GIANMARIA TESTA: LAVORI IN CORSO

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Un doppio album dal vivo che racconta vent’anni di musica di Gianmaria Testa. Il cantautore piemontese parla di sé, dell’evoluzione politica e sociale italiana, di jazz e dei suoi impegni futuri.

«Men At Work» [Incipit, distr. Egea] è un lavoro che racchiude vent’anni di carriera. Quale bilancio ne hai tratto?

Non ho mai fatto un bilancio, è stato tutto così casuale. Soprattutto rendere pubblico il mio scrivere musica, perché scrivo canzoni da quando avevo quattordici anni ma è sempre stata un’attività strettamente personale. Tieni conto che dalle Ferrovie dello Stato sono andato via solo nel 2007 e, dal 1995, andavo anche in giro anche a far concerti. A un certo punto ho smesso, perché arriva un momento in cui devi scegliere la via. Per me prevale la sorpresa, forse perché buona parte della mia attività è legata a tournée all’estero e mi chiedo: perché diamine vengono a sentire delle canzoni in italiano? In effetti una cosa è cambiata: prima scrivevo come uno che confessa delle cose a se stesso, che si fa un esame di coscienza. Ma ora che so che quello che scrivo verrà pubblicato, ho una maggiore consapevolezza e responsabilità.

E’ il tuo secondo album dal vivo: meglio solo o in compagnia?

Sembra strano che lo dica, ma sono contrario ai live, a meno che non ci sia una ragione vera. Il primo è avvenuto per caso, perché all’auditorium del Parco della Musica di Roma registrano tutti i concerti. Era stata una serata particolare, molto emozionante, forse anche un po’ mesta, perché era appena stato eletto Alemanno sindaco di Roma: c’era una sorta di consapevole ed emozionante tristezza e quindi mi è sembrato naturale pubblicarlo. Per «Men At Work», invece, ho voluto recuperare delle mie canzoni che erano andate quasi perse e immortalare il quartetto con Giancarlo Bianchetti, Nicola Negrini e Philippe Garcia, perché c’è una coesione che va al di là della musica. Meglio solo o in compagnia? Penso che l’importante è che ci sia spontaneità, che da solo sembrerebbe emergere di più, ma questa c’è anche con il quartetto: basti pensare che non seguiamo fedelmente la scaletta e loro capiscono al volo cosa io voglia suonare anche solo dl modo in cui imbraccio la chitarra, da ciò che dico prima del brano e così via.

«Men At Work»: siete voi gli uomini al lavoro?

Nonostante sia faticoso essere in tour, non siamo noi. Avendo girato con un minivan, il cartello più frequente che abbiamo trovato è stato baustelle, che per ovvie ragioni non potevamo utilizzare, e  Men At Work, che a differenza del gruppo noto negli anni Ottanta è al plurale. Ma anche per il fatto che ci sono diverse canzoni dell’album «Vita mia» che parlano di lavoro, o meglio di non lavoro. E’ anche un monito: per troppo tempo l’Italia ha sperato nella figura di un salvatore politico, ma questo non si è rivelato tale ed è giunto il momento in cui tutti noi dobbiamo fare qualcosa. E’ tempo di mettersi al lavoro e se una salvezza sarà possibile, dovrà essere collettiva.

A tal proposito, l’album contiene anche 18.000 giorni, cinquant’anni circa: secondo te, quale segno hanno lasciato sul nostro paese?

Hanno lasciato dei segni profondi, accompagnati anche dall’oblio della nostra storia. Ciò che mi preoccupa di più è che l’inizio di questo millennio conduce a una negazione del futuro, almeno in Occidente e soprattutto in Italia, e toglie l’idea di futuro ai giovani. Questi cinquant’anni di liberismo sfrenato hanno avuto come prodotto definitivo la precarietà.

Ne Le traiettorie delle mongolfiere fai riferimento alla caduta delle barriere lessicali e musicali.  Non pensi che oggi si stia facendo un passo indietro?

Ho l’impressione che il mischiare esperienze produca frutti migliori e ciò in ogni settore. Proprio il movimento delle mongolfiere mi ha fatto pensare a quanto ci si influenzi reciprocamente. Però è vero che si sta facendo un passo indietro e questo è un clamoroso errore. In questi anni è successo ciò che accade quando c’è una crisi economica: ognuno tende a difendere il suo piccolo o grande feudo, senza rendersi conto che l’esatto contrario darebbe più frutti. Questo vale anche per la musica, perché le cose più belle sono frutto dell’interazione tra esperienze differenti.

La tua musica si trova in bilico tra diverse forme e strutture. A quale ti senti più vicino?

Sicuramente al genere canzone. Io non sono uno specialista: sono un appassionato ascoltatore anche di jazz, che ho conosciuto meglio quando ho registrato il mio primo disco con la Label Bleu che si era sempre occupata di jazz e grazie al quale ho incontrato Enrico Rava, Michel Benita, Michel Portal. Il primo disco di jazz che ho sentito è stato «Free Jazz» di Ornette Coleman, durante un’occupazione della scuola: facevo la quarta liceo scientifico.

Per farti conoscere dai media italiani c’è voluto il tuo concerto all’Olympia: cos’è che non va in Italia?

Innanzitutto la cultura non viene finanziata. Poi, in Italia e da sempre, viene tutto demandato ai privati e per poter fare cassetta devi provenire da X Factor o un altro talent-show: è la tv che comanda, così i cartelloni delle rassegne sono più o meno omologati. E pensare che in Italia abbiamo la fortuna di avere dei musicisti bravissimi, abituati a tirare la cinghia.

Quali sono i tuoi impegni e obiettivi futuri?

Adesso l’impegno da cinquantacinquenne è quello di fare il padre, a parte una serie di concerti che incominciano a pesare per i numerosi viaggi. Mi piacerebbe scrivere un disco monografico sull’idea della terra, intesa come globo e come quella terra che ho lavorato fino a quando avevo vent’anni. Perché, per come vanno le cose, non sappiamo che fine farà.

A Ayroldi

Men-at-work-Gianmaria-Testa-in-uscita-ad-Ottobre-2013