Umbria Jazz 87, l’ultimo volo di Gil Evans

La storia del primo evento mediatico di commistione tra il jazz e le star dl rock, voluto da Carlo Pagnotta con un vero colpo di genio e che fece accendere i riflettori internazionali su Umbria jazz

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Gil Evans a Umbria Jazz 1987

Il paradosso della lunghissima carriera di Gil Evans sta nel fatto che, nonostante la grande notorietà raggiunta con i dischi realizzati tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta al servizio della tromba di Miles Davis, solo negli ultimi anni di vita l’arrangiatore canadese riuscì ad avere una orchestra abbastanza stabile da potersi esibire con continuità e frequenza soprattutto là dove era più amato: Europa e Giappone.

Dopo aver passato gli anni Settanta, con sporadiche occasioni di lavoro, a mettere a punto il suo nuovo universo musicale fatto di libertà e coinvolgimento dei musicisti sia nell’arrangiamento sia nella creazione collettiva, all’inizio degli anni Ottanta fioccarono le proposte di ingaggi e collaborazioni. Nel 1983 Evans – rientrato negli Stati Uniti dal tour inglese con la British Orchestra e seguito da Chris Hunter che voleva a tutti i costi continuare a suonare con lui – raccolse la proposta dello Sweet Basil, il club newyorkese che gli propose l’ingaggio più lungo della sua carriera. Peraltro la cosiddetta Sweet Basil Band si esibì spesso anche in altri locali come il Seventh Avenue South, di proprietà dei fratelli Brecker, e il Lush Life al Greenwich Village. Ma fu allo Sweet Basil, grazie a una frequenza di programmazione settimanale, che l’orchestra sviluppò l’incredibile coesione creativa destinata ad infiammare le platee di mezzo mondo con la sua devastante energia. La band si stava trasformando in un’entità viva e pulsante, un gigantesco Golem fatto vivere dai musicisti che lo governavano come abili marionettisti, ispirati dalla carismatica personalità del leader. L’organico variava di continuo, ed erano a volte presenti musicisti destinati a non apparire sui dischi registrati in quelle occasioni: Jaco Pastorius, David Sanborn, Mike Stern, Bill Evans, Terumasa Hino, Kenwood Dennard. Questi, come altri più assidui quali Hunter, Hiram Bullock, George Adams, Howard Johnson, Pete Levin e Lew Soloff, alle prese con temi dal dinamismo eccitato ed esplosivo (soprattutto quelli di Jimi Hendrix), avrebbero potuto scoperchiare il tetto dello Sweet Basil e gli spettatori erano letteralmente sbigottiti da tanta forza. Da un punto di vista musicale anni luce separavano i raffinati ma rigidi arrangiamenti evansiani degli anni Cinquanta da questo loud jazz viscerale, dal voicing eccitato che costituiva la creazione improvvisata di un arrangiamento collettivo. Critica e pubblico erano concordi: non esisteva band migliore al mondo. Armato di una orchestra così coesa e formidabile, Gil affrontò gli ultimi anni di vita in un crescendo rossiniano, che ebbe il suo trionfale epilogo nelle notti perugine di Umbria Jazz 87. Ma andiamo con ordine.

PER LA PRIMA VOLTA UMBRIA JAZZ APRIVA LE PORTE A UNA STAR DEL ROCK OSANNATA DA MIGLIAIA DI FAN, MA DIVIDENDO IL PUBBLICO TRA «PURISTI» AVVERSI ALLE CONTAMINAZIONI E SOSTENITORI ENTUSIASTI

Il 1986 venne archiviato dalla band dello Sweet Basil come l’anno della definitiva consacrazione internazionale. I due doppi lp dello Sweet Basil avevano avuto vasta eco e tutti attendevano in Europa l’arrivo dell’orchestra, che fece trionfali tournée nei mesi di maggio, luglio e ottobre. L’interesse dei discografici per collaborazioni di vario genere non era mai stato così forte, e gli impegni erano talmente pressanti da richiedere l’ingaggio di una giovane allieva di Bob Brookmeyer, ovvero Maria Schneider: all’inizio come copista, e poi con sempre maggiori responsabilità di arrangiamento sotto la guida di Gil. In questa prospettiva, il 1987 si annunciava come il più intenso anno di esibizioni concertistiche per l’orchestra.

