Georgia Mancio: l’album «Songbook» e i nuovi progetti

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Georgia Mancio

Georgia Mancio sul tuo sito si parla, giustamente, della biografia artistica. Qual è, invece, la tua biografia non artistica?
Sono nata a Londra, i miei genitori sono italiani (Milano e Torino) mentre i miei nonni erano entrambi musicisti, nell’ambito della musica classica ma con loro non ho mai avuto un contatto continuo perché  vivevano in Italia mentre io ero a Londra. Forse è per questo che non ho mai preso in considerazione seriamente lo studio della musica e l’idea di farne una professione. Ho iniziato a studiare video making part-time e per mantenermi agli studi lavoravo – sempre part-time –  come cameriera al Ronnie Scott’s jazz club. Mi piaceva la musica di quel club ed essendo una studentessa non potevo permettermi di andare ai concerti così quando si è verificata l’occasione ho preso al volo il posto, potevo sentire musica gratis! Era un lavoro duro ma che mi aprì gli occhi su di un mondo diverso, quello della musica come lavoro. Lì ho conosciuto molti musicisti, con alcuni di loro mi fermavo a parlare e raccontavo quanto mi piacessero gli standard. Mi spronarono a realizzare un demo e così lo feci. A un certo punto ho capito che non potevo impegnarmi sia nella musica che nel cinema, perché sono due carriere differenti e in entrambe bisogna impegnarsi a fondo. Ho pensato che il mondo del cinema fosse parecchio più complicato, quindi ho deciso di insistere con la musica. Procedendo a piccoli passi, dopo un po’ di anni ho pensato: «Questo è il mio mestiere!». Ho imparato moltissimo, e continuo a farlo, ascoltando e vedendo gli altri musicisti, quelli della old school. Ho studiato canto jazz e classico, frequentando diverse masterclass workshop. Ora sono diciassette anni che faccio solo ed esclusivamente la cantante, senza svolgere altri lavori.

Mentre, quali consideri i passaggi fondamentali della tua vita artistica?
Innanzitutto il lavoro di cameriera al Ronnie Scott’s, perché lì ho avuto modo di vedere tanti musicisti che hanno fatto parte della storia del jazz e che mi fanno fatto capire quanto non sia una vita facile quella del musicista. Poi un concorso di canto jazz a Bruxelles nel 2005, ho partecipato senza pensarci molto, inviai un disco e alla fine vinsi il primo premio. E’ stato un momento incredibile perché lì sentii tantissime cantanti, ognuna con uno stile diverso, ed capii che nel jazz è più importante avere personalità e onestà intellettuale che non solo tecnica. Penso di aver vinto proprio per questo motivo, per il mio impegno. Un altro passaggio fondamentale è stato il festival della voce Revoice! Festival, che ho curato per cinque anni, dal 2010 al 2014, presso il Pizza Express jazz club e ho imparato tantissimo stando al fianco di molti musicisti importanti. Ciò che mi ha più colpita è stato vedere come gli artisti con un forte carisma instaura un vivo e immediato legame con il pubblico. Ho anche imparato molto sul Music Business, sul marketing e su come si organizzano gli eventi. Infine, tre mesi fa abbiamo presentato il nostro disco al Ronnie Scott’s ed è stato un momento molto emozionante.

Quando hai iniziato a scrivere come songwriter?
Ho sempre scritto ma non avevo mai pensato a me stessa come autrice: lo facevo solo per me stessa. Nel 2010 incisi «Silhouette» e metà album erano brani originali con i miei testi. Quando ho iniziato a suonare con Alan Broadbent, abbiamo fatto anche un paio di brani con i miei testi e da lì ha avuto inizio tutto.

Come e quando è iniziata la tua collaborazione con Alan Broadbent?
Inizialmente via email, da tempo adoravo la sua musica e un giorno un amico mi disse che Alan era stato a Londra a suonare, ma non lo avevo saputo! così mi diede l’indirizzo email di Alan e gli scrissi, senza tante speranze. Invece mi rispose subito e l’anno scorso abbiamo suonato insieme in due concerti, poi un’altro ancora. Successivamente mi ha inviato un suo tema registrato nella mia tonalità, dicendomi che in passato avevano già provato a scrivere dei testi sulle sue musiche ma non gli erano mai piaciuti. Ho provato ed è andata bene, anche per altri cinque o sei e quindi mi ha proposto di fare un disco solo di brani originali. In effetti, avevamo già diverse canzoni, anzi abbiamo dovuto lasciarne fuori diverse che, chissà, potranno fare parte di un secondo album.

Georgia Mancio
Georgia Mancio con Alan Broadbent – Songbook, 2016 – foto Carl Hyde

Perché questo titolo?
Lo ha scelto Alan. Io pensavo al titolo di uno dei brani, mentre Alan ha detto: «Questo è il nostro songbook, quindi…». Spiega facilmente il contenuto dello stesso disco.

