«I WALK A LITTLE FASTER». INTERVISTA A CHIARA PANCALDI

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«I Walk A Little Faster» è il nuovo lavoro discografico di Chiara Pancaldi. Ne parliamo con lei.

Chiara, rispetto al suo precedente lavoro «The Song Is You» è cambiato del tutto il suo quartetto, seppur consolidato. Cosa è successo?

Il disco «The Song Is You» è il frutto di una collaborazione che dura da tempo, mentre «I Walk A Little Faster» è nato da un’opportunità che ho colto con grande entusiasmo. Come molti musicisti serbavo il sogno di poter collaborare con grandi artisti americani ma non credo che avrei fatto io il passo, quanto meno nell’immediato. Quando ho conosciuto Cyrus Chestnut si è creata immediatamente una bella sintonia da un punto di vista sia musicale, sia umano. Ha da subito apprezzato il mio modo di cantare e quando mi ha proposto di registrare qualcosa insieme non ci potevo credere! A partire da questo episodio tutto si è sviluppato con molta naturalezza.

 Come è nato questo nuovo quartetto?

Ho deciso di tornare a New York nel settembre 2013 per godermi la città, le meravigliose esperienze che essa regala ad un musicista di jazz e soprattutto per registrare questo disco. Il completamento della formazione è stato piuttosto facile: John Webber e Joe Farnsworth costituiscono una ritmica estremamente consolidata e sono, a parer mio, tra i migliori musicisti sulla scena, inoltre siamo buoni amici. È stato fondamentale circondarmi di persone vicine per vivere un’esperienza così importante. Infine, quando Jeremy Pelt si è offerto di contribuire alla produzione artistica il quadro si è completato nel migliore dei modi! Mi ritengo davvero molto fortunata per avere avuto l’opportunità di collaborare con questi incredibili artisti.

E rispetto al suo precedente lavoro, qui non ci sono brani originali, ma solo standard. E’ una scelta legata al suo nuovo combo o ad altro?

In effetti disponevo di alcuni brani originali e inizialmente era mia intenzione inserirli poi, in fase di selezione del repertorio, a seguito di un lungo confronto con Jeremy, abbiamo deciso di non includerli al fine di sottolineare l’identità del progetto. Tengo comunque in serbo le mie composizioni per un disco futuro che, magari, sarà composto totalmente da brani originali. Anche se questa è al momento un’ipotesi, spero di poterla realizzare a breve.

Ha inciso per la casa discografica olandese Challenge. Come è nato questo nuovo connubio?

L’individuazione di un’etichetta discografica è un processo talvolta laborioso e tra le varie scelte ho deciso di inviare il master alla Challenge. Ho ricevuto un feedback positivo in breve tempo. È un’etichetta di grande spessore, sono davvero contenta di essere stata inserita nel loro roster.

 Tra i brani del cd, ha scelto per il titolo dell’album I Walk A Little Faster. Pensa di correre un po’ troppo?

Di norma sono solita lavorare quotidianamente passo dopo passo, seguendo il naturale evolvere delle cose, ma di fronte a certe occasioni bisogna “buttare il cuore oltre l’ostacolo” e “camminare un po’ più veloce” per riuscire a stare al passo con gli eventi e non perdere importanti opportunità di crescita. Quindi la risposta è sì, forse ho «camminato un po’ più in fretta», ma sono molto felice di averlo fatto!

 A proposito: quando sceglie gli standard segue un criterio in particolare?

Un elemento molto importante è il testo, poiché ogni cantante ha un doppio ruolo: quello di interprete e musicista al contempo. Il fine è “raccontare una storia” e per raccontarla con credibilità è necessario che si crei uno stretto legame con il testo scelto. Non deve necessariamente essere poetico o evocativo, ma deve raccontare qualcosa che mi riguardi e che possa in qualche modo farmi entrare in sintonia con esso. La melodia non è da meno e, da questo punto di vista, il Great American Songbook contiene dei veri e propri capolavori che fondono magistralmente testi a melodie e armonie meravigliose.

 Chiara, per lei la tradizione jazzistica è fondamentale. Qual è il suo giudizio nei confronti della sperimentazione nell’ambito vocale?

Mi interessa molto quando è supportata da un forte contenuto musicale. In passato ho studiato dhrupad (genere della musica classica dell’India del nord) per due anni in Italia e tre mesi in India, ed è stata un’esperienza che mi ha insegnato molto e mi ha aperto gli occhi verso altri mondi e modi di sentire la musica e la vocalità. Apprezzo quando percepisco la storia o la tradizione dietro ad una ricerca. Per approdare ad altro bisogna, credo, conoscere bene ciò da cui si parte, il rischio altrimenti è di perdersi o di restare troppo in superficie. Da questo punto di vista amo tantissimo Abbey Lincoln, Jeanne Lee e Betty Carter, che ritengo essere ricercatrici profonde e innovative. Sono molto legata al mondo della melodia e dell’armonia, quindi mi interesso di più a questi aspetti e a chi fa ricerca vocale all’interno di questo mondo. Questo per affinità elettive. So che ci sono altri modi di lavorare e sperimentare, come ad esempio l’utilizzo di parametri timbrici piuttosto che armonici o melodici, ma non conosco molto quelle realtà. Ci sono tante cose che ancora non conosco,  e che mi incuriosiscono…vorrei avere il tempo per approfondire tutto!

