Il contrabbasso free-rock di Pierpaolo Martino

Il vulcanico contrabbassista e docente universitario barese parla dei suoi ultimi progetti e delle sue molteplici attività.

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Pierpaolo, iniziamo dal tuo “essere musicista”. Quando e perché hai scelto il basso e il contrabbasso come strumento?
Il mio interesse per il basso nasce nella metà degli anni Ottanta ossia nell’ ambito della new-wave e nello specifico nel 1987 (un anno che considero centrale nella storia della popular music) in occasione della pubblicazione di album chiave di band quali Smiths, Cure e U2. Fui particolarmente colpito prima dalla funzione del basso in un album come «The Joshua Tree» (ossia del lavoro molto semplice e incisivo di Clayton sui loop di Brian Eno) e poi dal lavoro magistrale di Andy Rourke all’ interno degli Smiths. Avevo dodici anni ero alle primissime armi e le figure di Rourke pensate in contrappunto con quelle della chitarra di Marr mi sembravano inaccessibili e tuttavia estremamente “Charming” come avrebbe detto lo stesso Morrissey. C’era poi Bowie che l’anno prima aveva pubblicato «Absolute Beginners», mio fratello aveva comprato il 12 pollici che ascoltavo spessissimo in versione strumentale soffermandomi proprio sul basso. Iniziai invece a suonare il contrabbasso nel 1993 frequentando la classe di contrabbasso del Conservatorio Niccolò Piccinni di Bari sotto la guida del Maestro Giovanni Rinaldi. In realtà iniziai a suonare il contrabbasso dal vivo solo più tardi nel 1997 soprattutto in contesti legati alla world music, ossia con band quali Pane e Rose e soprattutto Radicanto con cui incisi diversi dischi e con cui ero spessissimo in tour.  Sempre nel 1997 iniziai a suonare con il chitarrista Adolfo La Volpe con cui suono tutt’ora e con il quale lavoriamo a diversi contesti dalla world – con il trio Fore’ che include il musicista e musicologo Massimiliano Morabito – al post-rock dei Mondegreen, con Giacomo Mongelli alla batteria. 

Immagino che i tuoi inizi siano stati pieni di rock. All’improvvisazione quando sei arrivato?
In realtà i miei inizi non sono stati pieni di rock; tra il 1990 e il 1991 facevo parte di una band indie che si chiamava Clocks, con cui suonammo pochissimo in giro, ma quelli erano già gli anni in cui mi stavo avvicinando al jazz ascoltando Chet, Metheny e poi i grandi classici soprattutto Miles e Bill Evans. L’ unica band rock che continuavo ad ascoltare erano gli Smiths (e poi il Morrissey solista). Sul basso (allora usavo un sei corde) sviluppai una tecnica molto chitarristica, arrangiando brani di Metheny e Morricone per solo basso e iniziai a suonare in duo con un sassofonista tenore. Quella del duo sax/(contrab)basso è tra l’altro una formula a cui sono molto legato. In questi anni scoprii l’ ECM (e più tardi la Tzadik) e iniziai ad ascoltare (e amare) musicisti che sono poi diventati dei miei punti di riferimento ossia John Surman, Eberhard Weber, John Zorn e soprattutto Bill Frisell il cui plurilinguismo di linguaggi e la cui trasversalità sono diventati aspetti imprescindibili del mio modo di pensare la musica. Sono arrivato invece all’ improvvisazione verso la fine degli anni Novanta (anche grazie all’ascolto dei primissimi Frisell e Zorn). Del resto qui in Puglia quelli erano gli anni di Festival quali l’Europa Jazz e delle primissime edizioni del Talos Festival, musicisti e in particolare contrabbassisti quali Paul RogersBruno Chevillon (con il suo straordinario solo su Pasolini) e  Joelle Leandre (della quale frequentai una masterclass organizzata qualche anno dopo da Gianni Lenoci) ebbero un enorme impatto su di me. Iniziai a suonare improv. con lo stesso La Volpe e a partire dal 1999 prese il via la  mia collaborazione con il sassofonista Vittorio Gallo. Con Gallo e La Volpe formammo un band il Diomira Invisble Ensemble molto attiva in ambito nazionale al punto di diventare l’ensemble di riferimento di Eugenio Colombo per due suoi lavori Tempiduri del 2002, United Front del 2003 entrambi editi da Splasc(h) e per la colonna sonora del film Alla Fine della Notte di Salvatore Piscicelli. I primi anni 2000 saranno tra l’altro gli anni in cui paradossalmente tornerò al rock e soprattutto all’ ascolto di band quali Radiohaed (da  Kid A in poi) , Mogwai, Goodspeed, Sonic Youth, Wilco e Yo la Tengo. A mio avviso i due linguaggi – il jazz e il rock – sono inseparabili; forme di incontro/scontro e compenetrazione dei due linguaggi sono alla base di lavori magistrali proprio di band quali Radiohaed, Wilco e Yo La Tengo e soprattutto negli ultimi due casi l’ apertura verso il noise e l’ improv ha portato ad esiti straordinari.