Il primo appuntamento di grande rilievo fu il concerto per il 75° compleanno di Evans, che ebbe luogo il 13 maggio all’Hammersmith Odeon di Londra e fu trasmesso in diretta radiofonica dalla BBC. L’emittente britannica stampò poi su disco la registrazione della serata, inizialmente in poche copie a uso di radiodiffusione e poi, nel 2000, in un doppio cd della serie «Jazz Legends» messo regolarmente in commercio. Alla band dello Sweet Basil si erano aggiunti svariati ospiti di rilievo come Steve Lacy, Airto Moreira, John Surman, Palle Mikkelborg e Van Morrison. Il repertorio spaziava largamente tra i brani dei prediletti Hendrix, Mingus e Parker, ma fanno capolino due brani dei Police: Murder By Numbers e Synchronicity. Infatti, due mesi più tardi, era già in programma un evento di ben altra portata mediatica: Gil Evans e Sting a Umbria Jazz 87.

Sting, grande star internazionale, musicista eclettico e intelligente nonché protagonista di una fugace apparizione nel disco di Miles Davis «You Are Under Arrest» (1985), da tempo si stava confrontando con il jazz e si era circondato di musicisti di vaglia come il sassofonista Branford Marsalis e il bassista Darryl Jones. Tra la fine del 1985 e l’inizio del 1986 si era presentato allo Sweet Basil. Gil lo aveva accolto cordialmente, manifestando un certo interesse per la linea di basso di Walking On The Moon e gli aveva proposto di cantare con la band. Di fronte all’entusiastica adesione di Sting vennero così scelti un paio di brani di Hendrix (Little Wing e Up From The Skies) oltre a There Comes A Time di Tony Williams, che nell’album omonimo (RCA, 1976) aveva visto protagonista la voce di Hannibal Marvin Peterson. Il cantante e bassista britannico cantò quindi tali brani in un paio di serate allo Sweet Basil e, assai coinvolto dalla situazione, propose a Evans e alla band di suonare nel suo imminente album, «Nothing Like The Sun», che fu registrato nella primavera del 1987. Il risultato fu proprio Little Wing, dove però si possono ascoltare soltanto Hiram Bullock, Mark Egan e Kenwood Dennard, mentre a Gil fu accreditato l’arrangiamento.

Non era molto: ma bastò ad accendere la miccia. La notizia dell’incontro tra i due aveva rapidamente fatto il giro del mondo tra gli addetti ai lavori, e la più geniale delle intuizioni venne a Carlo Pagnotta, patron di Umbria Jazz, fino a quel momento votato al jazz più ortodosso. Verso la fine del 1986 Pagnotta volò a New York per proporre un grande concerto con Sting nello stadio di calcio di Perugia durante Umbria Jazz 87, oltre a un ingaggio per tutte le sere del festival per la band dello Sweet Basil. Mentre con Gil non vi furono problemi a perfezionare l’accordo, con il management di Sting a Pagnotta toccò passare notti insonni: malgrado avesse firmato il contratto in gennaio, ad aprile si vide recapitare un telex in cui si annunciava l’annullamento della data. Dopo una febbrile ricerca telefonica durata un giorno intero, Pagnotta riuscì a parlare direttamente con Sting, che gli disse di non preoccuparsi: la sera precedente aveva provato con Gil allo Sweet Basil, e il concerto si sarebbe tenuto. Oggi Pagnotta ricorda che si sentì tranquillo solo nel momento in cui vide gli artisti salire sul palco. Per la prima volta il festival apriva le proprie porte a una star del rock osannata da migliaia di fan, ma dividendo il pubblico tra «puristi» avversi alle contaminazioni e sostenitori entusiasti.