 In un panorama musicale in cui si cerca nuove vie, nuove soluzioni, lei si sente anacronistica?

Non credo di essere anacronistica. Penso che lo standard e la song in generale siano ancora molto attuali e che la musica non si definisca per stilemi ma per la sincerità e l’amore con cui viene suonata/cantata. Mi auguro profondamente che siano proprio questa sincerità e questo amore ciò che arriva a chi ascolta. Lo stile è un mezzo, ma non il fine. Il fine è la musica e la comunicazione di un sentimento, di un’emozione, di un’idea.

 Oggi, a suo avviso, qual è il valore di una song?

La sua universalità che dona la possibilità di riconoscersi nelle canzoni e di riuscire quindi a interpretarle rendendole proprie.

Lei è giovane. Il suo pubblico è formato da giovani?

Il  pubblico è vario, direi. Ci sono giovani, donne e uomini di mezza età e anziani. Dipende anche dai contesti in cui mi capita di cantare.

Ritiene che i giovani si stiano allontanando dal jazz (soprattutto in Italia)?

E’ una domanda molto complicata, perché coinvolge più piani. In questa sede posso dire che non ho molto il polso della situazione perché, non insegnando nei conservatori, non conosco in profondità la realtà giovanile. Forse molti sono più curiosi verso le novità e il jazz più contemporaneo tralasciando la storia, se così fosse però sarebbe un peccato perché significherebbe perdere di vista il percorso storico, sociale e culturale che porta questa musica (di qualunque stile o epoca) ad essere quello che è.

Tra Chiara Pancaldi e il jazz quando e come è scoppiato l’amore?

Abbastanza presto direi, nell’adolescenza. Ma è un amore che è cresciuto e si è solidificato nel tempo. Ricordo ancora la prima volta che ascoltai Ella Fitzgerald. In casa mia non si ascoltava jazz e io conobbi questa straordinaria cantante solo intorno ai quattordici anni. Ricordo che rimasi incantata dalla sua grande capacità di muoversi liberamente all’interno della materia musicale. La stessa cosa mi capitò con Dizzy Gillespie e Charlie Parker. Questi sono stati (casualmente ma altrettanto fortunatamente) i miei primissimi ascolti. Il jazz è una musica che parla di libertà e si nutre della ricerca di libertà. Questo è l’aspetto che più di ogni altro ho sempre sentito e amato. Inizialmente l’amore è stato solo platonico, da ascoltatrice. Ho iniziato a studiare davvero questa musica e a pensare di cantarla solo più tardi, intorno ai vent’anni.

Tra Chiara Pancaldi e il jazz c’è di mezzo anche altro? Quale musica ascolta?

Tutta la musica! Amo molto anche Stravinskij, Puccini, Monteverdi, Bach, Mozart, Strauss, Scrjabin. La musica brasiliana di Tom Jobim, Chico Buarque, Milton Nascimento, Hermeto Pascoal, Guinga. La musica africana di Miriam Makeba, Angelique Kidjo e Cesaria Evora, ma anche Jeff Buckley, Eva Cassidy, Joni Mitchell, Bjork, i Radiohead e l’immenso Stevie Wonder. Molteplici generi generano sentimenti diversi e parlano a parti differenti della nostra personalità. Io cerco di non avere pregiudizi e di rimanere aperta ad ogni nuova esperienza. L’unica cosa che desidero è riuscire a cogliere il cuore e la sincerità di chi sta suonando.

C’è qualcuno in particolare che ha avuto un peso maggiore nella sua vita artistica?

Gli artisti già citati sono stati importanti nel mio percorso. Dovrei citare anche tutti i musicisti jazz che mi hanno influenzata e che continuano a stupirmi ad ogni ascolto. Ma sono davvero tanti! Cercherò di essere sintetica, in ordine sparso: Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Ella Fitzgerald, Billie Holiday, Carmen Mcrae, Shirley Horn e Lorez Alexandria, Yusef Lateef, Anita O’Day, Ahmad Jamal, Chet Baker, Kenny Dorham, Charles Mingus, Abbey Lincoln, Betty Carter, John Coltrane

Nel diario di Chiara Pancaldi c’è scritto…

Non ci sono molti segreti, ma tanti sogni. Mi piacerebbe cantare, cantare e cantare! Cantare sempre di più e cose sempre diverse, con musicisti diversi, per poter scoprire differenti aspetti della mia personalità musicale, migliorare e imparare a conoscermi più in profondità.

Alceste Ayroldi