglia, nessuna coppa è in palio. Il confronto poi con musicisti che suonano il tuo stesso strumento in qualche modo è anche speculare e quindi ci si capisce meglio. In ogni caso i chitarristi con cui ho avuto a che fare professionalmente sono persone che la pensano come me da questo punto di vista, altrimenti non ci sarebbero stati i presupposti per una vera collaborazione artistica.

Come è nato il connubio con Franco Cerri?
Una quindicina di anni fa lo invitai a suonare a Napoli e da quella volta non ci siamo più persi di vista. Abbiamo fatto tanti concerti insieme in giro per l’Italia, ci divertiamo moltissimo e non solo sul palco. Oltre alla musica abbiamo in comune l’autoironia, e ci cimentiamo con i giochi di parole, ridiamo tantissimo. Nel 2015 abbiamo tenuto un concerto a Udine e in quei giorni abbiamo registrato l’album che contiene anche due live registrati sempre a Udine al teatro Palamostre quattro anni prima con Luca Colussi alla batteria e Simone Serafini al contrabbasso. Franco per me è stato da sempre un punto riferimento nel mio percorso artistico e suonare con lui è sempre un arricchimento continuo sia sul piano musicale che su quello umano.

Come avete deciso i brani da suonare?
Abbiamo scelto per quest’album un repertorio un po’ più mainstream, mi sono avvicinato più io al mondo di Franco, rileggendo dei brani molto famosi che a noi piacciono, come Bye Bye Blues, Out Of Nowhere, Corcovado, Munasterio ‘e Santa Chiara, ma anche un mio brano, Neapolitan Minor Blues.

Franco Cerri e Antonio Onorato

Tu hai alle spalle un considerevole passato che va dal jazz alla fusione, dalla musica per orchestra alle influenze etniche. Sembra che sia una tua prerogativa guardarsi intorno, ricercare. Quali sono le esperienze che ti hanno dato maggiori soddisfazioni?
Oltre a questa meravigliosa collaborazione con Franco Cerri, ricordo con soddisfazione anche quella con Toninho Horta e quella con Pino Daniele. Sono cresciuto con i loro dischi e li ho consumati a furia di ascoltarli. Mi sembrava un sogno poter suonare con alcuni dei miei eroi della musica: oggi posso dire che ciò che desideravo si è realizzato. Poi, ci sono tanti altri momenti belli nella mia carriera artistica. Ad esempio, ogni volta che nasce un nuovo album è una soddisfazione grande per me, in quanto la vena compositiva non mi abbandona mai.

Come nasce Antonio Onorato musicista?
Ho iniziato a suonare la chitarra a sei anni, una vecchia chitarra acustica Excelsior con la cassa armonica mezza rotta, rappezzata con lo scotch. Era di mio padre, che ogni tanto si dilettava a strimpellare qualche vecchia canzone degli anni  Cinquanta, come Blue Moon dei Platters. Avevo un irrefrenabile «desiderio feroce», per citare il grande Keith Jarrett, che mi spingeva a suonare, suonare, suonare per ore, senza stancarmi mai. Immagina che la chitarra messa in verticale era più alta di me… Imparavo velocemente a orecchio tutti i brani che all’ epoca ascoltavo alla radio. Ho studiato in seguito solfeggio e armonia con il maestro Amedeo Tosa del conservatorio di Napoli ma, come chitarrista jazz sono essenzialmente autodidatta. Quando avevo diciasette anni ho preso appena qualche lezione da Eddy Palermo, un altro grande chitarrista con cui poi ho avuto il piacere di realizzare un album insieme, «Two Parallel Colours». Considero Eddy il mio maestro. Sono un musicista in continua evoluzione o meglio ancora sono un uomo che cerca continuamente di evolversi anche e soprattutto attraverso la musica.