Nella primavera si pose il problema di scegliere il repertorio ed arrangiare i brani. Gil era troppo stanco e impegnato e chiese aiuto a Maria Schneider. Come nella miglior tradizione di Evans, il tempo a disposizione era pochissimo. A Schneider fu chiesto di arrangiare i brani di Sting basandosi sugli spartiti in commercio e su un vecchio nastro registrato dallo stesso cantante, mentre Gil tenne per sé l’arrangiamento di Strange Fruit, il brano reso immortale da Billie Holiday e l’unico che non figurava nel repertorio di entrambi i leader della serata. Maria lavorò freneticamente per portare a compimento l’incarico ma, la notte prima delle prove, Gil le chiese di occuparsi anche di Strange Fruit. Durante le prove Sting chiese dei chiarimenti e scoprì a quel punto che gli arrangiamenti non erano stati scritti da Evans ma dalla Schneider, in quanto toccò a lei rispondere. Nondimeno finì per complimentarsi con Maria, nonostante le sue interpretazioni del momento differissero ormai non poco da quelle del vecchio nastro consegnato alla giovane arrangiatrice.

Dopo il concerto-compleanno londinese Gil si esibì due volte a Parigi con Laurent Cugny, prese parte alle registrazioni del già citato disco di Sting e volò in Canada prima per il Montreal Jazz Festival poi per un concerto a Toronto. Si era alla fine di giugno e Umbria Jazz era alle porte. L‘evento prese dimensioni mediatiche internazionali e la RAI si mobilitò per trasmettere il concerto in diretta tv, invitando anche Gil ed Anita come ospiti a Fantastico, il popolarissimo show televisivo della domenica pomeriggio. In tutta la vita Evans non aveva mai goduto di tanta visibilità e popolarità, tale da farlo entrare nelle case di milioni di italiani attraverso il piccolo schermo. L’attesa era enorme e lo stesso festival sembrava essersi diviso in due parti separate: Umbria Jazz e Umbria Sting. In occasione della permanenza dell’artista in città vennero prese eccezionali misure di sicurezza e si dovette affrontare l’arrivo di molte migliaia di fan giunti appositamente per il concerto. Nel giorno fatidico i biglietti erano in gran parte venduti, con circa 25.000 spettatori assiepati nello stadio cittadino. Gil non aveva mai suonato per un pubblico così ampio e l’ovazione della folla fu anche per lui enorme, a coronamento non solo di quel concerto ma anche di una lunga carriera vissuta in gran parte nell’ombra. La scelta dei brani era bilanciata tra i due artisti: Up From The Skies, Little Wing e There Comes A Time provenivano dal repertorio dell’orchestra, Shadows In The Rain, Consider Me Gone, Syncronicity, Walking On The Moon, Message In A Bottle facevano parte del repertorio degli ormai disciolti Police: solo la struggente Strange Fruit era la novità preparata per l’occasione. L’orchestra suonò benissimo, con grande precisione e controllo, lasciando la parte del leone a Sting; gli assolo strumentali furono concisi e lineari, come si conveniva in un tale contesto. Gli arrangiamenti delle canzoni di Sting furono molto simili agli originali, resi vividi dalla fitta ed elegante tessitura dell’orchestra. Di rado l’incontro tra jazz e rock ha donato momenti così affascinanti. Il canto di Sting, a momenti tremulo e cangiante, incontra le atmosfere misteriose ed ondeggianti proprie di Gil Evans in un coerente connubio di rara intensità.

