Dopo aver trascorso circa otto anni in Francia, Matteo Bortone è tornato in Italia per costruire i suoi nuovi progetti. Con il giovane contrabbassista parliamo del suo futuro. Questa è la prima parte.
Matteo, iniziamo da Travelers, un quartetto italo-francese. Come è nato?
Il quartetto è nato a Parigi nel 2008, da una semplice suonata tra amici; c’è stato da subito un grande feeling e abbiamo immediatamente registrato qualcosa; tuttavia è stato solo una volta che ho finito il conservatorio nel 2011, che ho deciso di rimettere in piedi il gruppo. Ho scritto brani nuovi, abbiamo fatto un po’ di concerti e registrato, nel 2012, il disco che è uscito l’anno dopo.
Un sound che, però, non ricorda affatto l’Italia. Chi o cosa ti ha ispirato?
Sicuramente il rock, musica con la quale sono cresciuto, ha avuto un ruolo fondamentale nel sound del gruppo ma ci sono certamente tante altre fonti di ispirazione che, insieme, ho cercato di mettere insieme e tradurre in un linguaggio improvvisativo. Ho studiato e sono innamorato della tradizione jazzistica ma, contemporaneamente, mi sento molto affine al jazz moderno, quello appunto che si avvicina al rock. Personalmente, non amo rivendicare un genere piuttosto che un altro, credo che sia più importante provare a sintetizzare le proprie influenze sforzandosi di creare qualcosa di personale.
E’ difficile far ascoltare questo quartetto in Italia? E’ un jazz che il pubblico e gli organizzatori italiani apprezzano?
Non vivendo tutti in Italia non è facile a livello pratico però fino ad ora abbiamo avuto esperienze molto positive; dopo l’uscita del disco, nel 2013, abbiamo fatto diversi concerti in club come il Torrione, l’Ex-Wide, il Tubo e il Cantiere e credo che il pubblico abbia apprezzato la nostra musica. E’ difficile, in generale, suonare nei grossi festival in Italia; è risaputo che non ci sono molti spazi per i giovani e ancora meno per quelli che suonano musica diciamo «tagliente», ed è un peccato. Per quanto riguarda il pubblico ritengo che, in generale, si tende a sottovalutare un po’ troppo l’audience attraverso il luogo comune del jazz come «musica sofisticata»; in realtà credo che chi ascolta un concerto si accorge dell’energia, della personalità di un musicista o di una band, fermo restando un ascolto più o meno attento come prerogativa di partenza. Da parte mia, cerco di mantenere sempre una dose di spontaneità che mi aiuta a essere trasparente con i musicisti e con il pubblico.
Hai studi accademici in scienze del turismo, poi sei passato alla musica. Cosa ti ha condotto verso questa strada e perché hai abbandonato la prima?
A volte devi intraprendere una strada per capire quello che non vuoi fare. Dopo la laurea in turismo ho capito di non essere pronto per quel mondo lavorativo e volevo fare un’esperienza all’estero. Mi consigliarono Parigi poiché, all’unanimità, uno dei centri nevralgici del jazz europeo. Fino ad allora suonavo rock al basso elettrico ma ero già appassionato ed incuriosito dal jazz che tuttavia, conoscevo molto poco e comunque volevo fare un’esperienza non solo musicale: all’inizio infatti lavoravo come cameriere in un ristorante per imparare in fretta la lingua e girovagavo per la città. Imbracciato il contrabbasso (già lo suonicchiavo un po’), piano piano iniziai a suonare in giro e frequentai un paio di scuole ma l’ammissione al conservatorio superiore di Parigi fu l’evento decisivo. Da quel momento cominciai a pensare di fare seriamente con la musica.
Quali sono state le esperienze più significative che hai vissuto in Francia?
Una volta arrivato mi sono reso conto dell’innumerevole quantità di musicisti presenti e questo è stato fondamentale all’inizio, soprattutto perché suonavo il contrabbasso da poco e avevo bisogno di suonare tanto. A Parigi puoi fare anche tre sessions al giorno tutti i giorni e dopo quattro mesi non hai mai suonato con la stessa ritmica o con gli stessi solisti; questo è stato un enorme input. Qui ho fatto le prime registrazioni e i primi concerti, quindi devo moltissimo a Parigi. Sicuramente il conservatorio superiore è stata una delle esperienze fondamentali, credo che come scuola sia una delle più prestigiose e non solo dal punto di vista didattico ma anche per la considerevole apertura verso la composizione, non focalizzandosi esclusivamente sul solo linguaggio jazz ma abbracciando anche le musiche contemporanee. Questo è stato fondamentale per aiutarmi a cercare una mia voce perché volevo trovare l’anello di congiunzione tra le mie radici rock e le musiche improvvisate. Come dicevo anche prima, credo sia più interessante concentrarsi sul proprio percorso personale senza darsi limiti di generi, lasciando proprio quel pizzico di mistero che rende la musica magica.
Alceste Ayroldi
Foto: Catalina Mesa