Franco D’Andrea: il jazz ha dato senso alla mia vita

Vincitore del Top Jazz già dalla sua prima edizione, e anche nell'edizione 2016 come musicista italiano dell'anno, il pianista di Merano spiega il modo in cui si accosta all'armonia

2571
Franco D'Andrea

Franco D’Andrea, ci racconti in breve il tuo approccio all’armonia?
Avevo approfondito l’ambito tonale attraverso l’ascolto di pianisti come Bill Evans e Herbie Hancock che, per la mano sinistra, adoperavano accordi a centro tastiera spesso senza le fondamentali con armonici superiori al loro interno, come la tredicesima e la nona; ma anche pianisti di origine californiana come Rudd Freeman, Pete Jolly e Hampton Hawes che avevano, tra l’altro, un voicing molto particolare derivante da Bud Powell e in parte da Monk: l’uso di bicordi vuoti nella mano sinistra, posizionati nel registro medio-basso. Dall’ascolto di McCoy Tyner, che usava in modo originale una proiezione della tendenza pentatonica di Coltrane, imparai invece il modo di armonizzare per quarte e far scorrere gli accordi lungo la scala per creare dinamismo, portando il discorso armonico fuori dall’impianto tonale. Le quarte sono molto importanti nel mondo pentatonico e creano una grande vicinanza tra l’aspetto melodico e quello armonico, come appare chiaro in A Love Supreme. Ero vicino al passaggio successivo: proiettare l’orizzontale nel verticale.

Nel jazz ha ancora senso la classica distinzione tra tonale e modale?
Penso di sì. Abbiamo bisogno di punti di riferimento, altrimenti non capiamo più niente. Ciò non toglie che ci siano diverse sfumature. Io, per esempio, passo dall’ambito tonale a quello modale con la consapevolezza delle rispettive peculiarità. Quando voglio evocare uno di quei mondi non vado solo a lavorare sul piano ritmico, sui riff, ma lo faccio usando meccanismi tonali come sequenze sul circolo delle quinte e poi metto un voicing un po’ caratterizzato come le decime, oppure uso il sistema della cadenza con accordi che danno l’effetto di dominante-tonica proprio per evocare una certa atmosfera o un colore, magari per poi finire su una situazione astratta. Nel jazz tutti i parametri hanno la stessa importanza; è possibile delineare un brano anche concentrandosi su uno solo di questi parametri mentre gli altri rimangono sullo sfondo, come accade per esempio in Oleo con la sua importante idea ritmica.

Il fatto che il jazz abbia una componente importante affidata all’improvvisazione quanto influenza l’uso e la concezione dell’armonia?
Tutti i parametri della musica vanno studiati e preparati con la stessa accuratezza per poter rendere al massimo: melodia, ritmo, timbro… Ma l’armonia è quello che si può improvvisare di meno. Si tratta di un parametro che più di ogni altro va pianificato e studiato in modo certosino. Non si può interpretare un brano, anche tonale, se non si è studiato il percorso armonico di base, preparato almeno un paio di voicings alternativi per gli accordi e qualche sostituzione. Anche Monk, che era noto per la sua imprevedibilità, adotta soluzioni che ricorrono più volte nelle sue composizioni. Ogni tanto poteva permettersi di improvvisare qualche progressione armonica ma la struttura dell’armonizzazione dei suoi brani rimane abbastanza simile. La scelta di inserire una certa sostituzione può anche essere fatta estemporaneamente, ma le tessere del mosaico sono già pronte e l’improvvisatore decide in che momento usarle. Quelli più bravi hanno magari una maggiore capacità di scegliere all’istante la soluzione giusta in un certo contesto, e poi ci sono musicisti che hanno maggiori possibilità di scelta o che preferiscono agire su altri parametri (armonico, ritmico…).

Franco D'Andrea Piano Trio
La copertina dell’album Trio Music III, secondo classificato nel Top Jazz come Disco Italiano dell’anno 2016

Come vedi il jazz?
Per me è la musica più spontanea che ci sia, un linguaggio molto umano, capace di dare tanto a livello emotivo e intellettuale, grazie all’equilibrio tra i diversi elementi che si compenetrano. Io sono tra coloro che hanno amato il jazz nella sua interezza e sfrutto la prospettiva storica come effetto musicale per raccontare una storia un po’ surreale. Vedo un filo rosso nella storia di questa musica: il jazz ha dato senso alla mia vita e mi permette ancora oggi di vivere con pienezza.

Marco Camerini