La tua ricerca musicale segue quella letteraria. So bene che la domanda che sto per farti costituisce il nucleo principale della tua attività di ricerca anche universitaria. Dopo diversi anni di attività in tal senso, quali sono i principali legami storici che esistono tra musica e letteratura?
Qualche anno fa scrivendo le note introduttive a un volume intitolato Words and Music. Studi sui rapporti tra letteratura e musica in ambito anglofono (Armando 2015) notavo come in ogni approccio a quello che potrebbe essere definito dialogo tra musica e letteratura bisognerebbe partire da ciò che questi due linguaggi hanno in comune. La loro somiglianza rimanda, infatti, al rapporto di contiguità che se ci pensi sin da tempi remoti esisteva tra lingua e musica, sino a giungere a contesti in cui poesia e musica finiscono spesso per coincidere. Del resto anche se è all’immaginazione che musica e letteratura si rivolgono e quest’ultima non ha bisogno di giustificazioni per creare legami fra percorsi apparentemente lontani, la scrittura letteraria attiva processi comunicativi che in sostanza non differiscono da quelli del linguaggio musicale, dato che in entrambi i casi il detto è fondamentalmente pretesto del dire. In questa prospettiva, il senso (quello che comunemente percepiamo come detto) è dato dalla percezione stessa del “come”; in breve il senso non è semplice idea, concetto, da comunicare immediatamente, ma vive nel tempo imprevedibile dell’umano. E’ proprio ciò che è umano, ad essere in qualche misura espresso (mai, va detto, in maniera definitiva) da musica e letteratura: è come se l’ascoltatore e il lettore si mettessero in comunicazione con uno stesso-altro partecipando ad un dialogo fatto di meraviglia, stupore, interrogazione. Alla domanda cosa ci dicono il musicista e lo scrittore potremmo forse rispondere con Lévinas che “l’artista dice, persino il pittore, persino il musicista, dice l’ineffabile”. Il linguaggio musicale, ancor più di quello letterario, resiste in sostanza ad ogni tentativo di identificazione e sistematizzazione; la musica, infatti, è linguaggio iconico, come avrebbe detto Peirce, che eccede tutto ciò che è previsto e prevedibile e soprattutto la parola, per parlare essa stessa alla dimensione corporea, confondendo significato e emozione e per dirla con T.S. Eliot “memory and desire”.