C’è un filo comune, una storia comune che lega i brani di «Songbook»?
In effetti sì. All’inizio non lo era ma poi ho pensato che le dodici canzoni potevano essere connesse, le storie si andavano a intersecare. Quando Alan mi ha inviato il primo brano era morto mio padre da pochi giorni. Mio padre abitava in Thailandia e non era facile raggiungerla e proprio mentre stavo per recarmi lì per disbrigare gli ultimi affari di mio padre, Alan mi inviò A Long Goodbye. Ho pensato all’infanzia trascorsa, ai ricordi di bambina.

georgia mancio«Songbook» è un disco che lega le arti: quelle visive – espresse nel booklet – la letteratura (nei testi) e la musica. Era un obbiettivo fin dall’inizio o si è realizzato in corso d’opera?
Lo spunto parte da una storia che ha fatto il giro del web: un fotografo che ha fatto una serie di foto dei suoi genitori, ogni anno, e alla fine è rimasto solo il papà, la madre era morta. Questo fatto ha ispirato il brano Cherry Tree e l’immagine dell’albero che cresce con i personaggi della storia. Prima avevo pensato a una foto poi a un disegno e quindi non solo a un songbook ma anche a un picturebook, anche per andare incontro a coloro i quali non comprendono bene la lingua inglese.

Lullaby for MM a chi è dedicata?
E’ dedicata a mio padre e mette in rilievo le mie difficoltà con la lingua Thai, quando dovevo dare le indicazioni ai tassisti per raggiungere la casa di mio padre, che era in luogo non facilmente raggiungibile.

Inoltre c’è una bella dedica a Bud Powell. L’idea è tua o di Alan?
L’idea è, ovviamente, di Alan. Mi ha mandato questa canzone e ho cercato di inserire nel testo titoli di brani di Bud Powell, anche un po’ nascosti.

E riguardo alla collaborazione con Oli Hayrust e Dave Ohm?
Io e Dave collaboriamo da sedici anni mentre con Oli ci conoscevamo ma non avevamo mai suonato insieme. Ho ascoltato a lungo i dischi di Alan prima di decidere che Oli fosse l’uomo giusto: è tecnicamente molto bravo e, così come Dave, sa raccontare la storia. Tra l’altro è più difficile per il pubblico affrontare un repertorio tutto di originals, i musicisti devono esser capaci di penetrare nel contesto artistico.

Un disco con sole nuove composizioni, tutti originals. A quale pubblico è rivolto?
Abbiamo suonato più nei club che nei festival. Quando facciamo i concerti non penso mai che il pubblico possa annoiarsi e così sembra! Il pubblico reagisce bene, durante i live spiego tutte le storie e questo piace molto al pubblico, perché entra a far parte del brano, della storia.

Il linguaggio musicale che più ti si addice è quello legato al jazz della tradizione?
Sì e no. Non faccio distinzioni, se mi piace la melodia non faccio differenze: non voglio fare qualcosa che tutti fanno solo perché di moda. In Inghilterra si usa etichettare i musicisti: quello fa quel tipo di jazz, quell’altro fa avanguardia, quello fusion e così via. A me non piacciono queste etichette.

Pat Metheny ha dato il benestare al tuo testo scritto su di un suo brano.
Sì, su Question And Answer, che è diventato Question The Answer e si trova sull’album «Silhouette».

Conosci molto bene l’interessante scena jazzistica britannica. Quali sono i suoi punti di forza e quelli di debolezza?
Debolezza, i soldi! Penso che in Italia ci sia un diverso rapporto con la cultura, viene più naturale. In Italia, per esempio, ci sono molti più festival. In Inghilterra il pubblico è più anziano, anche se qualcosa sta cambiando grazie a una bella scena di giovani che sta emergendo, ma è un pubblico diverso rispetto a quello che segue il jazz. Inoltre non c’è nessun supporto dal governo: non ci sono mai fondi per il jazz e i club faticano a stare in piedi realizzando cose incredibili con pochi soldi e assumendosi tanti rischi. Il jazz, ancora, non fa parte della nostra cultura come la pop music che è parte integrante della vita degli inglesi fin dagli anni Sessanta. Nel mondo della musica classica ci sono molti più capitali, forse perché presa più seriamente. Anche la stampa, fatta eccezione per le riviste specializzate, si occupa poco di jazz preferendo pop e folk. Ci sono molti gruppi, molti musicisti jazz e mai come adesso la scena è viva e considerata: sono soprattutto giovani e animati da sincero entusiasmo. Per anni si è parlato di jazz statunitense e di jazz europeo e noi siamo stati sempre lì in mezzo, poco considerati. Finalmente oggi qualcosa sta cambiando. Soprattutto nelle grandi città, adesso, si stanno creando dei movimenti e il jazz è diventato più accessibile.

Quali delle tue collaborazioni ritieni più significative?
Ovviamente quella con Alan, perché mi ha fatto diventare consapevole della scrittura dei testi. Poi quella con Ian Shaw che è un musicista strepitoso e ogni volta con lui è una grande lezione di jazz. Ora sto iniziando una collaborazione con un’amica pianista, Kate Williams figlia del grande compositore John Williams, abbiamo scritto qualcosa insieme in «Silhouette» e ora stiamo lavorando su di un nuovo progetto in trio e/o quartetto. Un’altra persona che non dimenticherò mai è Bobby McFerrin, con il quale ho avuto l’onore di cantare in uno dei gruppi che lui forma durante le masterclass.

Songbook a parte, stai lavorando ad altri progetti?
Il progetto con Kate farà parte di un festival di cui mi sto occupando, più piccolo rispetto a Revoice!, che era molto impegnativo. Il festival si chiama Hang, perché per un musicista il concerto significa relax e si tiene a ottobre.

Alceste Ayroldi

Georgia Mancio
Ian Shaw e Georgia Mancio al Pizza Express Jazz Club, Soho 2013