Il ritorno di Letizia Gambi

Seconda puntata delle avventure jazzistiche della cantante napoletana, che anche stavolta si circonda di prestigiosi ospiti internazionali

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La storia di Letizia Gambi ci insegna che ogni tanto è bene credere alle favole. Nata a Napoli, si trasferisce in Lombardia dove inizia il suo percorso artistico di cantante, ballerina e attrice. La sua passione è soprattutto il jazz ed è nella scena milanese che muove i primi passi. Un brutto giorno, però, accade la cosa peggiore che possa capitare ad un musicista: Letizia perde improvvisamente l’udito dall’orecchio destro a causa di una rara condizione incurabile. È appena uscita dall’ospedale quando incontra casualmente Lenny White, quel tipo di leggenda della musica nera che risulta quasi inavvicinabile per noi comuni mortali. Decisa a non arrendersi al suo destino, si fa coraggio e gli sottopone la sua musica. White, che ancora non sa nulla del suo problema, resta impressionato, decide di prenderla sotto la sua ala e la invita in America per registrare un album di debutto con lui e musicisti di sua fiducia – gente del calibro di Chick Corea e Ron Carter e del compianto Gato Barbieri, per intenderci. Il problema medico non si è mai risolto, ma Letizia ha imparato a viverlo come una sfida e il lieto fine c’è stato comunque: il sodalizio artistico Gambi-White è più vivo che mai e ha appena dato alle stampe un secondo album, «Blue Monday», di rara bellezza. L’abbiamo incontrata a Milano, in attesa dei suoi concerti italiani (11 maggio a Roma e 19 maggio a Milano).

Come e quando hai conosciuto Lenny White?
Nel 2009 lavoravo già da qualche anno come cantante, muovendomi in ambito jazz: ero stata contattata da un management americano che era interessato a rappresentarmi, e che diceva di rappresentare anche Lenny White. Casualmente, qualche giorno dopo, Lenny avrebbe suonato al Blue Note di Milano: vivevo un periodo pieno di dubbi e di domande, quindi mi venne l’idea di andarci, per parlare direttamente con lui e capire come si trovava con questo fantomatico manager. Iniziammo a chiacchierare dietro le quinte e, quasi per gioco, gli chiesi cosa pensava di un progetto che mi frullava in testa: unire la musica afro-americana, e in particolare il jazz, con la mia cultura napoletana. Disse che lo avrebbe ascoltato volentieri. Quella sera stessa gli inviai il provino di un brano, My Town, e quello fu il primo passo. Di quel manager, comunque, non si è più parlato!

Per «Introducing Letizia Gambi» sei volata a New York per lavorare con musicisti leggendari. Ricordi il primo impatto con la città?
Quando ci penso ancora mi emoziono: nel giro di pochi mesi la mia vita è cambiata completamente. Nel settembre 2009 ero ricoverata in ospedale e pensavo che avrei smesso di cantare per sempre, mentre nel febbraio 2010 mi ritrovavo in una città che non avevo mai neanche visitato da turista, in compagnia di Lenny White, e i miei vocal coaches erano i coristi di Sting, Madonna, Bruce Springsteen… Con me in studio c’erano giganti del calibro di Chick Corea, Wallace Roney e Patrice Rushen. Mi sembrava di essere in un film. Lenny mi ha insegnato tutto: mi ha aperto la mente, cambiando completamente il mio punto di vista. Lo considero un secondo padre, il mio migliore amico, il mio maestro. Spero di poter ricambiare quello che ha fatto finora per me e per amore della musica dandogli delle grandi soddisfazioni.
Tra gli ospiti del tuo debutto c’era anche Gato Barbieri, scomparso di recente. Che ricordo hai di lui?
Meraviglioso, con una punta di tristezza. Era sempre allegro e mi parlava un po’ in spagnolo e un po’ in napoletano, che conosceva perché la sua prima moglie era mia concittadina. Mi disse che era felice di contribuire alla mia carriera, che dovevo essere parte del futuro della musica «buena». La sua umiltà e disponibilità mi hanno scioccata: era il mio idolo, e chiedeva continuamente a me se stava suonando bene! L’aspetto triste è che stava già molto male: è arrivato in studio con Laura, la seconda moglie, non ci vedeva più e doveva essere guidato. Mentre Gato suonava al buio, al di là del vetro, Laura ha cominciato a piangermi sulla spalla, abbracciandomi. Disse più volte che dovevo considerarmi fortunata perché forse quella sarebbe stata l’ultima registrazione della carriera di Gato: ormai per lui era troppo faticoso. E credo lo sia stata. Ho deciso che aprirò i miei concerti italiani con un omaggio alla sua musica immortale.

Cosa ti ha colpito di più del lavorare con i tuoi miti di sempre?
L’umiltà: persone che hanno fatto la storia del jazz, che avrebbero tutti i diritti di non prendere neppure in considerazione un’emergente come me, sono alla mano, generosi, disponibili, dalle grandi alle piccole cose. Un esempio su tutti: avevo appena cambiato appartamento in affitto e in quello nuovo non avevo l’asciugacapelli. Gil Goldstein e sua moglie, che avevo appena conosciuto, si sono offerti di prestarmelo e mi hanno portato a casa loro, una specie di museo pieno di memorabilia e Grammy Awards! Era una scena quasi surreale.