Ora, entrando nel dettaglio, tra jazz e letteratura – parlando dei rispettivi linguaggi – qual è il filo rosso?
A mio avviso entrambi i linguaggi ossia jazz e letteratura rimandano a concetti chiave quali dialogo, accoglienza e migrazione. Ciò che più affascina del jazz è la sua capacità di abitare gli interstizi, di vivere la soglia tra differenze come spazio privilegiato e sempre sfuggente di ascolto ed enunciazione. Il jazz è un linguaggio profondamente radicato in pratiche e processi complessi quali quelli di traduzione e migrazione. Su questo aspetto insiste non solo Shipton ma anche Ted Gioia  che nelle note conclusive di The History of  Jazz  scrive di un rifiuto da parte del jazz di star fermo (Gioa 2011), mentre Stefano Zenni nella sua Prospettiva globale alla storia del jazz sottolinea come nessuna musica più del jazz abbia a che fare con l’idea stessa di migrazione (Zenni 2012: 15). In sostanza il jazz è una forma di scrittura che non può essere contenuta, un linguaggio che risulta essere sempre in viaggio, traducendosi in spazio accogliente che a sua volta chiede accoglienza. Il jazz sin dalle sue origini – con la sua complessa sintesi di elementi africani ed euro-americani – si pone come musica basata sull’ interplay e, in questo senso, esso ha a che fare, con la ridefinizione dell’identità in termini dialogici. Spesso nel jazz non vi è uno spartito da seguire o eseguire, ciò che si chiede al musicista meglio ciò che il musicista chiede a se stesso è di ascoltare il proprio corpo e quello dello strumento e soprattutto il corpo – la grana direbbe Roland Barthes –altrui al fine di tradurre il suono in suoni a venire, in una dimensione orizzontale, democratica che non concepisce alcuna verticalità o autorità. Il jazz può divenire in questo senso un modello per un’interazione sociale libera e non prescritta e per la costruzione di una soggettività pienamente polifonica. Il jazz è inoltre in grado di andare oltre se stesso dialogando ossia muovendosi in direzione di altre forme d’ arte quali la pittura, il cinema e la letteratura. Tutte queste forme artistiche, e in particolare la letteratura, sono del resto sistemi di modellazione che spesso dialogano tra di loro e attraverso cui leggiamo e conferiamo un senso alla realtà. C’è poi un’ idea a cui sono molto legato ossia occorre mettersi letteralmente in  ascolto del testo letterario che come ben insegna Bachtin è fatto di polifonia, di voci sempre altre ed eccedenti. Il processo poi semiotico di conferimento di senso a un testo letterario è, se ci pensi, esso stesso un processo improvvisativo, sempre imprevisto e imprevedibile.

Da qualche tempo a questa parte stai portando avanti un bel progetto su David Bowie. Ce ne vorresti parlare?
Certo, il punto di partenza del progetto è in realtà letterario ossia coincide con la stesura e pubblicazione della mia monografia edita da Mimesis intitolata La Filosofia di David Bowie. Wilde, Kemp e la musica come teatro (2016). Parlare della musica di Bowie come teatro significa per me innanzitutto pensare e tradurre il discorso artistico di uno delle più grandi voci dell’era postmoderna, in una sorta di dialogo tra dialoghi in cui la musica interroga altri linguaggi artistici e in cui l’immagine, la parola letteraria e il suono (musicale) si ridefiniscono a vicenda. L’ultimo capitolo del volume pone al centro dell’analisi l’aspetto forse meno indagato nel discorso bowiano, ossia la rilevanza dell’ innovazione musicale e della ricerca sonora nella sua filosofia artistica. Proprio la sua ultima opera, ossia (Blackstar), sembra invitarci – nel suo minimalismo grafico e iconico e nell’ apparente essenzialità dei suoi rimandi intertestuali – ad accogliere e a farci accogliere dalla voce e dalla musica, messa in scena da attori sonori straordinari quali Ben Monder, Donny McCaslin, Tim Lefebvre, in quanto risorse profondamente sperimentali e drammatiche. Analizzando e decostruendo da critico l’opera di Bowie mi è poi venuta in mente l’ idea di un solo per contrabbasso intitolato Bass Star. A Double-Bass Tribute to David Bowie, ossia di un tributo a Bowie per contrabbasso, nastri ed elettronica. Si tratta di un omaggio che si pone in realtà come narrazione infedele e trasversale scritta proprio a partire dai margini del discorso-Bowie, decostruendo e ri-componendo invenzioni melodiche, drones elettronici, giri di basso, tracce vocali, frammenti di intervista, reading di testi e altro ancora. Il risultato è il frutto di una poetica figlia per certi versi delle sperimentazioni elettroniche berlinesi di Bowie e Brian Eno e della pulsione jazzistica e improvvisativa che nutre appunto il suo ultimo lavoro, Blackstar. Una performance sonora pensata “dal basso” dunque che ricorda e per certi versi riscrive il contributo di compagni/e di viaggio fondamentali per Bowie quali i bassisti Tony Visconti, Trevor Bolder, Gail Ann Dorsey, Tim Lefebvre e il chitarrista – nonché genio dell’elettronica – David Torn.