Poi, c’è il tuo legame viscerale con l’Africa.
L’ Africa mi ha sempre affascinato da quando ero bambino. Immagina che mia madre mi ha raccontato che da piccolo, quando mi chiedevano: «Cosa vuoi fare da grande?» Rispondevo, «voglio andare a costruire le autostrade in Africa». Sono andato a suonare per  la prima volta in Africa, esattamente in Angola, alla fine degli anni Novanta. Mi ricordo ancora che in aereo ho pianto per l’emozione nel momento in cui sorvolavamo l’Etiopia e io guardavo giù dal finestrino per la prima volta la morfologia del continente nero. Quando ritornai in Italia da quel viaggio così magico sentii il desiderio di realizzare un album, nel quale poter trasferire in musica le mie innumerevoli emozioni vissute in quel luogo  e realizzai il cd «The Soul Breath». Nell’Africa subsahariana ci sono tornato in tour in seguito  tante altre volte, in Uganda, in Angola, dove ho realizzato il cd «Quatro linguas uma alma» con il cantante Dodò Miranda e altri bravissimi musicisti angolani.

A proposito di ricerca. Oggi c’è buona musica in giro?
Penso di sì, bisogna solo scavare nel grande contenitore della rete. Purtroppo la maggior parte della gente si scoccia di ricercare. Oggi si è troppo superficiali su tutto e non ci si accorge spesso di alcune meraviglie che ci passano davanti, perché non ci soffermiamo abbastanza. È un peccato, sono occasioni perse. Ci si accontenta della maggior parte della musica promossa in tv e internet, molta della quale sinceramente non mi piace. Sono a mio avviso prodotti usa e getta, che dopo un anno o due  spariscono dalla circolazione, per ovvi motivi. E’ un tipo di musica adatta a un ascolto veloce e superficiale. La ricerca invece è anche sinonimo di curiosità. La Musica con la «M» maiuscola va ascoltata col cuore e approfondita, anche perché fa bene.

Anche nel jazz? Chi consiglieresti di ascoltare con attenzione?
Nel jazz consiglio di ascoltare chiunque abbia uno stile personale, innovativo e che pur conservando la tradizione riesca a creare novità. I padri del jazz, Parker, Coltrane, Miles Davis sono stati dei grandi innovatori. Non amo particolarmente chi fa del jazz stereotipato, già sentito, perché non c’è di fondo una storia personale, un proprio stile. Non serve a nulla. Ne esce solo una triste riproduzione. E lo trovo immensamente arido. Consiglio di ascoltare invece chi ha una musica propria, anche perché di gente come Franco Cerri che ancora a novantuno anni reinventa arrangiamenti semplici e geniali su brani standard, mettendo la sua tipica eleganza e il suo stile personale: non ne vedo molti in giro. E poi la musica che ascolti ti deve trasmettere qualcosa di profondo, deve toccare il tuo cuore, ti deve emozionare, ti deve commuovere. Se non succede questo è musica inutile. Ricordo una volta a un concerto di Enrico Rava piansi su una sua struggente versione di My Funny Valentine, per non parlare di tutte le volte che ascolto l’ Ave verum di Mozart. Se non hai mai pianto su un brano di un artista vuol dire che non ti piace poi così tanto.

Un tempo eri definito un virtuoso. Oggi non più. Pensi che il venir meno di questo aggettivo sia un valore aggiunto?
Certamente è un valore aggiunto per me. Significa crescita. A venti-trent’anni è normale «suonare tanto», mettere tante note, tanti accordi.  È forse un modo per far notare al pubblico quanto sei bravo, ma a cinquant’anni ho capito che basta una nota per creare la magia. Ovviamente questo è un percorso obbligato per un qualsiasi artista. I primi quadri di un pittore per esempio, sono quelli più ricchi di particolari con quintali e quintali di colori usati, poi nel periodo della maturità basta una pennellata. Si parte dalla forma per ritornare alla sostanza, all’essenza però con la consapevolezza.