A proposito di Grammy Awards, «Introducing Letizia Gambi» è anche stato in considerazione ai Grammy 2013, giusto?
Esatto. C’è un lungo lavoro di burocrazia e pubbliche relazioni dietro la candidatura: bisogna iscrivere l’album alla competizione, e se viene accettato devi far sapere a tutti i membri votanti che il disco esiste. La cosa che mi ha resa più felice è che il sito ufficiale di Miles Davis ha voluto consigliare a tutti i membri del Grammy di votarmi: un grandissimo onore. Speriamo di poter replicare l’esperienza con il nuovo album.

Arriviamo a «Blue Monday», uscito qualche settimana fa. Un lavoro più legato alle radici del jazz, rispetto al precedente…
Il jazz è parte integrante della storia e delle tradizioni di un popolo, quello nero-americano, e io ne ho un grande rispetto: in Europa, a volte, tendiamo a dimenticarlo. Essere in Italia e dire «faccio la jazzista» è un conto, tutt’altra cosa è dichiararlo davanti a Ron Carter… Diciamo che ti viene qualche dubbio sulla legittimità della tua affermazione! Anche per questo, «Introducing Letizia Gambi» era più legato alle mie origini partenopee: mi sentivo credibile e autentica pur usando un linguaggio jazz. Ma quando ci siamo occupati di promuovere il primo album in America ci siamo accorti che le radio jazz avvertivano un po’ la mancanza dello swing, così abbiamo deciso di sperimentare di più in questo senso. Anche perché, dopo anni a lavorare e studiare con mentori di quel calibro, mi sentivo più pronta. Le mie radici mediterranee, però, restano una costante.

Uno dei brani che fa più da ponte tra le due culture è la tua versione di Sweet Georgia Brown. Com’è nata?
Una delle mie grandi ispirazioni è Anita O’Day, la grande cantante bianca che aveva ottenuto il rispetto dei colleghi neri. Studiandone il repertorio avevo scovato la sua Sweet Georgia Brown, il cui ritmo ricorda le percussioni africane; mi sarebbe piaciuto fare qualcosa di analogo ma con un riferimento alla mia italianità. Abbiamo pensato a una tammurriata: la mia ispirazione è il Coro delle lavandaie, dall’opera La Gatta Cenerentola di Roberto De Simone (nell’allestimento scenico, il ritmo nasce dal gesto di lavare i panni a mano). La nostra interpretazione inizia con una sorta di coro popolare e prosegue con uno swing tirato. Potevamo accontentarci di questo, ma mentre eravamo in studio Lenny in un lampo di genio ha invitato la pianista, Helen Sung, a suonare la melodia di Dig, un brano scritto da Miles Davis sullo stesso giro di accordi di Sweet Georgia Brown; così ho deciso di cantare parte del testo sulla linea melodica di Dig. Insomma, una sfida e un viaggio intorno al mondo.

Un’altra canzone che evidenzia la tua italianità in chiave decisamente jazz è Without You, dedicata a Pino Daniele.
Sognavo di averlo ospite in uno dei miei dischi. Pino è sempre stato un punto di riferimento per me. Avremmo voluto contattarlo proprio per questo secondo album, ma è scomparso prima che potessimo farlo. La notte in cui è venuto a mancare, io ero a Milano e Lenny a New York: lavoravamo ai brani tramite Skype, e lui mi mandò l’mp3 di una melodia che avrei dovuto sviluppare. Mentre la ascoltavo scoprii la tragica notizia, e nei giorni successivi mi fu impossibile non associare quelle note a Pino Daniele. Il brano è un omaggio sia nelle musiche che nel testo: i versi del ritornello sono interamente costruiti utilizzando titoli di sue canzoni, e mi accompagnano – oltre a Lenny – Ron Carter e Donald Vega, un ulteriore omaggio a Pino e al suo amore per i jazzisti americani.

Parliamo anche della traccia che dà il titolo al disco, Blue Monday. Cosa rappresenta per te?
Una riflessione sul perché il mondo vada a catafascio e nessuno cerchi di migliorarlo, nel proprio piccolo. Siamo tutti collegati, siamo una cosa unica. Come dico nel testo, il futuro inizia oggi, perché nel momento in cui decidi di cambiare, il presente diventa l’inizio di un avvenire migliore. Il Blue del titolo ha una doppia valenza: per gli americani significa «triste», a me invece richiama il blu del cielo e del mare della mia terra.

Qual è il migliore augurio che potresti fare al tuo album, in questo momento?
Di toccare davvero le persone. Il jazz è identificato come una musica colta e difficile ma io credo che possa arrivare a chiunque, soprattutto dal vivo. Vorrei far riflettere e lasciare un messaggio, un sorriso, una melodia nel cuore di chi ascolta. Dare delle emozioni attraverso la musica è il successo più grande per me.

Marta «Blumi» Tripodi