Al di là delle tiepide dichiarazioni di circostanza su questo progetto, probabilmente Gil Evans non ne fu mai molto interessato o entusiasta. Comunque sia, il concerto riscosse un successo straordinario e risultò un trionfo artistico per tutti i suoi protagonisti. Per Carlo Pagnotta fu una scommessa vinta, che proiettò il festival nel novero delle manifestazioni più importanti del pianeta ingigantendone fama e visibilità. I fan di Sting ebbero la possibilità di sentire il loro idolo accompagnato dalla più importante orchestra di jazz in circolazione in quegli anni. I membri della band ebbero l’intimo piacere di suonare per un pubblico enorme e in diretta televisiva. Ancora oggi molti considerano quella edizione di Umbria Jazz la più grande e riuscita di sempre.

Ma se l’evento mediatico era ormai compiuto, la musica più grande doveva ancora arrivare: per le sette notti che seguirono, l’orchestra si esibì da mezzanotte in poi in una cornice inusuale e di rarefatta bellezza. Nella sua lunga esistenza, la duecentesca chiesa di San Francesco al Prato aveva subito numerosi crolli, a causa di un terreno non sufficientemente consolidato, e si presentava a cielo aperto con i soli muri perimetrali dell’abside a fungere da palcoscenico per l’orchestra. I musicisti arrivavano a suonare il repertorio classico dello Sweet Basil, carichi a mille per il trionfale successo del concerto allo stadio e con la serenità data dal poter suonare sette sere di fila nel medesimo luogo senza sottoporsi a faticosi viaggi. Un’atmosfera di buonumore aleggiava nella band, favorita anche dall’ottimo stato di forma del leader.

Gianni Grassilli, il tecnico del suono incaricato di amplificare quei concerti, rammenta ancora oggi lo straordinario rispetto di tutti i musicisti nei confronti di Gil, per il quale  avevano una sorta di venerazione. La voglia di fare ogni sera di meglio e di più era palpabile tra tutti i musicisti. Ognuno chiedeva al tecnico di alzare il livello di volume del proprio monitor, che non doveva mai essere inferiore a quello del vicino. Così già dal palco la musica era a tal punto amplificata da essere sufficiente a farsi ascoltare dal pubblico. Complessivamente il volume era così forte che a metà di via dei Priori, la lunga strada in salita che porta dalla chiesa al centro della città, si udiva perfettamente il suono della band, e la città era inondata dalla musica straordinaria che scaturiva da san Francesco al Prato. A differenza dell’ordine e della compostezza visti nell’accompagnare Sting, qui la musica assumeva i contorni di una corrida, dove ognuno voleva primeggiare in assolo dalla libertà assoluta. Ma più che mai era il collettivo ad emergere: i musicisti giocavano con frammenti dedei temi alimentando i continui call and response, le idee abbozzate da un solista e riprese da altri due o tre assieme per snodarsi in nuove forme totalmente improvvisate, e il leader a dirigere ed indirizzare questo fiume in piena con pochi gesti ed rare note al piano elettrico. Con una bandana sulla fronte e abiti esotici, Gil sembrava un santone, ieratico timoniere capace di spingere una big band là dove nessuno era mai arrivato, nel più sublime equilibrio tra le composizioni e la totale libertà nell’improvvisazione.

Per fortuna Grassilli prese autonomamente la decisione di registrare tutta la musica delle sette serate, peraltro con una qualità sonora straordinaria che permette a ogni strumento di uscire con perfezione millimetrica ma, soprattutto, restituisce con ampiezza inusitata la travolgente concitazione del palco. Le ultime due notti i concerti si spostarono da san Francesco al Prato ai giardini del Frontone, dove il riverbero acustico era minore, tanto che Grassilli e il suo collaboratore Corrado Faccioni ne trassero la maggior parte delle registrazioni che poi finirono su disco. Oggi dobbiamo essere grati a entrambi perché è grazie a loro che fu consegnata alla storia una gloriosa pagina di musica.