Nel 2017 hai inciso un disco con Adrian Northover e Vladimir Miller interamente strutturato sull’improvvisazione. Quando siete entrati in sala di registrazione, quale criterio vi siete dati?
Ho suonato per la prima volta con Adrian e Valdimir all’ Iklectick di Londra nel 2016 e già allora si era trattato di un concerto completamente improvvisato in cui però ciascuno metteva in campo il suo mondo; in particolare Adrian una certa spigolosità legata alla lezione di Evan Parker e Vlad un approccio misurato e contemplativo alla composizione istantanea. Abbiamo poi organizzato un paio di live in Puglia nel giugno 2017 – uno presso La Stanza dell’Eco uno spazio riservato alla ricerca artistica e musicale che dirigo qui a Bari con mia moglie Fanny Cavone – ed è in questa occasione che abbiamo registrato il disco. Anche qui non ci siamo dati nessun criterio, il piano dello studio di Monopoli aveva uno splendido suono a detta di Vlad e di sicuro questo è un aspetto che ha influenzato la session, in cui il lavoro di Miller è assolutamente centrale.

A dispetto delle aspettative, ne è venuto fuori un disco caratterizzato da ampi passaggi melodici e da armonie ariose. Colpa (o merito) di qualcosa in particolare?
Infatti la componente melodica e armonica viene fuori proprio dalla capacità di Miller di improvvisare “componendo” dei temi molto incisivi in tempo reale! Un brano a cui siamo particolarmente legati è The Window in cui ho risposto alle invenzioni melodiche di Vladimir pensando il contrabbasso come un personaggio all’ interno di un romanzo woolfiano, ossia Mr Ramsay in Gita al Faro. Di qui il nome della traccia che è poi quella della prima sezione del romanzo della Woolf. Anche Adrian ha un ruolo molto lirico nel brano, simile a quello ricoperto dalla pittrice Lily Briscoe, mentre il lavoro armonico del piano di Miller rimanda al ruolo del personaggio centrale del romanzo ossia Mrs Ramsay. L’ ultimo brano del cd – pubblicato poi da FMR Records in Inghilterra – si chiama invece The Echo Chamber e rimanda all’ esperienza del nostro live in Stanza dell’Eco. Tra l’altro saremo nuovamente in tour la prossima estate con un live in Italia ad Agosto e dei live a Brighton e dintorni a metà Settembre.

Ci puoi parlare dei tuoi progetti futuri?
E’ in uscita per Dodicilune «Howl» un album dedicato a Allen Ginsberg in duo con Vittorio Gallo al sax, un lavoro in cui si alternano momenti contemplativi di stampo nordeuropeo (con echi di Surman e Weber) a momenti legati al free e all’avant di matrice americana da Ornette a Zorn, nella convinzione che sia impossibile costringere il mondo della beat generation, con la sua richezza e eccedenza, all’ esperienza del Be-Bop. Entro la fine dell’anno sarà invece pubblicato in Inghilterra «Frequency Disasters» un album, registrato ai Wilton Way Studios di Londra, in trio con Valentina Magaletti alla batteria – straordinaria  musicista italiana che risiede a Londra da anni – e il grandissimo Steve Beresford, al piano, ai toys e all’ elettronica, il padre di un certo modo ironico e teatrale di declinare l’ improv. in ambito anglosassone. Con un altro grande musicista inglese Dave Tucker – già membro della celebre band post-punk di Manchester The Fall nonché figura centrale della scena improv londinese negli ultimi trent’anni – ho invece di recente registrato un album in duo (per chitarra elettrica e contrabbasso) di matrice noise/avant-rock che sarà pubblicato a breve sempre in Inghilterra. Sono poi molto felice del lavoro che stiamo svolgendo con il Gruppo di Studio sulla Cultura Pop del Dipartimento LELIA dell’Università di Bari, attraverso l’organizzazione di cicli semestrali di Lezioni Aperte sul Pop, in cui abbiamo ospitato artisti e studiosi di fama internazionale tra cui Iain Chambers, Franco Fabbri, Silvia Albertazzi, Ashley Kahn, Gareth Sager, Charlemagne Palestine. Un modo di riflettere sulla musica in senso corale ma anche e soprattutto un invito all’ascolto e ad ascoltar-ci in un periodo storico molto difficile segnato dal trionfo di un certo modo di intendere l’immagine e da ossessioni e deliri identitari di ogni tipo.
Alceste Ayroldi