Hai più o meno trenta album all’attivo. Quali sono stati i sostanziali cambiamenti nella tua vita artistica?
In realtà, guardando indietro alla mia discografia, noto che ho sempre avuto le idee chiare e che già dagli esordi conservavo le mie radici, le mie tradizioni con uno sguardo all’esterno e al futuro. Oggi, certamente alcune cose le vedo con altri occhi, sono più centrato, ho vissuto un bel pezzo di vita molto intensamente, sono stato in giro per il mondo a suonare e mi sono confrontato con altre culture. Ad esempio oggi comporre per orchestra mi soddisfa interiormente molto. Ho una visione più totale e avere nella mente più strumenti oltre alla chitarra mi gratifica.

Nel 2014 uscì il tuo corposo lavoro discografico «Rainbow Warriors». Tu hai sempre prestato molta attenzione anche come artista all’antinomia guerra/pace. Chi sono i tuoi guerrieri dell’arcobaleno?
Chiunque faccia del bene, chi aiuta i più deboli, chi pensa alla collettività e non solo a se stesso. I guerrieri dell’arcobaleno non hanno armi, non sfruttano gli altri per un proprio tornaconto. I guerrieri dell’arcobaleno sono gli uomini “svegli” o “risvegliati” e salveranno il mondo.

Antonio, parlando di jazz non suonato. Come giudichi la situazione politico-sociale-economica del jazz in Italia?
La situazione in Italia è un disastro. Il mecenatismo istituzionale, che farebbe tanto bene ai musicisti jazz italiani è pressoché assente. Le piccole imprese, come le associazioni culturali e i jazz club sono schiacciati dalla burocrazia e dalla pressione fiscale. Si suona poco  in Italia e di conseguenza oggi tutti insegnano jazz! Fra poco ci saranno più insegnanti che allievi. Io penso invece che il jazz si impara essenzialmente sul campo, suonando e anche vivendo in un certo modo…Charlie Parker non ha mai frequentato una scuola di jazz, per non parlare poi di Wes Montgomery  e Django Reihnardt, secondo me i più grandi chitarristi jazz di tutti i tempi. Questo significherà qualcosa.. quindi io direi meno scuole di jazz e più musica suonata dal vivo. Meno standardizzazione e più sperimentazione.

E altrove, che tu sappia, come vanno le cose?
Pochi giorni fa parlavo con un mio amico musicista norvegese e mi diceva che a Oslo, una città di ottocentomila abitanti, ci sono una ventina di concerti al giorno. Il governo sostiene e aiuta i musicisti jazz più meritevoli , che rappresentano anzi un vanto per la cultura di quel paese.

Chi sono i tuoi musicisti/artisti di riferimento?
Alcuni li ho già citati prima, Franco Cerri e Toninho Horta, sono dei punti di riferimento sia musicalmente che umanamente e poi c’è Mozart, Miles Davis, George Adams , Coltrane e anche i Beatles.

C’è qualcuno a cui vorresti dire grazie?
Direi grazie a tutte le persone che amano la mia musica e mi sostengono venendo ai miei concerti e comprando i miei dischi, poi direi grazie a mio figlio Gabriel, la luce dei miei occhi che mi ha ispirato tanti brani già prima che nascesse, grazie alla mia dolce compagna Valeria che mi sostiene da sempre in tutti i modi, credendo in me e nella mia musica ogni giorno. La famiglia per me è sacra. E infine vorrei ringraziare il Grande Spirito per avermi donato il «dono della melodia».

Cosa è scritto nell’agenda di Antonio Onorato?
Ci sono tanti impegni per il futuro: concerti, studio di registrazione, scalette di brani musicali, nuovi numeri di telefono di oltre oceano. Però appena si apre la mia agenda c’è scritto «mitakuye oyasin» che nella lingua dei nativi americani significa siamo tutti collegati, siamo tutti una sola cosa.
Alceste Ayroldi
Intervista pubblicata sul numero di settembre 2017 della rivista Musica Jazz