A DIFFERENZA DELL’ORDINE E DELLA COMPOSTEZZA VISTI NELL’ACCOMPAGNARE STING, OGNI NOTTE LA MUSICA ASSUMEVA I CONTORNI DI UNA CORRIDA, DOVE OGNUNO VOLEVA PRIMEGGIARE IN ASSOLO DI LIBERTA’ TOTALE

I musicisti erano immersi in un ambiente totalmente favorevole, la felicità sembrava accompagnare ogni nota e l’orchestra usava i temi come giocattoli con cui divertirsi a ogni concerto. Questo materiale straordinario rimase nei cassetti fino al 2000, quando finalmente Egea decise di pubblicarlo su due cd separati, dal titolo «Live At Umbria Jazz». Grassilli passò una copia dei nastri a Miles Evans, che decise le parti da utilizzare nei dischi. C’è da chiedersi se non varrebbe la pena pubblicare oggi un’integrale, visto il sublime valore della musica. I due già straordinari volumi «Live At The Sweet Basil», che avevano destato l’interesse mondiale proiettando la band al primo posto dei referendum della critica, pur rimanendo un riferimento assoluto in termini di intensità, vengono eguagliati e forse superati per capacità di improvvisazione collettiva, in alcuni momenti delirante.

Pagnotta aveva dato carta bianca a Gil per portare a Perugia il migliore organico possibile, e la band rappresentava davvero una summa dei migliori solisti che vi avevano partecipato fin dalla sua creazione nel 1983. Sontuosa la formazione, con Chris Hunter al sax alto e soprano, John Surman al baritono e alle tastiere, George Adams al sax tenore, Lew Soloff, Miles Evans e Shunzo Ohno alle trombe, George Lewis e Tom Malone ai tromboni, Dave Bargeron alla tuba e al trombone basso, John Clark al corno, Gil Evans, Gil Goldstein,  Delmar Brown e Pete Levin alle tastiere, Emily Mitchell all’arpa, Anita Evans alle percussioni, Mark Egan al basso elettrico, Danny Gottlieb alla batteria, Urszula Dudziak alla voce. Manca curiosamente la chitarra elettrica, strumento quasi sempre presente nella produzione evansiana: forse il ruolo trascinante che Hiram Bullock aveva ricoperto negli ultimi anni, dando ai live dello Sweet Basil una brillantezza ed una velocità senza pari, era così impegnativo da indurre Evans a non tentare neppure di rimpiazzarlo, incaricando invece Gil Goldstein di suonarne le parti sulla sua tastiera, ove aveva campionato il suono della chitarra elettrica di Hiram. Un’altra novità era costituita dai vocalizzi della Dudziak, che non sempre dà i risultati sperati risultando troppo invadente in alcuni brani. Nonostante questi limiti, la musica che scaturisce dai cd Egea è ancora oggi fresca e affascinante.

Le reazioni della critica alle serate di San Francesco al Prato furono entusiastiche, e gloria venne dispensata a piene mani dai recensori più in vista del momento, come Pino Candini su Musica Jazz e Vittorio Franchini sul Corriere della Sera. In particolare quest’ultimo ricordava con nostalgia le chiacchierate notturne con Gil nel cortile dell’hotel Rosetta dopo i concerti. Evans parlava spesso del suo progetto di arrangiare la Tosca per la tromba di Miles ma confessava il timore che colui che riteneva «il più grande cantante del mondo» non fosse più in grado di librarsi con la limpidezza necessaria. Sarebbe rimasto solo un sogno perché, al termine di un anno di grandi successi ma affaticanti attività concertistiche, Evans ebbe un rapido peggioramento di salute durante una frenetica tournée organizzata da Laurent Cugny nell’inverno seguente, e dopo pochi mesi concluse purtroppo la sua esistenza terrena.

Nell’inverno del 1987 i votanti al nostro Top Jazz elessero la Gil Evans Orchestra al primo posto nella categoria «miglior gruppo straniero» con 113 punti, infliggendo un distacco abissale al quartetto di Ornette Coleman, secondo con 38 punti: Miles fu quinto con 18 punti. Mai si era vista una vittoria più plebiscitaria a suggellare il più sfolgorante addio alle scene vissuto nella storia del jazz.

Giancarlo Spezia